Tra Piero Fassino e Gene Gnocchi non c'è partita

di Fausto Carioti
Vedere Piero Fassino martedì sera a Ballarò era come trovarsi davanti a certi trans che appaiono in televisione. A un primo sguardo ti convincono pure. Poi aprono bocca, li senti parlare e capisci che sotto c’è ancora la fregatura, che l’“operazione” di trasformazione in realtà non è riuscita, che sono rimasti quelli di prima. Come si chiama, infatti, uno che ritiene che debba essere il governo, cioè lo Stato, a decidere per legge quanto debbono guadagnare i lavoratori? La risposta possibile è una sola: si chiama “comunista”. E Fassino tale è rimasto, malgrado le mille operazioni cui si è sottoposto assieme al suo partito dall’inizio degli anni Novanta a oggi.
Era passata un’ora e mezzo dall’inizio della trasmissione quando il segretario dei Ds ha lanciato l’accusa: «In questi anni c’è stata una dinamica che ha ridotto il potere reale d’acquisto dei salari, degli stipendi e dei redditi familiari». Fassino aveva davanti due personaggi. Uno era l’industriale Diego Della Valle, sino a poche ore prima membro del direttivo di Confindustria. Uno che, come ricordato dal Manifesto, «ne ha accumulate di cause per antisindacalità, e anche qualche condanna, l’ultima nel 2000». Un «padrone» che «non concede premi né stipula contratti integrativi aziendali». L’altro era il sottosegretario al Welfare, Maurizio Sacconi. Ecco, dovendo scegliere con chi prendersela, Fassino ha dato la colpa del calo degli stipendi al rappresentante del governo.
Solo che l’Italia non è Cuba. Qui gli aumenti in busta paga non li decide un ministro, ma sono fissati dalla contrattazione tra i sindacati e i rappresentanti delle imprese, che si debbono muovere all’interno del doppio livello di contrattazione (nazionale e aziendale) fissato negli accordi del luglio del ’93. Al governo spetta il compito di tenere bassa l’inflazione, e ci è riuscito: nel 2005 l’inflazione media è stata dell’1,9%, la più bassa dal 1999. Non solo. Nell’ultimo quinquennio un solo datore di lavoro ha concesso aumenti ben superiori a quelli previsti dagli accordi di luglio: il governo italiano. L’ultimo rinnovo contrattuale dei dipendenti statali sottoscritto tra esecutivo e sindacati, lo scorso maggio, prevede un aumento del 5%, pari a 100 euro in più a busta paga. Una concessione che ha scatenato le ire di Confindustria, spaventata per l’effetto di trascinamento che l’accordo del pubblico impiego avrebbe avuto sui rinnovi dei contratti privati.
Se il segretario dei Ds ritiene che le buste paga dei lavoratori in questi anni siano cresciute poco, dunque, è con Della Valle e i suoi amici di Confindustria schierati in difesa dei dividendi che deve prendersela, e non con il governo, che ha usato i soldi dei contribuenti per tenersi buoni gli statali. Ma il salottino con vista su via Solferino non si può toccare, perché è impegnato a sdoganare Fassino e compagni. Giù botte al governo, quindi. Con Della Valle ben lieto di dare una mano.
La guerra di Piero non ha risparmiato i dati dell’occupazione. Fassino ha detto che «negli ultimi dodici mesi, per la prima volta in questo Paese, il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato è stato superiore al numero dei contratti a tempo indeterminato». Se poi si pigliano gli occupati tra 15 e 29 anni, ha proseguito il novello economista, «i contratti a tempo determinato sono il 50% e quelli a tempo indeterminato il 37%». Morale come da manifesto dei Ds: «C’è il rischio di una precarizzazione molto forte».
Se le cose stessero davvero come dice Fassino non ci sarebbe nulla di male: vorrebbe dire che la legge Biagi funziona, e che i giovani, invece di fare la gavetta in nero, riescono ad entrare nel mercato del lavoro grazie ai nuovi contratti, che spesso sono trasformati in assunzioni a tempo indeterminato (ogni anno avviene a un contratto a termine su due, secondo una recente stima di Confindustria). Del resto è scorretto definire “precari” tutti gli assunti con contratti a termine: molti lavoratori ben quotati, ad esempio, preferiscono il contratto di lavoro a progetto all’assunzione a tempo indeterminato.
Però le cose non stanno come dice Fassino. Confrontare i contratti a scadenza con quelli a tempo indeterminato è un errore: come spiegato in un recente rapporto del Cnel curato da Loris Accornero, «la durata dei contratti a termine è per lo più di tre o quattro mesi, e talvolta di sei mesi, per cui è probabile che la stessa persona venga assunta più di due volte in un anno. La conseguenza è ovvia. Se il 44,1% delle assunzioni effettuate nel 2003 è avvenuta con contratti a tempo indeterminato, è altamente probabile che ciò abbia interessato non più, e forse meno, di un quinto degli assunti in quell’anno».
Del resto sono gli stessi studiosi di sinistra, quelli seri, a non prendere sul serio simili sparate. Pietro Ichino, giuslavorista con la tessera della Cgil in tasca, il mese scorso ha scritto che «i dati statistici parlano chiaro: la percentuale dei precari è oggi all’incirca la stessa di cinque anni fa». La legge Biagi «non ha, dunque, né causato né aumentato questo fenomeno: esso risale ad altre stagioni e ad altre politiche del lavoro». I dati lo confermano: i lavoratori dipendenti sono da anni in continuo aumento, ma la percentuale dei contratti a termine resta sempre attorno al 12%, che peraltro è la più bassa d’Europa. Certo, avverte Ichino: dover fare i conti con simili verità «può essere molto scomodo per la sinistra». Così come non regge la favoletta, cara a Fassino e a tutta l'opposizione, che l’aumento degli occupati sarebbe frutto della regolarizzazione degli immigrati. Luca Ricolfi, che insegna Analisi dei dati nell’Università di Torino e non nasconde la sua simpatia per la sinistra, stima in 200mila lavoratori l’effetto di questa regolarizzazione, a fronte di un milione e 200mila nuovi posti di lavoro creati dall'inizio della legislatura sino alla fine del 2005. Fassino ha comunque di che consolarsi. Rilette con attenzione le cose che ha detto, il vincitore indiscusso dell’ultima puntata di Ballarò è lui. Con Gene Gnocchi non c’è stata partita.

© Libero. Pubblicato il 23 marzo 2006.

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