Dead Prime Minister Walking

di Fausto Carioti

Non è Giorgio Napolitano, tantomeno Massimo D’Alema. Il vero regista del film che in queste ore vede protagonista il governo Prodi è George Romero, quello de “La notte dei morti viventi” e “Il giorno degli zombi”. Politicamente parlando, Romano Prodi è un morto che cammina. E questo lo sa lui, che comunque tira dritto perché ormai non ha più nulla da perdere. Lo sanno i suoi ministri. Lo sanno gli uomini della sua coalizione. Anche il suo governo è morto, e lo hanno persino messo per iscritto: non hanno più la maggioranza per varare i Dico, non hanno i numeri per votarsi da soli la politica estera e non hanno nemmeno l’accordo per approvare il percorso dell’Alta velocità in Val di Susa, che pure appare tra le dodici condizioni “inderogabili” elencate da Prodi nel documento che avrebbe dovuto rilanciare il governo. Pure D’Alema è ridotto a uno zombie. Ha tentato in Senato la prova di forza che lo avrebbe incoronato leader de facto dell’Unione: o siete con me o contro di me, i voti della Cdl non li voglio, serve un verdetto chiaro e senza ambiguità. Ha messo in gioco la sua faccia e il suo prestigio proponendosi nella fossa dei leoni come l’antitesi di Prodi, che del compromesso al ribasso ha fatto il tratto distintivo di questa sua esperienza di governo. Ma sia la sua faccia sia il suo prestigio ne sono usciti a pezzi. E il presidente del consiglio si è guardato bene dall’accettare il “suggerimento” di D’Alema, che aveva invitato pubblicamente tutto il governo ad andarsene a casa trasformando così il fallimento del ministro degli Esteri in un fallimento dell’intero esecutivo. Ora l’astio verso Prodi che filtra dagli ambienti dalemiani è forte e palpabile. Come premio di consolazione, D’Alema-Erode può mettere in cassaforte l’infanticidio del partito democratico: strozzato nella culla. Certo, proveranno a farne uno nuovo, ma i tempi e i modi non saranno quelli che erano in agenda una settimana fa. Non va meglio a Piero Fassino: ha spinto per ottenere un Prodi-bis che lo vedesse tra i ministri, in modo da lasciare la segreteria del partito a qualcun altro (Pier Luigi Bersani, ad esempio) e tirarsi fuori dal pantano in cui lo hanno cacciato Fabio Mussi e gli altri compagni del correntone, intenzionati a fargli la guerra su tutto e pronti alla scissione. Ma anche il segretario ds ha dovuto fare i conti con quello che l’Unità, ieri, denunciava come «l’irrigidimento» del premier. E alla fine ha perso su tutta la linea. La differenza, tra i tre, è che D’Alema e Fassino un partito su cui appoggiarsi e dal quale ripartire, per quanto malconcio, ce l’hanno. Prodi no: ha solo la spalla di Arturo Parisi.

Il presidente del Consiglio adesso conta di presentarsi al più presto in parlamento - prima al Senato, poi alla Camera - per ottenere quei 161 voti necessari a garantire qualche settimana, forse qualche mese di ossigeno in più al suo governo. Oggi si dovrebbe sapere se il presidente della Repubblica gli darà il via libera. Dentro la maggioranza stanno tirando Napolitano per la giacca affinché ceda. Il Quirinale sulla riuscita finale della campagna acquisti del governo ha molte perplessità. Ma proprio per questo, secondo voci maligne, potrebbe essere tentato di spedire Prodi a cercarsi la fiducia. Male che vada, sarà la fine dell’avventura politica del professore bolognese, e di certo nei Ds - il partito di Napolitano - nessuno verserà una lacrima. E il giorno dopo si potrà iniziare a lavorare sul serio alla costruzione di un governo tecnico-istituzionale, guidato da un Franco Marini, un Lamberto Dini o un Giuliano Amato, che offra all’Unione il tempo necessario a costruire una nuova candidatura per le elezioni anticipate (nessuno, manco a sinistra, s’illude più che questa legislatura possa durare cinque anni).

