La triste parabola di Marco Follini
di Fausto Carioti
Sognava di essere Aldo Moro. È finito a fare la ruota di scorta di Clemente Mastella. L’annuncio del leader dell’Udeur suona come il requiem della carriera politica di Marco Follini: «Con lui esiste già un accordo per le europee del 2009 e, dove possibile, questo accordo sarà realizzato anche per le elezioni amministrative». La domanda è: quanto potrà il senatore Follini, alleato del ministro della Giustizia, continuare a non votare la fiducia al governo Prodi? Anche se abbiamo a che fare con cervelli democristiani, convinti che il tratto migliore per unire due punti due punti sia l’arabesco, la risposta più plausibile resta la più semplice: poco, molto poco. E così il governo più sgangherato del dopoguerra, se non si ammazza da solo nelle prossime settimane, rischia di trovare sul piatto d’argento un voto in più a palazzo Madama. Ovviamente, dietro l’angolo non c’è il trasferimento armi e bagagli di Follini nelle fila prodiane. Sarebbe pur sempre troppo lineare, non è da lui. Diciamo, piuttosto, che, almeno inizialmente, l’Italia di Mezzo (cioè il partito di Follini, cioè Follini e qualche suo strettissimo congiunto), potrà garantire il suo appoggio al governo su certi temi. Per dire: sulla riforma delle pensioni il neonato partito si è già dichiarato «disponibile a collaborare».
È un animale politico d’altri tempi, un sopravvissuto. Come quelli della sua specie, non ha capito che tutto è cambiato ed è convinto che gli alieni siano gli altri, quelli tipo Silvio Berlusconi, quelli che scendono in piazza, quelli che credono nel bipolarismo. Li considera una parentesi anomala nella storia politica italiana, e aspetta fiducioso che la parentesi si chiuda. È dal 1994 che attende, e intanto sono trascorsi tredici anni e quattro legislature. Anche se al grande pubblico è noto da una decina d’anni, cioè da quando ha iniziato a rompere le scatole a Berlusconi, è una vita che mastica politica. Viene da una famiglia dell’alta borghesia romana, status certificato da casa ai Parioli e vacanze a Cortina. Niente a che vedere con il modello di ricco più diffuso nella capitale, quello del “generone”. I Follini, racconta chi li ha frequentati, erano «una famiglia di veri signori, zeppa di gente che non ha mai avuto bisogno di lavorare. Terrorizzati all’idea di ostentare, hanno sempre adottato uno stile di vita sobrio. Tutta gente generosissima. Marco? Non che fosse antipatico, ma di sicuro era il meno simpatico della famiglia».
L’educazione ricevuta è stata rigorosa: anche nel mondo della politica, dove battutacce e doppi sensi si sprecano, sta sempre bene attento a rimanere controllato, ottenendo molto spesso l’effetto di apparire noioso. È in questi anni, dentro le mura di casa e nelle frequentazioni di famiglia, che nasce la siderale distanza antropologica che lo separa oggi non solo da Silvio Berlusconi, ma anche da Pier Ferdinando Casini, il suo alter ego dionisiaco all’interno della Dc («Ho due figli. Uno è bello, l’altro è intelligente», diceva di loro il dc Tony Bisaglia, e quello bello non era certo Follini).Marco, classe 1954, è figlio unico di Silvia, ebrea non praticante, e di Vittorio, scomparso nel 2003. Durante la guerra, Vittorio, appena sedicenne, fu partigiano in una brigata di Giustizia e Libertà. Poi gestì per anni un’agenzia pubblicitaria, la Sirs, che realizzava numerosi “caroselli”. Uno dei più noti era quello del Veramont, farmaco contro le emicranie. Ma fare un simile lavoro a Roma non era facile, e alla fine dovette passare la mano. Giornalista Rai, Vittorio faceva parte della corrente di Base della Dc, quella di Ciriaco De Mita, della quale diresse anche l’agenzia di stampa, “Progetto”.
