It's the end of the oil as we know it (and I feel fine)
Quello di Matthew R. Simmons è probabilmente il libro più discusso a Washington di questi tempi. Se ciò che vi è scritto è esatto, tutte le certezze che abbiamo avuto sino ad oggi sul petrolio sono da rivedere.
di Fausto Carioti
L’Occidente ha scommesso il proprio futuro su un numero che potrebbe non esistere. Viaggiamo, investiamo e produciamo nella convinzione che sotto il suolo dell’Arabia Saudita ci siano 262 miliardi di barili di petrolio (il 22% delle riserve accertate nel mondo), che rappresentano la polizza sul nostro benessere, la sicurezza che, qualunque cosa accada, avremo comunque carburante per i nostri motori ed energia per le nostre lampadine ancora per decenni. Ma - qui è il bello - non esiste alcuna prova che tutto ciò sia vero: il nostro è, né più né meno, un atto di fiducia cieca nei confronti della dinastia di Riad. La compagnia saudita Aramco, dal 1979, si rifiuta infatti di spiegare al mondo dove giace il petrolio che dovrebbe farci dormire sonni tranquilli. Lo può fare perché, a differenza delle aziende petrolifere europee ed americane, quotate in Borsa ed obbligate alla trasparenza, essa è statalizzata e deve rendere conto solo ai principi sauditi. Quel che è peggio, ogni dettaglio che filtra dall’Aramco smentisce l’ottimismo di facciata e conferma che il Paese è alle prese, da anni, con un disperato progetto per contrastare il calo strutturale della propria offerta, dovuto all’anzianità e al super-sfruttamento dei campi petroliferi. Questi ed altri dati sul greggio saudita, tutt’altro che rassicuranti, sono contenuti nel libro che più sta facendo discutere l’amministrazione americana. Si intitola "Twilight in the Desert", è scritto da Matthew R. Simmons, presidente di una banca d’investimento specializzata nell’industria dell’energia, con sede a Huston, nel Texas. Simmons è anche consulente personale del presidente americano George W. Bush. Le sue tesi, e le implicazioni che hanno per gli Stati Uniti e il resto del mondo, sono state oggetto di una serie di seminari al Center for Strategic and International Studies di Washington, uno dei think tank neo-conservatori più apprezzati dalla Casa Bianca, nel cui board siedono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger e il “falco” dei democratici Zbigniew Brzezinski.
La mole di dati storici e di nuovi elementi che Simmons porta è notevole. Colpisce, innanzitutto, l’atteggiamento spregiudicato dei sauditi sin dal 1979, quando, in seguito alla nazionalizzazione, rimpiazzarono le compagnie occidentali nello sfruttamento del greggio nazionale. Nel 1977 le riserve accertate nel Paese dagli europei e dagli americani ammontavano a 100 miliardi di barili, ed erano in netto calo da anni. Nel 1979 i sauditi smettono di fornire i dati sulle riserve di ogni singolo giacimento, ma, con una decisione dal forte sapore politico, innalzano il loro valore complessivo a quota 150 miliardi di barili, che diventano 160 miliardi nel 1982 e 260 miliardi nel 1988. Cifra dalla quale, nonostante l’intensa attività estrattiva e la mancanza di nuove scoperte di rilievo, non si sono più mosse.
Eppure il primo colpo all’industria petrolifera saudita, sostiene Simmons, l’hanno dato le compagnie occidentali Chevron, Texaco, Mobil ed Exxon già all’inizio degli anni Settanta, allorché, per massimizzare gli ultimi profitti prima della nazionalizzazione, decisero di mandare i giganteschi campi petroliferi in sovrapproduzione. Stessa pratica adottata poi dalla Aramco, che per diventare il primo produttore al mondo non ha esitato a spingere sempre più forte la pressione dei pozzi ogni volta che ha avuto la possibilità di conquistare quote di mercato. Per fare questo ha anche praticato enormi “iniezioni” di acqua sotto i giacimenti, in modo da spingere il petrolio in alto. Un espediente diffuso, che paga nell’immediato, ma se abusato accorcia la vita del campo petrolifero e riduce la quantità totale di greggio che da esso si può estrarre.
Il quadro del mercato del petrolio dipinto nel libro mette i brividi, tanti sono i dati fondamentali sottratti a ogni possibile controllo. Dal 1982, infatti, tutti i Paesi aderenti all’Opec hanno smesso di fornire dati disaggregati sui loro singoli giacimenti. In questo modo, le cifre complessive date da loro sono diventate assolutamente infalsificabili, mentre è forte l’interesse di ogni Paese a gonfiarle il più possibile. Il risultato è che la sfiducia reciproca regna tra i membri dell’Opec i quali, per poter conteggiare almeno la quantità di petrolio prodotta da ognuno di loro, si sono dovuti affidare a una società esterna. Non tranquillizza sapere che la società in questione, che si chiama Petrologistics, ha la sede a Ginevra sopra una drogheria ed è composta da una sola persona. Il signor Conrad Gerber si vanta di avere una trentina di spie dislocate nei porti più importanti del mondo. Ma, siccome sono spie, il loro nome deve rimanere segreto. Così anche i numeri della Petrologistics, su cui si basa la stessa Opec, vanno creduti con un atto di fede.
