Prodi e Berlusconi dinanzi alla legge: un documento per capire

Romano Prodi e Silvio Berlusconi dinanzi alla legge: due casi identici, come sostengono gli uomini del premier, o due casi che non hanno nulla a che fare l'uno con l'altro, come replica indignato il professore bolognese? Chi ne parla lo fa per partito preso, pochi sembrano conoscere bene i fatti. Qui sotto trovate un documento importante. E' la vicenda, con tanto di citazioni dai documenti ufficiali del processo per il caso Iri-Cirio Bertolli De Rica, così come raccontata nel bel libro di Ferdinando Imposimato, Giuseppe Pisauro e Sandro Provvisionato "Corruzione ad Alta Velocità", pubblicato dalle edizioni Koinè nel 1999. In alcune librerie ancora si trova (qui, sul sito della Koinè, si può acquistare online).
Imposimato, per chi non lo conoscesse, è stato giudice istruttore di alcuni dei più importanti processi italiani, prima di essere eletto in Parlamento per tre legislature consecutive (1987, 1992 e 1994) come indipendente di sinistra. Un insospettabile, insomma.
Pubblico il testo (© Koinè Edizioni) che riguarda la vicenda Prodi-Cirio Bertolli De Rica così come raccontata nel libro. L'unica mia aggiunta è il grassetto con cui ho evidenziato alcune parti chiave del testo. Buona lettura.

