La grande avversaria di Irving lo vuole fuori dal carcere. Applausi
Per chi scrive, il caso di David Irving è importante, e lo conferma il fatto che ne parla spesso (qui e qui, ad esempio). E' importante perché si tratta di un experimentum crucis. Ci chiede di decidere dove fissare i limiti della nostra libertà, quando mettere mano al bavaglio. Dobbiamo sbattere in carcere chi pubblica tesi storiche indecenti e infondate? E' giusto dare libertà di parola ai negazionisti? Da queste parti si risponde no alla prima domanda e sì alla seconda. E fa un gran piacere leggere che anche la grande avversaria di Irving, Deborah Lipstadt, la studiosa ebrea che con Irving fu protagonista di uno dei più importanti "processi alle idee" della Storia, scriva su "The Jewish Week" di pensarla esattamente allo stesso modo.
di Fausto Carioti
La difesa di David Irving arriva da dove meno te l’aspetti. Lo storico inglese negazionista dell’Olocausto lo scorso 20 febbraio è stato condannato a tre anni di carcere per apologia del nazismo dalla corte d’assise di Vienna. Una sentenza che la storica americana ed ebrea Deborah Lipstadt - rispondendo ai tanti esponenti della comunità ebraica mondiale che hanno applaudito al verdetto - giudica illiberale e pericolosa, oltre che una forma di pubblicità gratuita e immeritata per il condannato. A destare scalpore è il fatto che la Lipstadt è la grande nemica di Irving. Nel 1994 scrisse un libro, intitolato “Denying the Holocaust”, nel quale definiva il suo collega inglese «un pericoloso negatore dell’Olocausto», nonché «un partigiano di Hitler». Nel 2000 Irving denunciò la Lipstadt e la sua casa editrice inglese, la Penguin Books, dinanzi al tribunale di Londra, negando le accuse, sostenendo che la pubblicazione di “Denying the Holocaust” aveva ridotto la sua fama di storico ai minimi termini e chiedendo un risarcimento per tutti i danni economici che le accuse della Lipstadt gli avrebbero procurato. Il processo, grazie anche al parere “pro veritate” dello storico di Cambridge Richard J. Evans, si ritorse contro Irving: il giudice, dando ragione alla Lipstadt e alla Penguin Books, scrisse che Irving «ha in modo deliberato e persistente traviato e manipolato le prove storiche per ragioni ideologiche e ha rappresentato Hitler in una luce indebitamente favorevole, soprattutto nel suo atteggiamento verso gli ebrei». Lo storico inglese fu anche condannato a pagare una somma ingentissima, ben al di là delle sue possibilità, per coprire le spese della difesa.
Irving è poi tornato sulle cronache lo scorso novembre, quando è stato arrestato in Austria, Paese che considera la negazione dell’Olocausto un crimine e che aveva emesso un mandato di arresto nei confronti dello storico nel 1989. Processato, dovrà scontare tre anni nelle carceri viennesi.
Una condanna che non è piaciuta alla Lipstadt, che ha appena messo il suo disappunto nero su bianco su “The Jewish Week”, il settimanale della comunità ebraica di New York, nonché il più importante periodico ebraico degli Stati Uniti. L’articolo della Lipstadt è intitolato “Perché dobbiamo essere diffidenti nei confronti della censura”. L’avversaria storica di Irving sostiene di essere contraria alle leggi che puniscono chi nega l’Olocausto. «Io credo che esse violino la libertà d’espressione e che in genere si rivelino inefficaci», scrive. Ricordando la sfida con lo storico negazionista, ricorda che la sua vittoria in tribunale «fu fondata sulla storia e la verità, non sulla censura. Se nel Regno Unito fossero esistite leggi contro la negazione dell’Olocausto, non avremmo mai scoperto le menzogne delle quali è pieno il lavoro di Irving; e questo ci riporta al discorso sulla censura, nei cui confronti gli ebrei per primi dovrebbero essere diffidenti».
Quella della Lipstadt è una battaglia in favore della libertà d’espressione, non certo in favore di Irving, nei confronti del quale non ha cambiato opinione. Del resto, nota la storica, non si possono negare a Irving quei diritti che intendiamo garantire ai disegnatori danesi. E questo anche se Irving per primo è un nemico della libertà di parola, che ha querelato chiunque lo abbia accusato di essere un negazionista. Quanto alle sue tesi storiche, la Lipstadt ricorda che «il team dei miei difensori rintracciò le fonti su cui basava le sue tesi sull’Olocausto, scoprendovi tutte le volte una distorsione, una manipolazione o una completa invenzione». E la sua ultima condanna Irving se la è andata a cercare, entrando in Austria, dove sapeva di essere un ricercato, per «provocare» e «divertirsi».
Detto tutto questo, conclude la Lipstadt, «David Irving non si merita il circo mediatico che lo ha trascinato in Austria, ma la completa oscurità. Il suo pubblico futuro dovranno essere i neonazisti, i negazionisti e altri personaggi patetici che preferiscono le bugie alle prove. Non abbiamo bisogno di leggi per ridurli al silenzio, quando abbiamo la verità e la storia dalla nostra parte».
