Non solo Guantanamo: lettera di un cristiano dalle carceri di Castro

Da Aurea Echevarria, segretaria del Movimiento Cristiano Liberación, che l'ha fatta uscire da Cuba dettandola per telefono (come raccontato qui su Cubanet), il giorno 18 novembre ho ricevuto, come altri sostenitori della causa della libertà di Cuba nel mondo, una lettera scritta da Antonio Díaz Sánchez, prigioniero di coscienza condannato a venti anni di detenzione, attualmente nel carcere El Yuyal del dittatore Fidel Castro Ruz.
Sánchez, nato nel 1962 e padre di due figlie, è stato uno dei sostenitori del Progetto Varela (dal nome del leader religioso cubano Félix Varela), ovvero il progetto, nato nella parrocchia del Cerro (La Havana), di cambiare le istituzioni cubane dal basso, introducendo tramite referendum le libertà politiche e i diritti civili negati, nella convinzione che Castro intendesse davvero applicare quanto scritto nella costituzione cubana (qui la versione inglese).
Il dittatore ha reagito da par suo, respingendo la richiesta di referendum - nonostante le 10.000 firme necessarie fossero state raccolte - e incarcerando, nel marzo del 2003, ben 75 oppositori legati al Progetto Varela (qui la ricostruzione di Amnesty International). Tra questi Sánchez, che è stato condannato a venti anni di carcere. Altri hanno avuto condanne sino a 28 anni.
Questa è la sua lettera, pubblicata appena tradotta in italiano (e grazie a Enzo Reale, autore di uno dei blog più intelligenti, per l'indispensabile aiuto; ogni eventuale imprecisione di traduzione è da attribuire al sottoscritto). Sánchez parte da una constatazione inconfutabile: tutti parlano dei tentati suicidi tra i prigionieri di Guantanamo e nessuno si interessa a ciò che avviene nelle carceri di Castro. Quello che avviene, allora, ce lo racconta lui.

Impazziti o disperati?
Alcuni giorni fa un importante periodico statunitense ha pubblicato - riferisce la stampa castrista - il drammatico fatto accaduto nella Base Navale Nordamericana di Guantanamo, a Cuba, dove un ex talebano, dopo aver parlato con il suo avvocato, si è tagliato le vene e ha provato a impiccarsi. Il fatto è stato ampiamente divulgato dai mezzi nazionali di informazione, che, paradossalmente, non hanno mai fatto allusioni alle frequenti auto-aggressioni che quotidianamente accadono nelle carceri cubane.
Questo modo di fare informazione è una pratica costante nella Cuba comunista, dove sempre si va alla ricerca della pagliuzza nell'occhio altrui senza vedere la trave che portiamo nel nostro. Per questo, ho deciso di scrivere qualcosa su fatti tanto dolorosi.
Questo scritto sarebbe assai più lungo se nominassimo tutte le auto-aggressioni che ho visto durante i due anni e otto mesi che ho trascorso in prigione, quindi citerò solo alcuni casi, che assicuro possono essere moltiplicati sino ad arrivare all'ordine delle centinaia.
E' abbastanza raro che trascorrano due o tre giorni senza che avvengano una o più auto-aggressioni nella prigione "El Yuyal, Cuba Sì", dove mi trovo dall'otto di novembre del 2003. La modalità più usata è quella di tagliarsi le vene per provocare il dissanguamento.
Oscar Ramos Aguilera, di 33 anni, originario di Holguín, ha discusso lo scorso martedì 1 novembre con un militare conosciuto come "occhi belli", che gli ha dato un colpo con un lucchetto al sopracciglio destro, procurandogli una ferita che ha avuto bisogno di due punti di sutura. Per questo motivo, Oscar è stato inviato in cella di punizione, dove si è tagliato le vene ed è quasi arrivato al punto di dissanguarsi.
Altro procedimento di auto-aggressione consiste nell'iniettarsi petrolio o sterco umano nella coscia o nell'addome; più di un recluso è morto per questo motivo, come nel caso di Gerardo Banderas, originario di Las Tunas.
Appena un mese fa è stato trovato impiccato nell'infermeria di questa prigione il prigioniero Juan Carlos Sánchez Calderón, detto “el pintico”, di 37 anni di età, che risiedeva nel quartiere Alcides Pino della città di Holguín. Da un po' di tempo Juan Carlos soffriva di forti dolori addominali che in apparenza sono stati il motivo del suicidio.
Quando un prigioniero si dichiara in sciopero della fame si cuce le labbra per mostrare ai militari che è intenzionato a non mangiare né a prendere acqua; non è difficile immaginare quanto sia dolorosa questa cucitura.
Altra cosa che fa davvero rabbrividire è sapere che un buon numero di prigionieri si sono iniettati sangue infettato con il virus dell'HIV.

