Nel governo Prodi qualcosa si è rotto per sempre

Farà di tutto per continuare a governare, facendo finta di niente. Ma è evidente che, dopo la batosta rimediata in Senato dall'Unione sul voto per l'ampliamento della base Nato di Vicenza, per Romano Prodi niente sarà più come prima. La ferita è profonda, e va oltre il risultato della incredibile votazione di venerdì (la maggioranza che vota contro un proprio ministro, blindato invece dall'opposizione: mai visto nulla del genere). Il problema, per Prodi, è che si è rotto l'unico punto fermo della sua maggioranza: l'asse che sino ad oggi lo ha collegato a Rifondazione Comunista e, in subordine, a Verdi e Comunisti italiani (non dimentichiamo che per fare Fausto Bertinotti presidente della Camera Prodi non esitò a silurare Massimo D'Alema, il quale se l'è segnata).

Attorno a questo asse era destinato a ruotare l'intero percorso del governo: lo stesso Prodi ha sempre detto che con lui premier non esiste alcuna maggioranza alternativa a quella con cui ha vinto le elezioni. Tradotto, vuol dire che se c'è qualcuno che pensa di allargare all'Udc e ad altri partiti la maggioranza, perdendo l'appoggio dei partiti a sinistra dei Ds, sappia che non può farlo con lui al governo. Per Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio, la migliore delle assicurazioni possibili. Tutto finito.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la verità è che ormai Prc, Pdci e Verdi non si fidano più di Prodi. E l'avvicinarsi delle elezioni, e i sondaggi che li danno in rapida discesa, rendono per loro ancora più indigeribili i provvedimenti del governo in materia di politica estera (dopo l'allargamento della base Nato di Vicenza tocca al rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan) e di politica economica (pseudo-liberalizzazioni e riforma delle pensioni) che saranno chiamati a votare nelle prossime settimane. Hanno cavalcato i peggiori istinti della teppaglia antiamericana, antioccidentale, anticapitalista e antimoderna, e adesso a costoro debbono rispondere.

Per chi non avesse ancora capito a cosa servono i quotidiani di partito in Italia: servono a mettere nero su bianco quello che gli esponenti del partito non possono dire apertis verbis, a mandare avvertimenti e minacce, di solito agli alleati. Oggi, in prima pagina su Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista, si legge:
Un momento: ma chi ha detto che il “progetto” (o il disegno, o il complotto) del dopoProdi escluda davvero Prodi? Ed ecco l’allarmante novità: non sarà che lo stesso presidente del consiglio si va convincendo che la maggioranza, e il governo, così come sono composti, non reggono? E che, dunque, la scelta più conveniente non può che essere quella di pilotare, in prima persona, il cambio di maggioranza, ovvero il suo “allargamento-mutamento” tramite, magari, la successione a se stesso? Un dubbio, non più che un dubbio, che però, al termine della giornata di ieri, si era diffuso qua e là. Ad accreditare il dubbio, c’è stata prima la rigidità con la quale il ministro Parisi si è presentato ieri mattina a palazzo Madama, con una comunicazione – su Vicenza – che certo non apriva il dialogo nè con le posizioni della sinistra nè con le rivendicazioni della comunità veneta. Poi, c’è stato il comportamento concreto di alcuni esponenti di primo piano dell’Ulivo, normalmente classificati come “parisiani” (ovvero, “prodiani”), che nel voto conclusivo si sono sfilati dalle scelte della – loro – maggioranza e hanno contribuito, in modo determinante, a costruire il successo del centrodestra. Infine, la furiosa reazione dopo il voto – ora Parisi, chiede un chiarimento “di fondo” e, più o meno direttamente, accusa la sinistra di slealtà. Ma è la stessa cronaca di queste giornate, e della giornata di ieri, che conferma la sensazione di non trasparenza – qualcosa che sfugge, da troppi lati, ad una logica di razionalità e di solidarietà politica.
Dunque, nel partito di Bertinotti sta crescendo il dubbio che Prodi non sià più il loro garante, ma il manovratore della cordata destinata a ridurli all'obbedienza o a rimpiazzarli con altri. Che poi, ovviamente, è quello che chiede Europa, il quotidiano della Margherita: «Se c’è qualcuno che proprio se ne vuole andare, l’unica cosa seria è darsi da fare per sostituirlo». Andandolo a pescare nell'unico posto possibile, ovvero al centro.

Aggiungiamo che l'editoriale odierno del Manifesto (che non è organo di partito, ma che interpreta benissimo gli umori di tanti elettori di sinistra) dà il benservito a Prodi in termini che più chiari non si può: siamo «alla resa dei conti dentro l'Ulivo. Cioè alla fine della stessa esperienza di questo governo». E che la senatrice Franca Rame, disgustata da Prodi e dalle sue mancate promesse, sta pensando seriamente di lasciare palazzo Madama. E abbiamo chiaro che tra il premier bollito e i compagni che sinora lo hanno puntellato qualcosa di importante si è rotto per sempre.

Non giova certo alla salute di Prodi il fatto che, dei due senatori in più su cui poteva contare quando il suo governo è nato, uno, Sergio De Gregorio, oggi gli chiede in modo esplicito di dimettersi, e l'altro, l'ultraottatenne Luigi Pallaro, ha capito che non è il caso di farsi dodici ore di aereo per venire ad aiutare il sempre più ridicolo circo Barnum prodiano, e preferisce godersi la pampa sconfinata che andarsi a deprimere nell'aula del Senato.

Prodi è politicamente morto, e se nessuno lo ha spedito a casa è solo perché manca uno scenario alternativo, ovvero il nome di chi lo dovrà sostituire a palazzo Chigi, e perché per la sinistra archiviare oggi in modo così fallimentare il suo governo vorrebbe dire rendere ancora più probabile una batosta nelle elezioni amministrative di primavera. Ma il centrosinistra ormai è così allo sbando che non si possono escludere ulteriori, gradite sorprese. Come si diceva, presto il parlamento dovrà votare il rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan.

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