Disinformatjia (ovvero: sono molto peggio di quanto pensiamo)

Se dopo Stalin, dopo "Arcipelago Gulag", dopo "I racconti della Kolyma", dopo Mao Tse Tung, dopo la Cambogia, dopo la Corea del Nord, dopo il Muro di Berlino, dopo Cuba, dopo almeno cento milioni di morti, dopo la repressione reiterata dei più elementari diritti umani, dopo il totale fallimento economico e politico dimostrato in ogni angolo del mondo, certa gente continua con orgoglio a definirsi comunista, è chiaro che non può più riservarti alcuna sorpresa. Però uno pensa che col tempo la selezione darwiniana degli uomini e delle idee qualche effetto, ancorché minimo, lo produca. Pura illusione.
La trasferta americana di Silvio Berlusconi non ha avuto solo il merito di certificare, per la prima volta nella storia italiana del dopoguerra, in modo netto e chiaro, che questo Paese ha una sua politica estera ben definita accanto alla più grande democrazia del mondo (un indirizzo che può piacere o meno, ma che esiste e può essere giudicato da tutti per quello che è. Se chiudi dieci esponenti dell'Unione in una stanza e chiedi loro qual è la politica estera della loro coalizione, otterrai undici risposte diverse). Ha anche costretto una bella fetta della sinistra italiana ad uscire allo scoperto e a dire quello che pensano. Perché non è vero che loro amano "un'altra America", diversa da quella di Bush. La verità è che odiano gli Stati Uniti e tutto ciò che rappresentano: la libertà individuale, la proprietà privata, il libero mercato, il profitto. E il viaggio di Berlusconi e la sua apparizione accanto al presidente degli Stati Uniti hanno avuto il merito di far emergere tutto questo odio represso. Senza pudori, ed è meglio così.
Basta prendere in mano il Manifesto e Liberazione di oggi, scesi in campo mossi dal riflesso pavloviano, con la salivazione aumentata dopo la frase di Berlusconi secondo la quale tutto il mondo deve diventare «un'altra grande straordinaria America» (ovvero suffragio universale, massima libertà di stampa e di espressione, diritti individuali difesi da un sistema giuridico ipergarantista, diritti dei lavoratori tutelati da una pluralità di sindacati, libertà assoluta di culto, libero mercato in ogni angolo del globo: l'incubo di ogni comunista filoislamico, insomma). L'editoriale del Manifesto definisce «negativo» l'atlantismo italiano del dopoguerra. Quello che ci ha tolto dalla miseria nera e ci ha fatto diventare una delle principali democrazie e potenze economiche del pianeta. A conferma del fatto che ancora oggi preferirebbero che fossimo finiti dall'altra parte della cortina di ferro. Lo stesso articolo inventa frasi che Berlusconi non ha mai pronunciato. Gli attribuisce di aver detto che l'Europa è stata «cieca e sorda». Menzogna. Berlusconi, come sa chiunque abbia in casa un televisore (tipico gadget della globalizzazione), ha detto, così come riportato correttamente da tutte le agenzie: «Ci sono alcuni miei colleghi europei che sono ciechi e sordi a questa responsabilità che abbiamo il dovere di assumere». Alcuni colleghi. Ma mentire, deformare quella frase era essenziale per dipingere un Berlusconi non solo filoamericano (cosa che ovviamente è) ma soprattutto ignobilmente e ferocemente antieuropeista, intenzionato a insultare ogni politico europeo.
E invece Berlusconi, per una volta in vita sua, ha pesato le parole. Ha detto che «la guerra è l'ultimo mezzo che deve essere usato quando un paese non democratico dovesse preparare armi di distruzione di massa, lì l'one shot è necessario». Riportano le agenzie: «A chi gli chiedeva se si riferisse all'Iran, Berlusconi ha risposto: "Non pensavo all'Iran... Io non credo che le preparerà [le armi di distruzione di massa]. Soltanto nel caso in cui ci fosse il pericolo di un attacco atomico dovremmo usare la guerra"». Ma il Manifesto, anche in questo caso, finge di non aver letto, preferendo lavorare di fantasia. E scrive che Berlusconi è già pronto a marciare contro l'Iran, «colpevole di dotarsi del nucleare per ora civile». L'esatto contrario di quanto dichiarato dal premier. Esistono la disperazione e la fame nel mondo? La colpa, per il Manifesto, è del fatto che il mondo è «sotto il dominio della libertà a senso unico dell'America».
Liberazione ci mette del suo. Scrive che gli Stati Uniti sono un paese «sempre più povero non per caso, ma per scelta politica». Ora, a parte il fatto che un giornale comunista che si permette di parlare della povertà del Paese più ricco del mondo non lo trovi manco nei film dei Monty Python, tantopiù vista la storia di tragedie economiche (lasciando perdere tutto il resto) che il comunismo si è lasciato alle spalle in ogni Paese in cui è sbarcato, la tragedia vera è intellettuale. E' umana. Abituati come sono all'economia pianificata, i compagni sono convinti che prezzi e salari siano decisi dalla politica. Credono nell'esistenza di una grande cospirazione che tiene le leve dell'economia mondiale e decide chi deve arricchire e chi no (al pari dei loro gemellini della destra antisemita, altri pigmei intellettuali, ma almeno senza la pretesa di insegnare la Verità al mondo). Non hanno letto nulla, non sanno che prezzi e salari li determina il mercato, perché il mercato nasce dall'interazione di miliardi di individui. E loro, abituati ai concetti collettivi, cosa possa essere un individuo proprio non arrivano a capirlo.
E' da anni che dicono che gli Stati Uniti stanno allo sfascio e che il gradimento di Bush è ai minimi storici. Poi gli americani che a loro piace pensare depressi e impoveriti vanno a votare e la stragrande maggioranza di loro, iniziando dagli americani di prima generazione, premia Bush con una valanga di voti. E loro non trovano spiegazione migliore che venirci a dire che è tutta colpa dei gruppi fondamentalisti religiosi. Niente, non ci arrivano proprio. E' come pretendere di far girare un videogioco di ultima generazione su un Commodore 64.

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