Ventinove anni ha Alexander Compan, che risiede nella città di Holguín; nel gennaio del 2005 ha terminato una condanna di dieci anni di prigionia, però nello stesso anno è stato ricondotto in prigione per aver commesso altri crimini; quando Alexander ha saputo che sarebbe tornato in carcere si è auto-infettato con il sangue di suo fratello, malato di Aids dopo esserselo iniettato in questa prigione. Oggi i due aspettano di essere giudicati nell'ospedale del carcere, dove sono stati ricoverati i malati di Aids per evitare che continuino le auto-infezioni mediante questo virus mortale.
Lo scorso 26 ottobre è accaduta un'auto-aggressione inedita sino a quel momento. Saranno state le due del pomeriggio quando il prigioniero José Guzmán Rodríguez, detto “Pombi”, proveniente da Santa Inés nel comune di Calixto García, in provincia Holguín, ha ricevuto la notizia che sua madre era morta da diversi giorni; frustrato per non aver potuto assistere ai funerali e turbato per il dolore della perdita familiare, Guzmán ha deciso di amputarsi interamente il pene. Con l'organo sessuale in mano l'imputato è stato condotto all'ospedale della città di Holguín, dove però i medici non hanno potuto fare niente per reinserirlo nel suo posto; dopo aver suturato, hanno collocato un catetere a una borsa di nylon, dove si va a depositare l'orina.
Se numerose sono le forme di auto-aggressione in questi gironi danteschi chiamati "stabilimenti penitenziari", non meno sono le cause che le motivano. Le cattive condizioni di vita, tra cui si include una pessima alimentazione che può essere definita, per quantità e qualità, tipica dei campi di concentramento; le condanne eccessive; l'essere rinchiusi in celle di castigo senza luce elettrica; la richiesta di cure mediche; le decisioni ingiuste e arbitrarie che molte volte prendono i militari; perfino la volontà di sfuggire a un imminente pestaggio, non hanno lasciato altra alternativa che le auto-aggressioni.
Quando un prigioniero cubano attenta alla propria salute, non lo fa con l'intenzione di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica, dal momento che a Cuba le prigioni sono buchi neri dove solo i prigionieri politici sono capaci di raccontare quello che vi succede; piuttosto, lo fanno cercando un mezzo per porre fine a tanta agonia e martirio, che trasformano la vita in qualcosa privo di senso. Questa attitudine al suicidio non può essere approvata o incoraggiata da chiunque ami Dio e la vita; io stesso, talvolta con scarsi risultati, ho cercato di impedire che molti reclusi si auto-aggredissero, a rischio che l'aggressione si ritorcesse contro me stesso; però nemmeno posso guardare in silenzio, perché questa sarebbe complicità con le cause ingiuste che provocano tanta sofferenza e li spinge a prendere simili decisioni.
Un'analisi psicologica condotta da uno specialista potrebbe diagnosticare che questi reclusi attraversano, nel momento di auto-aggredirsi, uno stato di follia probabilmente temporaneo; ciò nonostante, quando osservo i segni delle ferite sugli avambracci, gli effetti indelebili dello sterco sul ventre; quando vengo a sapere di qualcuno che si è iniettato sangue infetto con il virus Hiv o mi ricordo di chi si è tagliato il pene, e per di più soffro insieme a loro tanta ingiustizia, non mi resta altra scelta che chiedermi: sono impazziti o disperati?

Antonio Díaz Sánchez
Prigioniero di coscienza
Prigione El Yuyal, Cuba Si.
9 novembre 2005.

(Traduzione di Fausto Carioti)

Titolo originale della lettera: "¿Dementes o desesperados?"

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