Come molti altri figli della “Roma bene”, il piccolo Marco frequenta la American Overseas School, scuola bilingue sulla via Cassia. Francesco Cossiga l’ha ribattezzato l’Harry Potter della politica italiana. Sarà anche vero che assomiglia a un ragazzino, ma soprattutto era vero il contrario. E cioè che quando era ragazzino parlava e pensava come un ultracinquantenne. «Già ai tempi delle medie», ricorda chi lo frequentava all’epoca, «era interessato alla politica. Non alla politica come partecipazione, come qualcosa che nasce dal basso. Ma alla politica come vita di partito, quella che si fa nei palazzi, con progetti da realizzare a lunga scadenza. Strano in un bambino di quell’età». Attraverso il padre, Marco conosce il personaggio che più lo influenzerà politicamente: Aldo Moro. L’amicizia tra le due famiglie è forte, e Marco fa presto a trasformare Moro nel suo mito. Comprensibile che a uno così le cose con l’altro sesso non vadano nel modo migliore. Quello delle donne, raccontano, «è un capitolo difficile della vita di Marco, e chi gli vuole bene sta attento a starne alla larga».
Entra nel movimento giovanile democristiano. «Giovani strani, vestiti da vecchi, completi pesanti, cravatte malscelte, lenti bifocali e montature terribili», infierisce il giornalista Marco Damilano nel suo libro “Democristiani immaginari”. «Andavano pazzi per un gioco incomprensibile ai coetanei: dividersi in correnti, come i loro riferimenti adulti». Marco è un doroteo. Sponsorizzato da Moro, l’amico di papà, diventa delegato nel 1977. «La candidatura di Follini è politicamente debole», scriveva Casini a Bisaglia e Flaminio Piccoli nel tentativo di bloccarne l’ascesa. Poi, siccome erano democristiani, si misero d’accordo: Follini capo, Casini vice.
Nel 1980 entra nella direzione nazionale della Dc, dove resta fino al 1986, quando viene spedito a svezzarsi nei posti di sottogoverno: sino al ’93 fa il consigliere d’amministrazione della Rai. Nel 1994 è uno dei fondatori del Ccd. È eletto deputato nel 1996 e nel 2001, anno in cui diventa presidente del partito. Nel 2002 la fusione con la Cdu dà vita all’Udc, e Follini ne è il segretario nazionale. Il suo scopo è delegittimare Berlusconi, e lo persegue tra gli applausi increduli dell’Ulivo. Follini, che considera l’aspetto numerico della democrazia un fastidioso freno alle sue ambizioni, si mette in competizione diretta con il leader di Forza Italia, sorvolando sull’abisso di consensi che li separa. Chiede «nuova rotta, nuova squadra, nuovo programma». Spinge per emarginare la Lega. Invoca ogni giorno la «discontinuità», che poi vuol dire mandare a casa Berlusconi per restituire il pallino ai professionisti della politica come lui. Nel dicembre del 2004 entra nel governo come vicepremier. Berlusconi spera che in questo modo lo stillicidio finisca, ma quello a smettere non ci pensa proprio. Così, quattro mesi dopo, quando il Cavaliere rimette mano al governo, per Follini non c’è più posto.
In campagna elettorale dà per scontata la sconfitta della Cdl e, democristianamente, si prepara a raccogliere ciò che di meglio se ne potrà ricavare. «Almeno», spiega a chi gli è vicino, «potremo ricominciare a ragionare senza Berlusconi». Non si fa problemi nel dare a tutti l’impressione di remare contro. Come quando a palazzo Chigi, alla presenza di un Cavaliere illividito dalla rabbia, dice rivolto alle telecamere: «Non penso sia Berlusconi il miglior candidato per la Cdl». Ma alla fine il vero trombato è proprio Follini. Prima deve dimettersi da segretario dell’Udc, poi incassa lo schiaffo delle urne: la vittoria, sfuggita per un soffio, sarebbe stata raggiunta se tutti i leader della coalizione ci avessero creduto. Ora Berlusconi è lì, che fa sentire il suo fiato sul collo di Prodi, mentre Follini, uscito dall’Udc, è costretto a offrirsi ai partiti di centrosinistra per non scomparire.
