Sciopero, si è fermato solo il 5% del Paese. Ecco le prove

di Fausto Carioti
I sindacati e la sinistra dicono che l'Italia ieri si è fermata, perché ha aderito in massa all'ennesimo sciopero generale contro Silvio Berlusconi. Lo dicevano già prima dello sciopero: sulla prima pagina del Manifesto in edicola ieri mattina si leggeva che «l'Italia si ferma contro la Finanziaria». Come noto, il risultato finale, in certi casi, non può mai essere inferiore alle previsioni. Così, a manifestazioni concluse, Cgil, Cisl e Uil, con la modestia del caso, hanno definito l'iniziativa «un successo straordinario», sbandierando un'adesione allo sciopero «tra l'ottanta e il novanta per cento». Sono gli stessi concetti che ritroveremo nella grande maggioranza dei quotidiani in edicola oggi. Solo che sono due cose non vere.
Primo. Non è vero che lo sciopero è stato un successo «straordinario». Se lo sciopero non è un atto di puro esibizionsmo, ma la prosecuzione della trattativa politica (in questo caso nei confronti del governo) mediante altri mezzi, l'aggettivo giusto da usare è «fallimentare». Silvio Berlusconi, che pure nel 1994 in seguito a uno sciopero generale perse palazzo Chigi e finì vittima del ribaltone orchestrato dall’allora presidente della Repubblica, stavolta si permette il lusso di irridere apertamente i suoi oppositori di piazza. Neanche finge di provare rispetto per la loro protesta. Nemmeno ci pensa a fare marcia indietro su una Finanziaria che peraltro, se ha un difetto, è quello di essere timida e di non tagliare le spese correnti come si potrebbe. Il premier definisce quello di ieri «uno sciopero assolutamente inutile che fa parte di un rito trito che non ha nessun effetto». Irridenti anche i suoi ministri, primo tra tutti il leghista Roberto Castelli: «È il rito del venerdì, bisognerebbe preoccuparsi se non ci fosse». Il premier fa così perché crede di essere - probabilmente a buona ragione - in sintonia con la gran parte degli italiani, che ne hanno le scatole piene di finire vittime di minoranze ultrasindacalizzate che li costringono a perdere autobus, treni e aerei, o li obbligano a restare a casa perché la scuola dei figli è chiusa, anche quando avrebbero tutte le intenzioni di andare al lavoro.
Sino a cinque anni fa lo sciopero generale era ritenuto, anche dagli stessi sindacati, l’equivalente di una bomba nucleare: l’arma definitiva, da usare con grande attenzione e solo in casi estremi, anche perché, una volta esplosa, lascia il sindacato senza più possibilità di spingere avanti l’escalation del conflitto sociale. Se hai sganciato l’atomica sul tuo avversario e questo tira dritto fregandosene, hai perso ogni possibilità di trattativa. È proprio quello che infatti sta avvenendo. Solo che un simile ragionamento, che il sindacato in passato aveva sempre rispettato, valeva in tempi normali, quando al governo non c’era il nemico numero uno del blocco politico formato da sindacati e opposizione. Quando, insomma, l’obiettivo del sindacato era giungere, anche con le maniere dure, a un accordo, non quello di bruciare in piazza il presidente del Consiglio.
Ora lo sciopero è diventato l’arma più inflazionata, che si somma alle tantissime astensioni dal lavoro proclamate per le ragioni più diverse, in un grande calderone nel quale il cittadino comune non sa più distinguere le ragioni politiche degli scioperi generali dalle motivazioni contrattuali degli scioperi di categoria. Non capisce se quelli scesi in piazza (come ieri a Roma) sono femministe che protestano contro monsignor Camillo Ruini e la temuta revisione della legge sull’aborto, se sono comunisti incavolati con la missione di pace in Iraq, studenti che ce l’hanno con la riforma della scuola, reduci girotondini indignati per la Salvapreviti o pensionati scesi in piazza sotto le insegne del sindacato per prendersela con una Finanziaria che pochissimi di loro hanno letto.