© Libero. Pubblicato il 5 marzo 2006.
"Why We Should Be Wary Of Censorship", di Deborah Lipstadt, su "The Yewish Week"
Post Scriptum. Un bacio e mille grazie a Giulia, che da NY mi ha inviato l'articolo della Lipstadt.
di Fausto Carioti
La difesa di David Irving arriva da dove meno te l’aspetti. Lo storico inglese negazionista dell’Olocausto lo scorso 20 febbraio è stato condannato a tre anni di carcere per apologia del nazismo dalla corte d’assise di Vienna. Una sentenza che la storica americana ed ebrea Deborah Lipstadt - rispondendo ai tanti esponenti della comunità ebraica mondiale che hanno applaudito al verdetto - giudica illiberale e pericolosa, oltre che una forma di pubblicità gratuita e immeritata per il condannato. A destare scalpore è il fatto che la Lipstadt è la grande nemica di Irving. Nel 1994 scrisse un libro, intitolato “Denying the Holocaust”, nel quale definiva il suo collega inglese «un pericoloso negatore dell’Olocausto», nonché «un partigiano di Hitler». Nel 2000 Irving denunciò la Lipstadt e la sua casa editrice inglese, la Penguin Books, dinanzi al tribunale di Londra, negando le accuse, sostenendo che la pubblicazione di “Denying the Holocaust” aveva ridotto la sua fama di storico ai minimi termini e chiedendo un risarcimento per tutti i danni economici che le accuse della Lipstadt gli avrebbero procurato. Il processo, grazie anche al parere “pro veritate” dello storico di Cambridge Richard J. Evans, si ritorse contro Irving: il giudice, dando ragione alla Lipstadt e alla Penguin Books, scrisse che Irving «ha in modo deliberato e persistente traviato e manipolato le prove storiche per ragioni ideologiche e ha rappresentato Hitler in una luce indebitamente favorevole, soprattutto nel suo atteggiamento verso gli ebrei». Lo storico inglese fu anche condannato a pagare una somma ingentissima, ben al di là delle sue possibilità, per coprire le spese della difesa.
Irving è poi tornato sulle cronache lo scorso novembre, quando è stato arrestato in Austria, Paese che considera la negazione dell’Olocausto un crimine e che aveva emesso un mandato di arresto nei confronti dello storico nel 1989. Processato, dovrà scontare tre anni nelle carceri viennesi.
Una condanna che non è piaciuta alla Lipstadt, che ha appena messo il suo disappunto nero su bianco su “The Jewish Week”, il settimanale della comunità ebraica di New York, nonché il più importante periodico ebraico degli Stati Uniti. L’articolo della Lipstadt è intitolato “Perché dobbiamo essere diffidenti nei confronti della censura”. L’avversaria storica di Irving sostiene di essere contraria alle leggi che puniscono chi nega l’Olocausto. «Io credo che esse violino la libertà d’espressione e che in genere si rivelino inefficaci», scrive. Ricordando la sfida con lo storico negazionista, ricorda che la sua vittoria in tribunale «fu fondata sulla storia e la verità, non sulla censura. Se nel Regno Unito fossero esistite leggi contro la negazione dell’Olocausto, non avremmo mai scoperto le menzogne delle quali è pieno il lavoro di Irving; e questo ci riporta al discorso sulla censura, nei cui confronti gli ebrei per primi dovrebbero essere diffidenti».
Quella della Lipstadt è una battaglia in favore della libertà d’espressione, non certo in favore di Irving, nei confronti del quale non ha cambiato opinione. Del resto, nota la storica, non si possono negare a Irving quei diritti che intendiamo garantire ai disegnatori danesi. E questo anche se Irving per primo è un nemico della libertà di parola, che ha querelato chiunque lo abbia accusato di essere un negazionista. Quanto alle sue tesi storiche, la Lipstadt ricorda che «il team dei miei difensori rintracciò le fonti su cui basava le sue tesi sull’Olocausto, scoprendovi tutte le volte una distorsione, una manipolazione o una completa invenzione». E la sua ultima condanna Irving se la è andata a cercare, entrando in Austria, dove sapeva di essere un ricercato, per «provocare» e «divertirsi».
Detto tutto questo, conclude la Lipstadt, «David Irving non si merita il circo mediatico che lo ha trascinato in Austria, ma la completa oscurità. Il suo pubblico futuro dovranno essere i neonazisti, i negazionisti e altri personaggi patetici che preferiscono le bugie alle prove. Non abbiamo bisogno di leggi per ridurli al silenzio, quando abbiamo la verità e la storia dalla nostra parte».
© Libero. Pubblicato il 5 marzo 2006.
"Why We Should Be Wary Of Censorship", di Deborah Lipstadt, su "The Yewish Week"
Post Scriptum. Un bacio e mille grazie a Giulia, che da NY mi ha inviato l'articolo della Lipstadt.