"Arrivedorci! Arrivedorci!". E non se ne vanno mai
Umberto Eco, Vauro e le avanguardie della sinistra indignata ri-promettono di andarsene dall'Italia se vince il centrodestra. Qui si è perso il conto di quante volte Antonio Tabucchi e i suoi comprimari hanno fatto questa sceneggiata. C'è un precedente storico di tutto rispetto. Stan Lauren e Oliver Hardy, in quel film nel quale passano cinque minuti a salutarsi. "Arrivedorci!". "Arrivedorci!". Ma restano fermi lì, con l'aria sempre più imbarazzata. E nessuno se ne va. Grande cinema. La commedia all'italiana di Tabucchi, Eco e Vauro, però, è molto più divertente. Un Giovanni Orsina particolarmente ispirato ci dice la sua.
di Giovanni Orsina
Ci risiamo. Il professor Umberto Eco ha detto che, in caso Berlusconi vinca le elezioni, se ne andrà all'estero. Il vignettista Vauro ha rincarato la dose, chiedendo che sia allora organizzata un'ampia comitiva di emigranti, nella quale entreranno lui stesso e centinaia d'altri. Il giornalista dell'«Unità» Marco Travaglio ha invece preso le distanze dall'illustre semiologo: se vincerà Berlusconi, al contrario, bisognerà resistere. «È tempo che stavolta ci vengano a prendere a casa», ha aggiunto. Una frase curiosa, poiché lascia credere che se finora nessuno li è andati a prendere, è perché loro stessi non l'hanno voluto. Il che li renderebbe le più singolari vittime d'un tiranno che l'età contemporanea ci abbia dato: provate a immaginare Stalin presentarsi da un leader trotzkysta e chiedergli cortesemente: «Perdoni, compagno, gradirebbe traslocare nel gulag?».
Anche il professore «girotondino» Pancho Pardi dissente da Umberto Eco, ma con ben maggiore concretezza politica chiarisce quale sia l'unico vero esito cui il moralismo girotondista possa condurre. Se vince Berlusconi dobbiamo restare, dice. Per cacciare il Cavaliere? Macché! Per cacciare la classe dirigente del centro sinistra che lo ha fatto vincere.
Ci risiamo, dicevo. Perché, se ben mi ricordo, già alla vigilia delle elezioni del 1994 furono tanti gli intellettuali progressisti che dichiararono la loro intenzione di espatriare in caso vincesse il centro destra. E nel 1996 vi furono persino degli intellettuali moderati che annunciarono il gran rifiuto in caso di trionfo ulivista. Ma poi, guarda caso, sono rimasti tutti.
Che in questa brutta campagna elettorale sia infine riemerso pure l'antiberlusconismo radicale e moralistico, del resto, non può sorprendere. Quell'antiberlusconismo infatti è roba vecchia: molto più vecchia del Berlusconi leader politico, e alquanto più vecchia persino del Berlusconi individuo. Altro non è che una riedizione a malapena riveduta dell'antifascismo radicale e moralistico che tanta parte ha avuto nella cultura italiana della seconda metà del secolo ventesimo. Per quell'antifascismo, il fascismo non rappresenta un fenomeno storico concreto, nato nel 1919 e defunto nel 1945, ma una categoria della politica permanentemente valida, e contro la quale bisogna perciò vigilare in permanenza. Non solo: il fascismo è la manifestazione più vera dell'Italia profonda – l'«autobiografia della nazione», nella celebre definizione di Piero Gobetti – e la vigilanza antifascista consiste quindi nel muovere guerra al paese, stirandolo, strizzandolo, tormentandolo, violentandolo, fino a quando non si sarà deciso a diventare civile.
Allo stesso identico modo, l'antiberlusconismo radicale e moralistico continua a vedere in Berlusconi non il portatore di un'ipotesi politica, discutibile quanto si vuole ma legittima, e non per caso sottoscritta da milioni d'italiani; non un esponente politico che partecipa alla vita pubblica ormai da dodici anni, che tutti hanno liberamente criticato in abbondanza e che, al termine di un lustro di governo, ha accumulato un bagaglio non indifferente di elezioni democraticamente perdute e di poteri mediatici e sociali schierati all'opposizione. No: vi vede il rappresentante ultimo di quanto di più ignobile l'Italia abbia mai espresso sul terreno non solo politico, ma anche etico. E basti rileggersi l'appello che il professor Eco diffuse in occasione delle elezioni del 2001, nel quale gli elettori del polo di centro destra erano divisi in due categorie: i motivati, descritti come poco meno che delinquenti; gli affascinati, descritti come qualcosa più che idioti. Davanti al quale appello viene da chiedersi: e come mai lo rimetteremo in piedi il nostro povero paese se questi, che in fin dei conti sono milioni, non li strangoliamo tutti?
Stando alle anticipazioni, fra breve nelle sale cinematografiche italiane potremo ammirare un altro illustre esempio di antiberlusconismo radicale e moralistico, in questo caso su pellicola: «Il Caimano» di Nanni Moretti. Il segretario radicale Capezzone, temendo che il film finisca per penalizzare il centro sinistra, ha chiesto – per carità! – che la distribuzione sia rimandata a dopo le elezioni. Io non credo che Capezzone debba avere paura: gli italiani paiono vaccinati a sufficienza perché né gli appelli di Eco né i film di Moretti spostino un voto, da un parte o dall'altra. È una certa intellighenzia italiana, invece, che di vaccini pare non averne presi a sufficienza. Eppure la storia del Novecento di vaccini contro il moralismo, l'elitismo, la presunzione assoluta d'essere nel giusto, l'orrore anzi lo schifo per chi la pensa diversamente ce ne ha messi a disposizione mica pochi.