Studiando centinaia di documenti depositati nell’archivio della Spe, la società degli ingegneri petroliferi, Simmons ha scoperto che già trent’anni fa gli uomini della Aramco si trovarono a fronteggiare il problema dell’invecchiamento dei pozzi. Da allora hanno usato le migliori tecnologie disponibili, come la trivellazione orizzontale e l’analisi tridimensionale, per allungare la vita dei giacimenti. Mentre la ricerca di nuovi depositi naturali di greggio, pure essa condotta con i mezzi più avanzati, non ha dato i risultati sperati: salvo qualche piccola area, ogni centimetro quadrato della sabbia saudita è stato sondato, ma i giacimenti scoperti sono pochi e di dimensioni neanche paragonabili a quelle dei primi, immensi campi petroliferi aperti da Riad. Dal 1950 ad oggi nel Paese, nonostante gli sforzi, è stato scoperto un solo grande giacimento, nel 1967. Di fatto l’intera produzione petrolifera saudita oggi è garantita da campi attivi da oltre 40 anni, tutti concentrati nella stessa area, e che per lunghi periodi della loro vita sono stati spremuti al massimo della capacità.
Eppure le autorità saudite continuano a dichiarare che le loro riserve ammontano a oltre 260 miliardi di barili e che, in futuro, saranno in grado di aumentare la loro produzione dagli attuali 10,6 milioni di barili al giorno sino a 15, 20 e persino 25 milioni di barili. Risponde Simmons: «Il mondo non può più stare al gioco del “Fidatevi”. Il velo è stato sollevato. In assenza di dati dettagliati e verificabili che confermino le pretese dei sauditi, è giunto il momento di fare come il bambino della storia e dire che “il re è nudo”».
© Libero. Pubblicato l'8 settembre 2005.
Link utili
I numeri ufficiali: il capitolo della "BP World Energy Statistical Review 2005" dedicato al petrolio (formato Pdf)
"Twilight in the Desert" su Amazon
Le slide presentate da Simmons al Center for Strategic & International Studies (formato Pdf)
Intervista di Simmons a Financial Sense Online
Il sito di Simmons con alcuni suoi interventi
La risposta dell'Aramco alle accuse di Simmons
di Fausto Carioti
L’Occidente ha scommesso il proprio futuro su un numero che potrebbe non esistere. Viaggiamo, investiamo e produciamo nella convinzione che sotto il suolo dell’Arabia Saudita ci siano 262 miliardi di barili di petrolio (il 22% delle riserve accertate nel mondo), che rappresentano la polizza sul nostro benessere, la sicurezza che, qualunque cosa accada, avremo comunque carburante per i nostri motori ed energia per le nostre lampadine ancora per decenni. Ma - qui è il bello - non esiste alcuna prova che tutto ciò sia vero: il nostro è, né più né meno, un atto di fiducia cieca nei confronti della dinastia di Riad. La compagnia saudita Aramco, dal 1979, si rifiuta infatti di spiegare al mondo dove giace il petrolio che dovrebbe farci dormire sonni tranquilli. Lo può fare perché, a differenza delle aziende petrolifere europee ed americane, quotate in Borsa ed obbligate alla trasparenza, essa è statalizzata e deve rendere conto solo ai principi sauditi. Quel che è peggio, ogni dettaglio che filtra dall’Aramco smentisce l’ottimismo di facciata e conferma che il Paese è alle prese, da anni, con un disperato progetto per contrastare il calo strutturale della propria offerta, dovuto all’anzianità e al super-sfruttamento dei campi petroliferi. Questi ed altri dati sul greggio saudita, tutt’altro che rassicuranti, sono contenuti nel libro che più sta facendo discutere l’amministrazione americana. Si intitola "Twilight in the Desert", è scritto da Matthew R. Simmons, presidente di una banca d’investimento specializzata nell’industria dell’energia, con sede a Huston, nel Texas. Simmons è anche consulente personale del presidente americano George W. Bush. Le sue tesi, e le implicazioni che hanno per gli Stati Uniti e il resto del mondo, sono state oggetto di una serie di seminari al Center for Strategic and International Studies di Washington, uno dei think tank neo-conservatori più apprezzati dalla Casa Bianca, nel cui board siedono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger e il “falco” dei democratici Zbigniew Brzezinski.