«Il 25 novembre 1996, al termine di un’inchiesta serrata che si basa anche su una perizia contabile di ben 13mila pagine svolta dal prof. Renato Castaldo, la Procura di Roma chiede il rinvio a giudizio per il reato di abuso d’ufficio dell’ex presidente dell’Iri Romano Prodi – nel frattempo diventato Presidente del Consiglio – e di altri cinque componenti del consiglio di amministrazione dell’ente: Mario Draghi, Paolo Ferro Luzzi, Giuseppe Glisenti, Antonio Patroni Griffi e Roberto Poli. Richiesta di rinvio a giudizio anche per Carlo Saverio Lamiranda, in quanto legale rappresentante della Fisvi.
Le accuse del pm Geremia sono molto circostanziate: Prodi e gli altri membri del Consiglio di Amministrazione dell’Iri avevano intenzionalmente avvantaggiato la Fisvi di Lamiranda. Prodi, in particolare, fin dal 1990 aveva rivestito la carica di advisory director della Unilever Nv (Rotterdam) e della Unilever Pic (Londra), gruppo che secondo le indagini aveva gestito la trattativa attraverso la Fisvi. Stando all’accusa, Prodi aveva consentito alla Fisvi di acquistare la Cirio-Bertolli-De Rica (da qui in poi CDB, ndr) senza che la stessa avesse i mezzi per realizzare l’operazione. Lo scopo era quello di far avere alla Unilever il ramo olio (Bertolli) dell’azienda per 253 miliardi.
Così facendo Prodi aveva permesso che venisse a conclusione un’operazione molto complicata: la Unilever, di cui lo stesso era advisory director, poteva accaparrarsi il ramo olio, settore strategico del gruppo, senza sopportare gli obblighi di natura finanziaria derivanti dalla stipula del contratto di acquisto direttamente dall’Iri. Lo stesso Prodi, in questo modo, evitava il conflitto di interessi. Inoltre l’Iri aveva venduto la CBD violando le direttive del Cipe che prescrivevano il conseguimento del miglior prezzo.
Ma non è finita. L’Iri, così facendo, aveva ripetutamente consentito la modifica delle condizioni dello schema di contratto in modo del tutto favorevole all’acquirente senza alcun vantaggio, anzi con danno, per l’Iri. La cessione delle azioni della CBD era inoltre avvenuta sulla base della valutazione di una società, la Parifin, che non aveva valutato la reale consistenza patrimoniale della Fisvi e la sua capacità di reddito, fidandosi soltanto dei dati di bilancio.
Come se non bastasse, Prodi e i suoi amministratori in seno all’Iri, anziché valutare la possibilità di vendere separatamente i comparti alimentari della CBD, li cedevano tutti alla Fisvi. E questo anche se la Fisvi non solo non aveva indicato i mezzi finanziari per far fronte al pagamento del pacchetto azionario, ma era riuscita ad ottenere perfino una modifica delle condizioni contrattuali. Il lavoro investigativo della dott.ssa Geremia non si svolge con serenità. L’inchiesta Iri-CBD è appena cominciata e quella del consulente Castaldo è in corso, ed ecco che il Pubblico Ministero comincia a subire una serie di atti intimidatori: insulti telefonici, telefonate silenziose, avvertimenti, minacce.
Siamo nell’ottobre-novembre 1996. E’ la prima volta che in un processo per corruzione arrivano intimidazioni così pesanti.
Geremia non si scoraggia e va avanti. Nessuno fino a quel momento sa di quelle minacce che raggiungono la giovane inquirente anche a casa, nella sua abitazione romana, dove vive con l’anziana madre.
E’ in quello stesso periodo che la Geremia dissotterra un altro cadavere giudiziario: il processo sull’Alta velocità con dentro l’affare Nomisma, che - secondo i pm di La Spezia e di Perugia – era stato insabbiato nella capitale da Giorgio Castellucci.
Le minacce e gli insulti si intensificano. L’origine è ignota, ma il movente sembra celarsi in quell’inchiesta scottante sulla vendita della CBD. La Geremia comincia a preoccuparsi. A distanza di anni, ad Imposimato ha confidato: "La cosa strana è che il numero del mio telefono di casa era riservato e solo poche persone lo conoscevano. Come abbiano fatto a trovarlo per me resta un mistero". La Geremia decide allora di denunciare la tortura psicologica cui è sottoposta, ormai a ritmi incessanti, al commissariato di polizia presso la Procura di Roma, a piazzale Clodio. Lo fa il 7 novembre 1996, 18 giorni prima di chiudere l’inchiesta Iri-CBD. Informa anche dell’accaduto il procuratore capo di Roma, Michele Coiro che quel processo tanto delicato le aveva affidato.
Nel frattempo una tempesta si sta addensando proprio sulla testa di Coiro. Il CSM lo accusa di avere rapporti di frequentazione con il capo dei Gip Renato Squillante, arrestato per corruzione. […] Sta di fatto che pochi giorni dopo aver raccolto lo sfogo della Geremia, Coiro è costretto a lasciare la Procura di Roma per assumere la guida della direzione generale degli uffici di detenzione e pena del ministero della Giustizia, refugium peccatorum dei magistrati in disgrazia. […] "Michele Coiro era un magistrato di valore e un grande amico – ha spiegato la Geremia ad Imposimato – la sua morte è stata un duro colpo per me. Mi ha sempre lasciato piena libertà nell’inchiesta sulla Cirio. Non glielo hanno perdonato. Lo hanno costretto a lasciare la procura di Roma sette mesi prima di andare in pensione".
