Le tragicomiche avventure di Bertinotti in Cina
di Fausto Carioti
Marx è morto, il compagno Mao pure e persino a Pechino se ne sono fatti una ragione già da tempo. Fausto Bertinotti, invece, deve ancora metabolizzare la notizia, e i primi a stupirsene sono proprio i comunisti cinesi che in questi giorni lo ospitano. Il segretario di Rifondazione comunista infatti è in Cina, alla guida di una delegazione della quale fanno parte anche il deputato Alfonso Gianni e il responsabile del dipartimento esteri del partito, Gennaro Migliore. «Dieci giorni che porteranno la delegazione ad incontrare alti rappresentanti del partito comunista cinese», riferisce Liberazione. Ieri, per l’occasione, il titolo sulla prima pagina del quotidiano rifondarolo era di quelli sapidi. «Bertinotti in Cina: “Ecco le nostre critiche”». E uno pensa: “Finalmente!”.
Basta leggere i documenti di Amnesty International per sapere che lo scorso anno, in Cina, «decine di migliaia di persone hanno continuato a essere tenute in custodia o in prigione in violazione dei loro diritti umani fondamentali e sono ad alto rischio di torture e maltrattamenti. Migliaia di persone sono state condannate a morte o hanno subìto la pena capitale, molte di loro dopo processi ingiusti. (...) La libertà di espressione e di religione continua ad essere severamente ristretta nel Tibet e in altre aree. (...) Attivisti politici, inclusi gli aderenti ai gruppi dichiarati fuori legge, così come coloro che chiedono riforme politiche o più democrazia, continuano a essere arbitrariamente detenuti, e in alcuni casi condannati e messi in carcere. Alla fine del 2004 Amnesty International ha contato oltre 50 persone in custodia o in prigione per aver letto o messo in circolazione su Internet informazioni politicamente rilevanti». Anche le cronache degli ultimi giorni forniscono materiale di conversazione tutt’altro che banale: il primo dicembre sessanta attivisti sono stati messi in carcere per aver semplicemente tentato di consegnare una lettera ai dirigenti delle Nazioni Unite riuniti a Shanghai.
E invece. Davanti al viceministro Zhang Zhijun, raccontano gli inviati, Bertinotti ha attaccato il concione contro la mondializzazione economica, della quale la Cina ha deciso di diventare protagonista di primo livello. Bisogna «contrastare l’ispirazione della globalizzazione capitalistica», ha detto il leader di Rifondazione ai compagni cinesi, perché questa «produce fenomeni di crisi sociale e di civiltà», riducendo i diritti umani e sindacali. Insomma, per Bertinotti il problema dei diritti umani in Cina non è legato al tanto che resta del regime comunista, ma all’unica concessione fatta sinora alla società aperta: l’apertura al libero mercato. Eredi di una pazienza millenaria, i comunisti cinesi hanno spiegato all’utopista italiano che «la globalizzazione è una realtà» e che è inutile farci il sangue amaro: meglio usarla per ridurre la povertà, come sta accadendo. All’inviata del Corriere della Sera hanno poi spifferato quello che pensano davvero di Bertinotti: «È uno che può dire certe cose perché è all’opposizione e comunque non dovrà porsi il problema di governare un miliardo e trecento milioni di esseri umani». I complimenti sono reciproci, visto il commento riservato ai padroni di casa dal compagno Gennaro Migliore: «Hanno un atteggiamento blairiano nei confronti della globalizzazione».
I giornalisti hanno poi chiesto a Bertinotti e ai suoi se con le autorità cinesi avessero parlato del massacro di Tienanmen (giugno 1989, 320 morti secondo le fonti ufficiali, 1.300 per le organizzazioni internazionali). Paragone raggelante di Alfonso Gianni: «Sarebbe come discutere del G8 di Genova con Pisanu». Infierisce Bertinotti: «I cinesi hanno sbagliato perché allora la storia successiva non era immaginabile». Cioè: sono colpevoli, ma col senno di poi, non perché hanno ucciso centinaia di persone. Involontariamente eufemistico, il segretario di Rifondazione, quando dice che quei fatti «hanno lasciato una scia di opacità sulla questione dei diritti». Avesse parlato di scia rosso sangue ci sarebbe andato vicino. Del Tibet, manco una parola. Dei prigionieri d’opinione, nemmeno. I diritti negati? Colpa del libero mercato. Non è un caso, insomma, se i cinesi hanno capito subito con chi hanno a che fare. Sono bastate poche ore di colloqui.
