Confindustria e sinistra, stessa analisi. Sbagliata
di Fausto Carioti
La verità, pure se non fa fino dirlo, è che c’è un Enrico Mattei dentro ogni imprenditore italiano. Anche quelli che si danno arie da progressisti e si sbattono per apparire come fini umanisti interessati alla causa del bene comune, anche loro, spesso più degli altri, usano i partiti politici come taxi per arrivare nell’unico posto che interessa: la difesa degli utili delle imprese, l’aumento dei dividendi. Se si buttano con Romano Prodi, come hanno fatto pubblicamente tanti di loro, lo fanno per una questione di valori, ma sono i valori quotati in Borsa. Sono convinti, magari a ragione, che un governo di sinistra abbia meno problemi di conflitto sociale con i sindacati confederali e ceda molto più facilmente di fronte al ricatto occupazionale, mettendo mano al portafogli (quello del contribuente) per aiutare le aziende in crisi. L’equazione “meno tasse e quindi meno spesa pubblica”, propria dei governi più o meno liberisti di centrodestra, torna vantaggiosa ai piccoli imprenditori, ma non a quelli grandi, i quali dall’aumento della spesa pubblica hanno sempre trovato modo di guadagnare assai più che dal taglio delle imposte.
Il matrimonio d’interesse tra una parte importante del capitalismo italiano - importante più per visibilità che per consistenza numerica, come si è visto bene a Vicenza - e l’armata di Prodi, inzeppata di neo e post comunisti, ha spinto molti cognomi illustri a sottoscrivere, assieme al programma della sinistra, anche le balle con cui l’opposizione attacca il governo Berlusconi. Da tempo la sinistra è impegnata a far credere che l’Italia, finito il quinquennio governato dall’Ulivo - apprezzato dagli elettori al punto da spedire a casa chi lo aveva gestito - è stata condotta da Berlusconi al «fallimento», al «disastro», allo «sfascio» e a tutti gli altri sinonimi che è possibile trovare in qualunque dichiarazione degli esponenti dell’Unione o in qualunque articolo di un quotidiano di sinistra. Tutto normale, s’intende: le mezze verità e le intere bugie trovano da sempre posto nella cassetta degli attrezzi dei politici. Così fan tutti (chi più, chi meno), confidando nella memoria corta degli elettori, e sarebbe da ingenui scandalizzarsi.
L’uso distorto e di parte dei dati economici non dovrebbe però riguardare i grossi nomi dell’imprenditoria, ai quali tanti elettori guardano come se fossero i “garanti” dell’efficacia economica dei governi. Andrea Pininfarina, persona garbata e stimata, è il vicepresidente di Confindustria con delega per il Centro Studi. Non è un mistero che sia uno di quelli che confidano nella sconfitta elettorale della Casa delle Libertà (e lo stesso si può dire di grandissima parte della squadra che circonda Luca Cordero di Montezemolo). Dalla bocca di Pininfarina, a Vicenza, è partito l’attacco più duro nei confronti del governo: «L’Italia rischia di allontanarsi dal gruppo dei Paesi più industrializzati», a causa di una stagnazione economica che non può essere attribuita a «fattori congiunturali», come sostengono i ministri, ma a «problemi strutturali». Anche se enunciato con termini forbiti e senza bava alla bocca, si tratta dello stesso mantra del declino economico intonato ogni giorno dagli esponenti dell’opposizione e negli editoriali di Repubblica e dell’Unità. Non a caso, quanto detto da Pininfarina è stato applaudito soprattutto dal segretario dei Ds, Piero Fassino, che ha parlato di «un’analisi lucida della situazione economica del Paese», che contiene «significative convergenze» col programma dell’Unione.
L’appoggio di Fassino non basta però a compensare la smentita secca arrivata ieri dai dati sull’industria: a gennaio il fatturato delle imprese italiane è cresciuto dell’8,4 per cento rispetto allo stesso mese del 2005. I risultati sono positivi per tutti i settori, ma spicca quello della costruzione dei mezzi di trasporto, dove il fatturato è cresciuto del 19,5%. La Fiat, del resto, sta uscendo dalle sabbie mobili, e per una volta lo sta facendo senza aver pesato troppo sulle tasche dei contribuenti: una buona notizia per chi guida l’azienda e per chi vi lavora, ma anche il segno che la ripresa economica è in atto e che il piagnisteo è ingiustificato. Assieme al fatturato, a gennaio crescono gli ordinativi: +9,8 per cento, e questo fa ben sperare per il futuro.