Nonostante i segnali si facciano sempre più evidenti, Geremia continua nella sua indagine che di giorno in giorno si arricchisce di nuovi tasselli. La sua percezione è ormai quella di avere toccato interessi forti, di quel governo invisibile che agisce con tutti i mezzi pur di raggiungere i suoi obiettivi.
Il 25 novembre 1996 un uragano si abbatte sul Palazzo di Giustizia di Roma. Come abbiamo visto Geremia chiede il rinvio a giudizio di Prodi & company per l’affare Cirio. Anche il procuratore aggiunto Giuseppe Volpari, che con le funzioni di reggente sostituisce Coiro, appone la sua firma in calce al provvedimento.
All’udienza preliminare del 15 gennaio 1997 il Gip Eduardo Landi decide di non decidere e rinvia la richiesta della Geremia all’udienza del 28 febbraio. E intanto la Geremia continua a ricevere minacce. Una sera, rincasando, nella cassetta della posta trova una busta contenente una sua fotografia, ritagliata da un giornale, e un coltellino. Questa volta il segnale è ancora più serio. Inequivocabile. I misteriosi personaggi che la perseguitano sembrano decisi a tutto. Informa dell’accaduto il responsabile della Procura di Roma. Denuncia l’episodio al commissariato Vescovio. L’Italia sta per entrare in Europa. Man mano che l’inchiesta Iri-Cirio si avvia al suo luogo naturale, il processo, i pericoli per lei aumentano.
Il giudice Eduardo Landi, nell’udienza preliminare del 28 febbraio, decide che la perizia Castaldo non è sufficiente. Affida quindi ad un collegio di cinque esperti tutta una serie di quesiti legati alle accuse formulate dalla Geremia. A Milano, in casi del genere, non sono mai state disposte perizie. Tra l’altro Landi chiede ai periti una valutazione sul prezzo del gruppo agroalimentare Cirio-Bertolli-De Rica. Strano, perché la Geremia non ha mai fatto questione di prezzo, sollevando invece la questione del vantaggio per la Fisvi ai danni dell’Iri.
L’indagine tecnica è molto accurata e si risolve in una perizia di 612 pagine. Il 22 dicembre 1997 il Gip Landi conclude l’udienza preliminare, assolvendo gli imputati con formula piena: il fatto non sussiste. E qui comincia un’altra singolarità. La sentenza Landi sarebbe dovuta essere depositata entro il 23 gennaio 1998. Così però non è. Geremia l’attende per poter proporre l’impugnazione alla Corte d’Appello. La sua è un’attesa vana. La sentenza giunge sul suo tavolo nel pomeriggio del 9 febbraio: due giorni prima Giuseppina Geremia era stata trasferita alla Procura Generale di Cagliari. Nessuno proporrà impugnazione contro la sentenza di assoluzione di Prodi & company.
Nella sentenza di 47 pagine il giudice Landi si sofferma a lungo sul capo di imputazione, il reato di abuso in atti d’ufficio, la cui formulazione è stata sostituita dal parlamento con una legge del 16 luglio 1997, una legge nuova, intervenuta proprio mentre l’udienza preliminare che vede sul banco degli imputati Romano Prodi è ancora in corso.
Landi osserva correttamente che la nuova ipotesi di abuso – voluta fortemente dall’allora capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro e varata con il pieno appoggio dell’allora Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, grande amico (inutile ricordarlo) dello stesso Prodi – è "più favorevole all’imputato". E questo non solo "avuto riguardo al più mite trattamento sanzionatorio – pena da sei mesi a due anni in luogo della precedente da due a cinque anni – bensì per la trasformazione del delitto da reato di pura condotta o di pericolo, sorretto dal dolo specifico, in reato di evento, in cui il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto devono essere cagionati intenzionalmente". Leggendo la sentenza di Landi si ha la sensazione che questa modifica della legge, votata da maggioranza e opposizione, abbia avuto un peso determinante nell’assoluzione di Prodi. Landi non si chiede – e non ne aveva l’obbligo – se Prodi e soci sarebbero stati condannati secondo la vecchia legge. Molti imputati di tangentopoli, giudicati tempestivamente, in base alla vecchia legge per fatti anche meno gravi di quelli attribuiti al prof. Prodi sono stati duramente condannati a pene severe e sono finiti in galera. Qualcuno è arrivato persino a suicidarsi, prima ancora del processo. Ne siamo lieti per Prodi, assolto con formula piena. Ma sarebbe interessante conoscere per intero la verità storica di questa vicenda che continua a rimanere oscura ed inquietante».

Post popolari in questo blog

L'articolo del compagno Giorgio Napolitano contro Aleksandr Solzhenitsyn

Anche De Benedetti scarica Veltroni

Quando Napolitano applaudiva all'esilio di Solzhenitsyn