Secondo: non è vero che ha scioperato una quota «tra l’ottanta e il novanta per cento dei lavoratori». Anche volendo considerare lo sciopero un atto di esibizionismo fine a se stesso, ieri, per chi sa leggere i numeri, c’era molto poco da esibire. Volendo usare come parametro della riuscita dello sciopero il calo dei consumi elettrici, come fece per prima la Cgil di Sergio Cofferati nel 2002 (per poi smettere dinanzi ai sostanziali insuccessi degli scioperi successivi), quello di ieri è stato uno dei peggiori flop sindacali. I dati sul fabbisogno di elettricità diffusi da Terna, la società responsabile della trasmissione di energia elettrica lungo la rete nazionale, dicono che alle ore 10, 11 e 12 di ieri mattina, cioè nel pieno dello sciopero, la domanda nazionale di elettricità è stata, rispettivamente, di 48.527, 48.139 e 47.074 megawatt. Volendo, come da prassi, fare la differenza con i consumi registrati nelle stesse ore del venerdì della settimana precedente, si nota che durante lo sciopero vi è stato, in media, addirittura un lieve aumento dei consumi elettrici, pari allo 0,9%. Insomma, lo sciopero non avrebbe prodotto alcun effetto sull'attività delle industrie e degli uffici. È vero, però, che negli ultimi giorni la temperatura è scesa, e questo fa aumentare i consumi di elettricità. I tecnici di Terna avevano comunque fatto stime molto accurate di quella che sarebbe stata la domanda di energia di ieri senza lo sciopero, tenendo ovviamente conto dell’abbassamento della temperatura. Rispetto a queste previsioni i consumi reali, nei tre orari esaminati, sono stati inferiori, in media, del 5,1%. E questa, quindi, deve essere considerata la stima più precisa dell’Italia che si è fermata per causa dello sciopero: il 5%.
Quindi, delle due l’una. O i leader di Cgil, Cisl e Uil hanno dato cifre sballate (ma di brutto). Oppure il novanta per cento di “lavoratori” che a detta dei sindacati si sono astenuti dal lavoro («l’Italia che vuole cambiare», secondo la definizione dell’Unità) contribuiscono alla produzione italiana per una quota risibile. E il restante dieci per cento dei lavoratori che non danno retta al sindacato, da soli, spostano in avanti quasi l’intero carro della produzione nazionale.
Post scriptum. Luigi Angeletti, segretario generale della Uil, ieri, dal palco di Palermo, è riuscito a dire che «dieci anni fa si stava meglio». È un concetto che a sinistra amano ripetere in tanti. Nel 1995, per chi - come Angeletti - se lo fosse dimenticato, c’erano 2.769.000 italiani in cerca di lavoro (oggi i disoccupati sono 932.000 in meno), gli occupati erano 20.086.000 (oggi sono 2.565.000 in più) e la disoccupazione al Sud era al 21,2% (oggi è al 14,1%). Spiace dover ricordare certe cose a un sindacalista.


© Libero. Pubblicato il 26 novembre 2005.

Nota importante. In questo post i numeri dei consumi elettrici durante le ore dello sciopero divergono da quelli pubblicati sull'articolo uscito oggi su Libero, di cui il post costituisce, di fatto, un aggiornamento. Questo perché i dati di ieri, come chiarito nel testo originale, erano stime provvisorie, mentre oggi mi è stato possibile avere quelli definitivi. Questo spiega perché nell'articolo apparso su Libero l'effetto dello sciopero sui consumi sia stato sovrastimato, a tutto vantaggio dei sindacati, visto che i dati provvisori ricavati dalla curva della domanda di elettricità davano uno scostamento, rispetto alle previsioni dei tecnici Terna, pari al 7,2%.

Lettura complementare e fortemente consigliata: Leggende metropolitane, di Phastidio.

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