Chi adesso tiene i fili della sua vicenda politica, raccontano, è la moglie, Elisabetta Spitz, con la quale ha cresciuto una figlia che ora ha 14 anni. Lei lo costringe ad arrampicate mondane per le quali lui, tipo rigoroso dalle passioni fredde, proprio non è tagliato. Come fargli comprare casa ad Ansedonia, introducendosi così nel buen retiro di oligarchi di sinistra quali Giuliano Amato, Sabino Cassese e Augusto Fantozzi. Cresciuta alla scuola di Gianni Prandini, bresciano, ex potentissimo ministro dc dei Lavori Pubblici, la Spitz è stata nominata direttore dell’agenzia del Demanio dal secondo governo D’Alema, confermata nel suo incarico dal governo Berlusconi e quindi riconfermata poche settimane fa da Prodi. Il che, visto il ruolo delicatissimo che sta giocando in questo momento il marito, proprio non stupisce.
© Libero. Pubblicato l'11 gennaio 2007.
Sognava di essere Aldo Moro. È finito a fare la ruota di scorta di Clemente Mastella. L’annuncio del leader dell’Udeur suona come il requiem della carriera politica di Marco Follini: «Con lui esiste già un accordo per le europee del 2009 e, dove possibile, questo accordo sarà realizzato anche per le elezioni amministrative». La domanda è: quanto potrà il senatore Follini, alleato del ministro della Giustizia, continuare a non votare la fiducia al governo Prodi? Anche se abbiamo a che fare con cervelli democristiani, convinti che il tratto migliore per unire due punti due punti sia l’arabesco, la risposta più plausibile resta la più semplice: poco, molto poco. E così il governo più sgangherato del dopoguerra, se non si ammazza da solo nelle prossime settimane, rischia di trovare sul piatto d’argento un voto in più a palazzo Madama. Ovviamente, dietro l’angolo non c’è il trasferimento armi e bagagli di Follini nelle fila prodiane. Sarebbe pur sempre troppo lineare, non è da lui. Diciamo, piuttosto, che, almeno inizialmente, l’Italia di Mezzo (cioè il partito di Follini, cioè Follini e qualche suo strettissimo congiunto), potrà garantire il suo appoggio al governo su certi temi. Per dire: sulla riforma delle pensioni il neonato partito si è già dichiarato «disponibile a collaborare».
È un animale politico d’altri tempi, un sopravvissuto. Come quelli della sua specie, non ha capito che tutto è cambiato ed è convinto che gli alieni siano gli altri, quelli tipo Silvio Berlusconi, quelli che scendono in piazza, quelli che credono nel bipolarismo. Li considera una parentesi anomala nella storia politica italiana, e aspetta fiducioso che la parentesi si chiuda. È dal 1994 che attende, e intanto sono trascorsi tredici anni e quattro legislature. Anche se al grande pubblico è noto da una decina d’anni, cioè da quando ha iniziato a rompere le scatole a Berlusconi, è una vita che mastica politica. Viene da una famiglia dell’alta borghesia romana, status certificato da casa ai Parioli e vacanze a Cortina. Niente a che vedere con il modello di ricco più diffuso nella capitale, quello del “generone”. I Follini, racconta chi li ha frequentati, erano «una famiglia di veri signori, zeppa di gente che non ha mai avuto bisogno di lavorare. Terrorizzati all’idea di ostentare, hanno sempre adottato uno stile di vita sobrio. Tutta gente generosissima. Marco? Non che fosse antipatico, ma di sicuro era il meno simpatico della famiglia».
L’educazione ricevuta è stata rigorosa: anche nel mondo della politica, dove battutacce e doppi sensi si sprecano, sta sempre bene attento a rimanere controllato, ottenendo molto spesso l’effetto di apparire noioso. È in questi anni, dentro le mura di casa e nelle frequentazioni di famiglia, che nasce la siderale distanza antropologica che lo separa oggi non solo da Silvio Berlusconi, ma anche da Pier Ferdinando Casini, il suo alter ego dionisiaco all’interno della Dc («Ho due figli. Uno è bello, l’altro è intelligente», diceva di loro il dc Tony Bisaglia, e quello bello non era certo Follini).Marco, classe 1954, è figlio unico di Silvia, ebrea non praticante, e di Vittorio, scomparso nel 2003. Durante la guerra, Vittorio, appena sedicenne, fu partigiano in una brigata di Giustizia e Libertà. Poi gestì per anni un’agenzia pubblicitaria, la Sirs, che realizzava numerosi “caroselli”. Uno dei più noti era quello del Veramont, farmaco contro le emicranie. Ma fare un simile lavoro a Roma non era facile, e alla fine dovette passare la mano. Giornalista Rai, Vittorio faceva parte della corrente di Base della Dc, quella di Ciriaco De Mita, della quale diresse anche l’agenzia di stampa, “Progetto”.