Né sono questi i primi dati positivi. Il fatturato delle imprese era già in crescita alla fine dello scorso anno, tanto che a dicembre segnava un +5,5 per cento sul dicembre 2004. A gennaio, seguendo un trend iniziato alla fine del 2005, la produzione industriale è aumentata del 4,1 per cento. Nell’intero 2005 il valore delle esportazioni italiane è cresciuto del 4 per cento rispetto al 2004 e, tolti i prodotti energetici, vera palla al piede dell’economia italiana, il saldo del commercio italiano con l’estero lo scorso anno si è chiuso in attivo per oltre trenta miliardi di euro. Questo non vuol dire che l’economia italiana scoppi di salute: il gap che la separa dalla media dei Paesi europei continua a essere grande (ma non più grande che ai tempi dell’Ulivo, anche se nessuno lo dice). La ripresa però c’è, e non si capisce per quale motivo proprio i grandi imprenditori fingano di non vederla. O meglio: si capisce sin troppo bene, ma non ci si aspettava di vederli ridotti a tanto. Per questo, anche se Diego Della Valle può stare simpatico o meno, il suo addio al direttivo di Confindustria, annunciato ieri e motivato dalla volontà «di evitare che continuino strumentalizzazioni che possano arrecare danno all’associazione», ha almeno il pregio di portare un po’ di chiarezza laddove ce n’è un gran bisogno.
© Libero. Pubblicato il 21 marzo 2006.
Post scriptum. Dal Sole-24 Ore (il quotidiano di Confindustria) di martedì 21 marzo. Guido Gentili, nel suo editoriale, scrive che è inutile «discettare più di tanto sulla claque che si sarebbe attivata a comando» per sostenere l’incursione del premier. «Piaccia o non piaccia», scrive Gentili, «è una platea, quella su cui ha puntato le sue carte Berlusconi, che mal digerisce, per esempio, la riproposizione statica, da parte di Prodi, della "concertazione" come metodo di confronto». Mentre Guidalberto Guidi, membro della giunta di Confindustria, intervistato sullo stesso quotidiano, dice che «la grande massa dei piccoli imprenditori presenti in Fiera ha voluto ribadire un concetto chiaro: "Noi con il programma dell’Unione non ci riconosciamo". Ed è naturale che sia così: le Pmi non possono riconoscersi con uno schieramento che aggrega, tra gli altri, Bertinotti e i No global». E' la presa d'atto ufficiale, da parte dell'organo di Confindustria, che la platea degli imprenditori di Vicenza stava tutta con il premier. E qualche barzellettiere ancora spiega il successo di Berlusconi parlando di clacque.
Tutto da leggere: "Montezemolo consiglia agli industriali di tapparsi la bocca (mentre il suo socio parla a Ballarò)", su Mariosechi.net.
La verità, pure se non fa fino dirlo, è che c’è un Enrico Mattei dentro ogni imprenditore italiano. Anche quelli che si danno arie da progressisti e si sbattono per apparire come fini umanisti interessati alla causa del bene comune, anche loro, spesso più degli altri, usano i partiti politici come taxi per arrivare nell’unico posto che interessa: la difesa degli utili delle imprese, l’aumento dei dividendi. Se si buttano con Romano Prodi, come hanno fatto pubblicamente tanti di loro, lo fanno per una questione di valori, ma sono i valori quotati in Borsa. Sono convinti, magari a ragione, che un governo di sinistra abbia meno problemi di conflitto sociale con i sindacati confederali e ceda molto più facilmente di fronte al ricatto occupazionale, mettendo mano al portafogli (quello del contribuente) per aiutare le aziende in crisi. L’equazione “meno tasse e quindi meno spesa pubblica”, propria dei governi più o meno liberisti di centrodestra, torna vantaggiosa ai piccoli imprenditori, ma non a quelli grandi, i quali dall’aumento della spesa pubblica hanno sempre trovato modo di guadagnare assai più che dal taglio delle imposte.
Il matrimonio d’interesse tra una parte importante del capitalismo italiano - importante più per visibilità che per consistenza numerica, come si è visto bene a Vicenza - e l’armata di Prodi, inzeppata di neo e post comunisti, ha spinto molti cognomi illustri a sottoscrivere, assieme al programma della sinistra, anche le balle con cui l’opposizione attacca il governo Berlusconi. Da tempo la sinistra è impegnata a far credere che l’Italia, finito il quinquennio governato dall’Ulivo - apprezzato dagli elettori al punto da spedire a casa chi lo aveva gestito - è stata condotta da Berlusconi al «fallimento», al «disastro», allo «sfascio» e a tutti gli altri sinonimi che è possibile trovare in qualunque dichiarazione degli esponenti dell’Unione o in qualunque articolo di un quotidiano di sinistra. Tutto normale, s’intende: le mezze verità e le intere bugie trovano da sempre posto nella cassetta degli attrezzi dei politici. Così fan tutti (chi più, chi meno), confidando nella memoria corta degli elettori, e sarebbe da ingenui scandalizzarsi.