La mole di dati storici e di nuovi elementi che Simmons porta è notevole. Colpisce, innanzitutto, l’atteggiamento spregiudicato dei sauditi sin dal 1979, quando, in seguito alla nazionalizzazione, rimpiazzarono le compagnie occidentali nello sfruttamento del greggio nazionale. Nel 1977 le riserve accertate nel Paese dagli europei e dagli americani ammontavano a 100 miliardi di barili, ed erano in netto calo da anni. Nel 1979 i sauditi smettono di fornire i dati sulle riserve di ogni singolo giacimento, ma, con una decisione dal forte sapore politico, innalzano il loro valore complessivo a quota 150 miliardi di barili, che diventano 160 miliardi nel 1982 e 260 miliardi nel 1988. Cifra dalla quale, nonostante l’intensa attività estrattiva e la mancanza di nuove scoperte di rilievo, non si sono più mosse.
Eppure il primo colpo all’industria petrolifera saudita, sostiene Simmons, l’hanno dato le compagnie occidentali Chevron, Texaco, Mobil ed Exxon già all’inizio degli anni Settanta, allorché, per massimizzare gli ultimi profitti prima della nazionalizzazione, decisero di mandare i giganteschi campi petroliferi in sovrapproduzione. Stessa pratica adottata poi dalla Aramco, che per diventare il primo produttore al mondo non ha esitato a spingere sempre più forte la pressione dei pozzi ogni volta che ha avuto la possibilità di conquistare quote di mercato. Per fare questo ha anche praticato enormi “iniezioni” di acqua sotto i giacimenti, in modo da spingere il petrolio in alto. Un espediente diffuso, che paga nell’immediato, ma se abusato accorcia la vita del campo petrolifero e riduce la quantità totale di greggio che da esso si può estrarre.
Il quadro del mercato del petrolio dipinto nel libro mette i brividi, tanti sono i dati fondamentali sottratti a ogni possibile controllo. Dal 1982, infatti, tutti i Paesi aderenti all’Opec hanno smesso di fornire dati disaggregati sui loro singoli giacimenti. In questo modo, le cifre complessive date da loro sono diventate assolutamente infalsificabili, mentre è forte l’interesse di ogni Paese a gonfiarle il più possibile. Il risultato è che la sfiducia reciproca regna tra i membri dell’Opec i quali, per poter conteggiare almeno la quantità di petrolio prodotta da ognuno di loro, si sono dovuti affidare a una società esterna. Non tranquillizza sapere che la società in questione, che si chiama Petrologistics, ha la sede a Ginevra sopra una drogheria ed è composta da una sola persona. Il signor Conrad Gerber si vanta di avere una trentina di spie dislocate nei porti più importanti del mondo. Ma, siccome sono spie, il loro nome deve rimanere segreto. Così anche i numeri della Petrologistics, su cui si basa la stessa Opec, vanno creduti con un atto di fede.
Studiando centinaia di documenti depositati nell’archivio della Spe, la società degli ingegneri petroliferi, Simmons ha scoperto che già trent’anni fa gli uomini della Aramco si trovarono a fronteggiare il problema dell’invecchiamento dei pozzi. Da allora hanno usato le migliori tecnologie disponibili, come la trivellazione orizzontale e l’analisi tridimensionale, per allungare la vita dei giacimenti. Mentre la ricerca di nuovi depositi naturali di greggio, pure essa condotta con i mezzi più avanzati, non ha dato i risultati sperati: salvo qualche piccola area, ogni centimetro quadrato della sabbia saudita è stato sondato, ma i giacimenti scoperti sono pochi e di dimensioni neanche paragonabili a quelle dei primi, immensi campi petroliferi aperti da Riad. Dal 1950 ad oggi nel Paese, nonostante gli sforzi, è stato scoperto un solo grande giacimento, nel 1967. Di fatto l’intera produzione petrolifera saudita oggi è garantita da campi attivi da oltre 40 anni, tutti concentrati nella stessa area, e che per lunghi periodi della loro vita sono stati spremuti al massimo della capacità.
Eppure le autorità saudite continuano a dichiarare che le loro riserve ammontano a oltre 260 miliardi di barili e che, in futuro, saranno in grado di aumentare la loro produzione dagli attuali 10,6 milioni di barili al giorno sino a 15, 20 e persino 25 milioni di barili. Risponde Simmons: «Il mondo non può più stare al gioco del “Fidatevi”. Il velo è stato sollevato. In assenza di dati dettagliati e verificabili che confermino le pretese dei sauditi, è giunto il momento di fare come il bambino della storia e dire che “il re è nudo”».
© Libero. Pubblicato l'8 settembre 2005.
Link utili
I numeri ufficiali: il capitolo della "BP World Energy Statistical Review 2005" dedicato al petrolio (formato Pdf)
"Twilight in the Desert" su Amazon
Le slide presentate da Simmons al Center for Strategic & International Studies (formato Pdf)
Intervista di Simmons a Financial Sense Online
Il sito di Simmons con alcuni suoi interventi
La risposta dell'Aramco alle accuse di Simmons