La fine di Prodi e la scelta di Berlusconi

Primo punto fermo: il governo Prodi è morto.

Secondo punto fermo: anche Romano Prodi politicamente è morto. Certo, farà finta di essere ancora vivo, proverà a mettere in piedi un Prodi-bis, ma la sua sorte nel breve-medio periodo (più breve che medio) è segnata.

Terzo punto fermo: il presidente della Repubblica farà di tutto per evitare che le elezioni politiche si tengano a primavera, ed è pronto a tirare fuori dal cilindro ogni coniglio a sua disposizione, compreso l’incarico di formare un governo tecnico – istituzionale – parlamentare - di decantazione (l’aggettivazione potrebbe continuare a lungo) a un Franco Marini o a un Lamberto Dini, per dare alla sinistra il tempo di riprendere fiato e preparare una candidatura che abbia qualche chance di spuntarla contro Silvio Berlusconi. Vedi alla voce Walter Veltroni, ammesso che il sindaco di Roma abbia voglia di correre adesso un simile rischio invece di aspettare il giro successivo. Ovviamente, c’è la scusa alta e nobile a portata di mano: la necessità di cambiare la legge elettorale e magari di riformare il sistema previdenziale (qualche altro provvedimento da aggiungere alla lista “per migliorare la competitività del sistema-paese” e altre robe simili si trova sempre).

Quarto e ultimo punto fermo: i sondaggi oggi danno la Cdl in clamoroso vantaggio sull’Unione, e dopo la figura atroce rimediata al Senato è probabile che il divario sia cresciuto ulteriormente. La coalizione guidata da Berlusconi la spunterebbe sul centrosinistra anche senza l’Udc.

Fissati questi paletti, cosa può succedere? La cosa probabile è che Prodi provi a ottenere un reincarico e a tirare avanti per qualche tempo, dopo aver fatto il maquillage alla compagine dei suoi ministri. Anche se ci riuscirà, durerà poco. Un Prodi-bis sarebbe inevitabilmente molto più debole del governo che l’ha preceduto, già debolissimo.

Presto, quindi, anche se ottiene il reincarico, ci sarà il problema di cosa fare una volta seppellito Prodi. Spazio per tenere in vita la coalizione di centrosinistra con un premier diverso da Prodi non sembra esserci. L’unico che, per la considerazione di cui gode, avrebbe le spalle per assumersi l’incarico e (forse) riuscire ad evitare i veti incrociati dei moderati e della sinistra estremista è lo stesso D’Alema. Che però è stato il primo a cadere del governo Prodi, l’uomo che volontariamente («tutti a casa») ha trascinato con sé il premier e gli altri ministri. Sarebbe stravagante che dalle ceneri di Prodi spuntasse proprio lui.

Nuova maggioranza, dunque. Con chi? Tolti dal conto i “dissenzienti” di estrema sinistra, ormai ritenuti inaffidabili (scusate, ma qui la parola "dissidenti" la si riserva per gente tipo Aleksandr Solženicyn), e posto che i partiti della sinistra estrema non hanno intenzione di allargare la coalizione all’Udc (chi glielo spiega agli elettori di Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio che la maggioranza si sposta al centro?), considerato che l’Udc da sola non ha i numeri per rimpiazzare questi partiti e assodato che all’Udc proprio non converrebbe (chi glielo spiega agli elettori di Casini che i loro voti servono a mantenere in piedi un governo di centrosinistra?), a meno di nuove alchimie al momento improbabili (come nuove alleanze o scissioni tra partiti), la soluzione non potrà essere il semplice aggancio dell’Udc all’Unione. Quanto all'adescamento di qualche senatore "border line", come Marco Follini o quelli del Movimento per le autonomie, che consentirebbe di compensare lo sganciamento dei dissenzienti senza snaturare troppo la coalizione, è nulla più di un wishful thinking. Sia perché il malessere è assai più profondo di un paio di numeri che mancano all'appello, sia perché nessuno è così scemo da salire sulla barca che affonda. In altre parole, qualunque ipotesi di cambio di alleanze deve passare da Forza Italia. Cioè da Berlusconi. Che presto diventerà la vera incognita decisiva della partita.

Il Cavaliere sinora non ha chiesto il ricorso alle urne, ma le semplici dimissioni di Prodi. Il che, di per sé, non vuol dire nulla, se non che Berlusconi sta bene attento a non pestare i piedi al Quirinale e intende rispettare tutte le prerogative del presidente della Repubblica. Scelta saggia. Sulla carta, come detto, a Berlusconi converrebbe andare al voto. Due cose potrebbero spingerlo però ad appoggiare un governicchio tecnico come quello che prima o poi, con ogni probabilità, gli prospetterà Napolitano. Innanzitutto il ricordo del governo Dini, sul quale lui non volle mettere il cappello, e la scelta gli si ritorse dolorosamente contro. E poi il peso che su di lui hanno certi consiglieri, primo tra tutti Gianni Letta, che preferiscono soluzioni felpate, concordate con le istituzioni e i cosiddetti poteri forti (che premono per un governo tecnico) a scelte drastiche. (A proposito di poteri forti: si prega di notare che, due giorni dopo la concessione della mobilità lunga alla Fiat, il senatore a vita Sergio Pininfarina si è presentato in aula per staccare la spina al governo Prodi. Al quale, evidentemente, certi ambienti non avevano più nulla da chiedere).

L’impressione è che presto Berlusconi sarà chiamato a scegliere: appoggio a un esecutivo di larghe intese o ricorso al voto. Qui, per quello che conta, si spera che punti dritto a ottenere le elezioni per capitalizzare al più presto il suo attuale patrimonio di consensi. Un’occasione simile potrebbe non presentarsi più. Tra un anno non è assolutamente detto che la situazione possa essere per lui altrettanto vantaggiosa. Soprattutto se lo avrà trascorso alleato con margheritini, udierrini e diessini: certe alleanze imbarazzanti (da una parte come dall’altra) riescono a massacrare un forte consenso nel giro di brevissimo tempo. E mentre a sinistra non hanno nulla da perdere (peggio di come stanno adesso non possono ridursi), Berlusconi rischierebbe di uscirne ridimensionato di brutto. Quanto alla riforma delle legge elettorale, non si vede per quale motivo Berlusconi dovrebbe desiderarla, dal momento che la legge attuale oggi, sondaggi alla mano, gli darebbe una maggioranza forte e robusta in ambedue le Camere.

Certo, c’è il problema - molto più importante di quanto si possa credere - della pensione dei parlamentari: quelli di prima nomina ci rimetterebbero da uno scioglimento così rapido della legislatura (il riscatto dei contributi per l’intera legislatura è fattibile solo passata la metà di essa, cioè dopo due anni e mezzo dal suo inizio). Ma è un problema di facile soluzione: basta che Berlusconi e gli altri leader della Cdl assicurino pubblicamente ai parlamentari dei loro gruppi che saranno tutti ricandidati, in cima alle liste. E siccome nessuno sano di mente pensa che da una nuova elezione in tempi ravvicinati la Cdl possa prendere meno parlamentari di quelli che ha adesso, il gioco diventerebbe conveniente anche per deputati e senatori al loro primo incarico.

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