L’uso distorto e di parte dei dati economici non dovrebbe però riguardare i grossi nomi dell’imprenditoria, ai quali tanti elettori guardano come se fossero i “garanti” dell’efficacia economica dei governi. Andrea Pininfarina, persona garbata e stimata, è il vicepresidente di Confindustria con delega per il Centro Studi. Non è un mistero che sia uno di quelli che confidano nella sconfitta elettorale della Casa delle Libertà (e lo stesso si può dire di grandissima parte della squadra che circonda Luca Cordero di Montezemolo). Dalla bocca di Pininfarina, a Vicenza, è partito l’attacco più duro nei confronti del governo: «L’Italia rischia di allontanarsi dal gruppo dei Paesi più industrializzati», a causa di una stagnazione economica che non può essere attribuita a «fattori congiunturali», come sostengono i ministri, ma a «problemi strutturali». Anche se enunciato con termini forbiti e senza bava alla bocca, si tratta dello stesso mantra del declino economico intonato ogni giorno dagli esponenti dell’opposizione e negli editoriali di Repubblica e dell’Unità. Non a caso, quanto detto da Pininfarina è stato applaudito soprattutto dal segretario dei Ds, Piero Fassino, che ha parlato di «un’analisi lucida della situazione economica del Paese», che contiene «significative convergenze» col programma dell’Unione.
L’appoggio di Fassino non basta però a compensare la smentita secca arrivata ieri dai dati sull’industria: a gennaio il fatturato delle imprese italiane è cresciuto dell’8,4 per cento rispetto allo stesso mese del 2005. I risultati sono positivi per tutti i settori, ma spicca quello della costruzione dei mezzi di trasporto, dove il fatturato è cresciuto del 19,5%. La Fiat, del resto, sta uscendo dalle sabbie mobili, e per una volta lo sta facendo senza aver pesato troppo sulle tasche dei contribuenti: una buona notizia per chi guida l’azienda e per chi vi lavora, ma anche il segno che la ripresa economica è in atto e che il piagnisteo è ingiustificato. Assieme al fatturato, a gennaio crescono gli ordinativi: +9,8 per cento, e questo fa ben sperare per il futuro.
Né sono questi i primi dati positivi. Il fatturato delle imprese era già in crescita alla fine dello scorso anno, tanto che a dicembre segnava un +5,5 per cento sul dicembre 2004. A gennaio, seguendo un trend iniziato alla fine del 2005, la produzione industriale è aumentata del 4,1 per cento. Nell’intero 2005 il valore delle esportazioni italiane è cresciuto del 4 per cento rispetto al 2004 e, tolti i prodotti energetici, vera palla al piede dell’economia italiana, il saldo del commercio italiano con l’estero lo scorso anno si è chiuso in attivo per oltre trenta miliardi di euro. Questo non vuol dire che l’economia italiana scoppi di salute: il gap che la separa dalla media dei Paesi europei continua a essere grande (ma non più grande che ai tempi dell’Ulivo, anche se nessuno lo dice). La ripresa però c’è, e non si capisce per quale motivo proprio i grandi imprenditori fingano di non vederla. O meglio: si capisce sin troppo bene, ma non ci si aspettava di vederli ridotti a tanto. Per questo, anche se Diego Della Valle può stare simpatico o meno, il suo addio al direttivo di Confindustria, annunciato ieri e motivato dalla volontà «di evitare che continuino strumentalizzazioni che possano arrecare danno all’associazione», ha almeno il pregio di portare un po’ di chiarezza laddove ce n’è un gran bisogno.
© Libero. Pubblicato il 21 marzo 2006.
Post scriptum. Dal Sole-24 Ore (il quotidiano di Confindustria) di martedì 21 marzo. Guido Gentili, nel suo editoriale, scrive che è inutile «discettare più di tanto sulla claque che si sarebbe attivata a comando» per sostenere l’incursione del premier. «Piaccia o non piaccia», scrive Gentili, «è una platea, quella su cui ha puntato le sue carte Berlusconi, che mal digerisce, per esempio, la riproposizione statica, da parte di Prodi, della "concertazione" come metodo di confronto». Mentre Guidalberto Guidi, membro della giunta di Confindustria, intervistato sullo stesso quotidiano, dice che «la grande massa dei piccoli imprenditori presenti in Fiera ha voluto ribadire un concetto chiaro: "Noi con il programma dell’Unione non ci riconosciamo". Ed è naturale che sia così: le Pmi non possono riconoscersi con uno schieramento che aggrega, tra gli altri, Bertinotti e i No global». E' la presa d'atto ufficiale, da parte dell'organo di Confindustria, che la platea degli imprenditori di Vicenza stava tutta con il premier. E qualche barzellettiere ancora spiega il successo di Berlusconi parlando di clacque.
Tutto da leggere: "Montezemolo consiglia agli industriali di tapparsi la bocca (mentre il suo socio parla a Ballarò)", su Mariosechi.net.