© Il Mattino. Pubblicato il 7 marzo 2006.
di Giovanni Orsina
Ci risiamo. Il professor Umberto Eco ha detto che, in caso Berlusconi vinca le elezioni, se ne andrà all'estero. Il vignettista Vauro ha rincarato la dose, chiedendo che sia allora organizzata un'ampia comitiva di emigranti, nella quale entreranno lui stesso e centinaia d'altri. Il giornalista dell'«Unità» Marco Travaglio ha invece preso le distanze dall'illustre semiologo: se vincerà Berlusconi, al contrario, bisognerà resistere. «È tempo che stavolta ci vengano a prendere a casa», ha aggiunto. Una frase curiosa, poiché lascia credere che se finora nessuno li è andati a prendere, è perché loro stessi non l'hanno voluto. Il che li renderebbe le più singolari vittime d'un tiranno che l'età contemporanea ci abbia dato: provate a immaginare Stalin presentarsi da un leader trotzkysta e chiedergli cortesemente: «Perdoni, compagno, gradirebbe traslocare nel gulag?».
Anche il professore «girotondino» Pancho Pardi dissente da Umberto Eco, ma con ben maggiore concretezza politica chiarisce quale sia l'unico vero esito cui il moralismo girotondista possa condurre. Se vince Berlusconi dobbiamo restare, dice. Per cacciare il Cavaliere? Macché! Per cacciare la classe dirigente del centro sinistra che lo ha fatto vincere.
Ci risiamo, dicevo. Perché, se ben mi ricordo, già alla vigilia delle elezioni del 1994 furono tanti gli intellettuali progressisti che dichiararono la loro intenzione di espatriare in caso vincesse il centro destra. E nel 1996 vi furono persino degli intellettuali moderati che annunciarono il gran rifiuto in caso di trionfo ulivista. Ma poi, guarda caso, sono rimasti tutti.
Che in questa brutta campagna elettorale sia infine riemerso pure l'antiberlusconismo radicale e moralistico, del resto, non può sorprendere. Quell'antiberlusconismo infatti è roba vecchia: molto più vecchia del Berlusconi leader politico, e alquanto più vecchia persino del Berlusconi individuo. Altro non è che una riedizione a malapena riveduta dell'antifascismo radicale e moralistico che tanta parte ha avuto nella cultura italiana della seconda metà del secolo ventesimo. Per quell'antifascismo, il fascismo non rappresenta un fenomeno storico concreto, nato nel 1919 e defunto nel 1945, ma una categoria della politica permanentemente valida, e contro la quale bisogna perciò vigilare in permanenza. Non solo: il fascismo è la manifestazione più vera dell'Italia profonda – l'«autobiografia della nazione», nella celebre definizione di Piero Gobetti – e la vigilanza antifascista consiste quindi nel muovere guerra al paese, stirandolo, strizzandolo, tormentandolo, violentandolo, fino a quando non si sarà deciso a diventare civile.
Allo stesso identico modo, l'antiberlusconismo radicale e moralistico continua a vedere in Berlusconi non il portatore di un'ipotesi politica, discutibile quanto si vuole ma legittima, e non per caso sottoscritta da milioni d'italiani; non un esponente politico che partecipa alla vita pubblica ormai da dodici anni, che tutti hanno liberamente criticato in abbondanza e che, al termine di un lustro di governo, ha accumulato un bagaglio non indifferente di elezioni democraticamente perdute e di poteri mediatici e sociali schierati all'opposizione. No: vi vede il rappresentante ultimo di quanto di più ignobile l'Italia abbia mai espresso sul terreno non solo politico, ma anche etico. E basti rileggersi l'appello che il professor Eco diffuse in occasione delle elezioni del 2001, nel quale gli elettori del polo di centro destra erano divisi in due categorie: i motivati, descritti come poco meno che delinquenti; gli affascinati, descritti come qualcosa più che idioti. Davanti al quale appello viene da chiedersi: e come mai lo rimetteremo in piedi il nostro povero paese se questi, che in fin dei conti sono milioni, non li strangoliamo tutti?
Stando alle anticipazioni, fra breve nelle sale cinematografiche italiane potremo ammirare un altro illustre esempio di antiberlusconismo radicale e moralistico, in questo caso su pellicola: «Il Caimano» di Nanni Moretti. Il segretario radicale Capezzone, temendo che il film finisca per penalizzare il centro sinistra, ha chiesto – per carità! – che la distribuzione sia rimandata a dopo le elezioni. Io non credo che Capezzone debba avere paura: gli italiani paiono vaccinati a sufficienza perché né gli appelli di Eco né i film di Moretti spostino un voto, da un parte o dall'altra. È una certa intellighenzia italiana, invece, che di vaccini pare non averne presi a sufficienza. Eppure la storia del Novecento di vaccini contro il moralismo, l'elitismo, la presunzione assoluta d'essere nel giusto, l'orrore anzi lo schifo per chi la pensa diversamente ce ne ha messi a disposizione mica pochi.
© Il Mattino. Pubblicato il 7 marzo 2006.