Pescando tra i peones centristi e tra i disperati come Marco Follini, che si sono bruciati tutti i ponti alle spalle, e pagando un prezzo politico adeguato (reso ancora più alto dal fatto che si chiede a tutti costoro di entrare in una barca che affonda), Prodi può persino farcela. Anche se la transumanza - in ambedue le direzioni dell’emiciclo di palazzo Madama - continuerà sino a un minuto prima del voto di fiducia. Ma il mercato delle vacche non può dare a Prodi nulla più che il prolungamento dell’accanimento terapeutico. Non è una soluzione politica (nessun gruppo parlamentare, nessun partito si è spostato da una parte all’altra), ma solo una soluzione numerica, e per di più fatta di numeri piccolissimi, che nella migliore delle ipotesi garantiranno a Prodi un margine risicato come quello che l’ha fatto fibrillare in tutti questi mesi ogni volta che al Senato si votava anche una semplice mozione. Il fatto che tanti esponenti della Casa delle Libertà, al di là dell’indignazione ufficiale, si stiano fregando le mani dinanzi alla prospettiva di assistere al prolungamento dell’agonia dell’esecutivo, la dice lunga. L’idea di vedere il professore bolognese, nonostante la figuraccia rimediata, continuare il suo logoramento e la sua discesa verticale nei sondaggi, è letta da molti dei suoi avversari come l’ennesimo regalo fatto dall’Unione alla Cdl in questi giorni. C’è la convinzione, nel centrodestra, che le elezioni siano comunque a portata di mano, e che per agguantarle basti solo non mostrare di desiderarle troppo.

Intanto il mito dell’«autosufficienza», il non dover dipendere dai voti dell’opposizione in nessun campo, su cui il centrosinistra aveva modellato la sua immagine politica dalla notte del 10 aprile, è distrutto per sempre. Sul Corriere della Sera, ieri, Filippo Andreatta, consulente di Prodi in materia di politica estera, spiegava che in un sistema di «bipolarismo maturo» le ribellioni delle ali più radicali sono cosa normale, alla quale si sopperisce con una «convergenza bipartisan». Tradotto: non c’è nulla di scandaloso se il governo Prodi non ha i numeri per rifinanziare le missioni militari all’estero ed è costretto a ricorrere al sostegno decisivo dell’opposizione. Lo stesso D’Alema ieri, davanti al presidente dell’assemblea generale dell’Onu, ha detto che la crisi di governo non avrà ripercussioni sulle missioni internazionali italiane, ma solo «perché larghissima parte del parlamento le condivide e le sostiene». Si dà dunque per scontato che d’ora in avanti il governo sarà un’anatra zoppa, che potrà camminare solo se, su certi temi, l’opposizione sarà abbastanza “matura” da aiutarla. Bella pretesa, per chi all’indomani del voto rifiutò sdegnato l’offerta di Berlusconi - tutt’altro che disinteressata, va da sé - di realizzare un governo di larghe intese.

Prodi ha preso atto di non poter legiferare nemmeno sulle cosiddette questioni etiche. Nell’elenco delle “dodici condizioni” che ha posto ai partiti dell’Unione non c’è alcuna traccia dei Dico, ovvero del riconoscimento giuridico delle coppie eterosessuali ed omosessuali. Eppure non si trattava di un provvedimento secondario, ma di un disegno di legge del governo che sino a pochi giorni fa era centrale per tutti i partiti dell’ala sinistra dell’Unione. Scomparso, kaputt: è l’ammissione che l’esecutivo non ha i numeri. Certo, ufficialmente nessuno ritirerà la proposta. Ma si può stare sicuri che rimarrà ben chiusa nei cassetti di qualche commissione parlamentare.

Anche sulla realizzazione delle opere per l’alta velocità non esiste alcun accordo. Certo, nel “dodecalogo” prodiano appare la «rapida attuazione del piano infrastrutturale», e in particolare della Tav tra Torino e Lione. Ma attorno a questo punto, che nelle intenzioni di Prodi doveva essere «non negoziabile», ieri è già ricominciato il solito balletto delle ambiguità. Alfonso Pecoraro Scanio, leader verde e ministro dell’Ambiente, ha detto ai responsabili dei comitati contrari alla realizzazione dell’opera che non devono avere nulla da temere, perché il mega-tunnel di 50 chilometri alla fine non si farà. Mercedes Bresso, diessina e presidente della Regione Piemonte, interpreta invece il documento di Prodi come il sospirato via libera alla costruzione dello stesso tunnel. Commenta depresso il radicale Daniele Capezzone, uno dei pochi che a sinistra ha il coraggio di aprire la cartella clinica del governo e leggere a voce alta cosa c’è scritto: «Così si può al massimo galleggiare, ma non si va da nessuna parte. Si rischia di cadere molto presto».

© Libero. Pubblicato il 24 febbraio 2007.

Letture consigliate sullo stesso argomento:
Soluzione di mezzo, (qui la seconda parte) di Giovanni Orsina, sul Mattino
Prime Minister Prodi's Fall: Politics as Usual in Italy di Mario Sechi, su Pajamas Media

Post popolari in questo blog

L'articolo del compagno Giorgio Napolitano contro Aleksandr Solzhenitsyn

La bottiglia ricavata dal mais, ovvero quello che avremmo potuto essere