© Libero. Pubblicato il 10 dicembre 2005.
Marx è morto, il compagno Mao pure e persino a Pechino se ne sono fatti una ragione già da tempo. Fausto Bertinotti, invece, deve ancora metabolizzare la notizia, e i primi a stupirsene sono proprio i comunisti cinesi che in questi giorni lo ospitano. Il segretario di Rifondazione comunista infatti è in Cina, alla guida di una delegazione della quale fanno parte anche il deputato Alfonso Gianni e il responsabile del dipartimento esteri del partito, Gennaro Migliore. «Dieci giorni che porteranno la delegazione ad incontrare alti rappresentanti del partito comunista cinese», riferisce Liberazione. Ieri, per l’occasione, il titolo sulla prima pagina del quotidiano rifondarolo era di quelli sapidi. «Bertinotti in Cina: “Ecco le nostre critiche”». E uno pensa: “Finalmente!”.
Basta leggere i documenti di Amnesty International per sapere che lo scorso anno, in Cina, «decine di migliaia di persone hanno continuato a essere tenute in custodia o in prigione in violazione dei loro diritti umani fondamentali e sono ad alto rischio di torture e maltrattamenti. Migliaia di persone sono state condannate a morte o hanno subìto la pena capitale, molte di loro dopo processi ingiusti. (...) La libertà di espressione e di religione continua ad essere severamente ristretta nel Tibet e in altre aree. (...) Attivisti politici, inclusi gli aderenti ai gruppi dichiarati fuori legge, così come coloro che chiedono riforme politiche o più democrazia, continuano a essere arbitrariamente detenuti, e in alcuni casi condannati e messi in carcere. Alla fine del 2004 Amnesty International ha contato oltre 50 persone in custodia o in prigione per aver letto o messo in circolazione su Internet informazioni politicamente rilevanti». Anche le cronache degli ultimi giorni forniscono materiale di conversazione tutt’altro che banale: il primo dicembre sessanta attivisti sono stati messi in carcere per aver semplicemente tentato di consegnare una lettera ai dirigenti delle Nazioni Unite riuniti a Shanghai.
E invece. Davanti al viceministro Zhang Zhijun, raccontano gli inviati, Bertinotti ha attaccato il concione contro la mondializzazione economica, della quale la Cina ha deciso di diventare protagonista di primo livello. Bisogna «contrastare l’ispirazione della globalizzazione capitalistica», ha detto il leader di Rifondazione ai compagni cinesi, perché questa «produce fenomeni di crisi sociale e di civiltà», riducendo i diritti umani e sindacali. Insomma, per Bertinotti il problema dei diritti umani in Cina non è legato al tanto che resta del regime comunista, ma all’unica concessione fatta sinora alla società aperta: l’apertura al libero mercato. Eredi di una pazienza millenaria, i comunisti cinesi hanno spiegato all’utopista italiano che «la globalizzazione è una realtà» e che è inutile farci il sangue amaro: meglio usarla per ridurre la povertà, come sta accadendo. All’inviata del Corriere della Sera hanno poi spifferato quello che pensano davvero di Bertinotti: «È uno che può dire certe cose perché è all’opposizione e comunque non dovrà porsi il problema di governare un miliardo e trecento milioni di esseri umani». I complimenti sono reciproci, visto il commento riservato ai padroni di casa dal compagno Gennaro Migliore: «Hanno un atteggiamento blairiano nei confronti della globalizzazione».
I giornalisti hanno poi chiesto a Bertinotti e ai suoi se con le autorità cinesi avessero parlato del massacro di Tienanmen (giugno 1989, 320 morti secondo le fonti ufficiali, 1.300 per le organizzazioni internazionali). Paragone raggelante di Alfonso Gianni: «Sarebbe come discutere del G8 di Genova con Pisanu». Infierisce Bertinotti: «I cinesi hanno sbagliato perché allora la storia successiva non era immaginabile». Cioè: sono colpevoli, ma col senno di poi, non perché hanno ucciso centinaia di persone. Involontariamente eufemistico, il segretario di Rifondazione, quando dice che quei fatti «hanno lasciato una scia di opacità sulla questione dei diritti». Avesse parlato di scia rosso sangue ci sarebbe andato vicino. Del Tibet, manco una parola. Dei prigionieri d’opinione, nemmeno. I diritti negati? Colpa del libero mercato. Non è un caso, insomma, se i cinesi hanno capito subito con chi hanno a che fare. Sono bastate poche ore di colloqui.
© Libero. Pubblicato il 10 dicembre 2005.