Come molti altri figli della “Roma bene”, il piccolo Marco frequenta la American Overseas School, scuola bilingue sulla via Cassia. Francesco Cossiga l’ha ribattezzato l’Harry Potter della politica italiana. Sarà anche vero che assomiglia a un ragazzino, ma soprattutto era vero il contrario. E cioè che quando era ragazzino parlava e pensava come un ultracinquantenne. «Già ai tempi delle medie», ricorda chi lo frequentava all’epoca, «era interessato alla politica. Non alla politica come partecipazione, come qualcosa che nasce dal basso. Ma alla politica come vita di partito, quella che si fa nei palazzi, con progetti da realizzare a lunga scadenza. Strano in un bambino di quell’età». Attraverso il padre, Marco conosce il personaggio che più lo influenzerà politicamente: Aldo Moro. L’amicizia tra le due famiglie è forte, e Marco fa presto a trasformare Moro nel suo mito. Comprensibile che a uno così le cose con l’altro sesso non vadano nel modo migliore. Quello delle donne, raccontano, «è un capitolo difficile della vita di Marco, e chi gli vuole bene sta attento a starne alla larga».
Entra nel movimento giovanile democristiano. «Giovani strani, vestiti da vecchi, completi pesanti, cravatte malscelte, lenti bifocali e montature terribili», infierisce il giornalista Marco Damilano nel suo libro “Democristiani immaginari”. «Andavano pazzi per un gioco incomprensibile ai coetanei: dividersi in correnti, come i loro riferimenti adulti». Marco è un doroteo. Sponsorizzato da Moro, l’amico di papà, diventa delegato nel 1977. «La candidatura di Follini è politicamente debole», scriveva Casini a Bisaglia e Flaminio Piccoli nel tentativo di bloccarne l’ascesa. Poi, siccome erano democristiani, si misero d’accordo: Follini capo, Casini vice.
Nel 1980 entra nella direzione nazionale della Dc, dove resta fino al 1986, quando viene spedito a svezzarsi nei posti di sottogoverno: sino al ’93 fa il consigliere d’amministrazione della Rai. Nel 1994 è uno dei fondatori del Ccd. È eletto deputato nel 1996 e nel 2001, anno in cui diventa presidente del partito. Nel 2002 la fusione con la Cdu dà vita all’Udc, e Follini ne è il segretario nazionale. Il suo scopo è delegittimare Berlusconi, e lo persegue tra gli applausi increduli dell’Ulivo. Follini, che considera l’aspetto numerico della democrazia un fastidioso freno alle sue ambizioni, si mette in competizione diretta con il leader di Forza Italia, sorvolando sull’abisso di consensi che li separa. Chiede «nuova rotta, nuova squadra, nuovo programma». Spinge per emarginare la Lega. Invoca ogni giorno la «discontinuità», che poi vuol dire mandare a casa Berlusconi per restituire il pallino ai professionisti della politica come lui. Nel dicembre del 2004 entra nel governo come vicepremier. Berlusconi spera che in questo modo lo stillicidio finisca, ma quello a smettere non ci pensa proprio. Così, quattro mesi dopo, quando il Cavaliere rimette mano al governo, per Follini non c’è più posto.
In campagna elettorale dà per scontata la sconfitta della Cdl e, democristianamente, si prepara a raccogliere ciò che di meglio se ne potrà ricavare. «Almeno», spiega a chi gli è vicino, «potremo ricominciare a ragionare senza Berlusconi». Non si fa problemi nel dare a tutti l’impressione di remare contro. Come quando a palazzo Chigi, alla presenza di un Cavaliere illividito dalla rabbia, dice rivolto alle telecamere: «Non penso sia Berlusconi il miglior candidato per la Cdl». Ma alla fine il vero trombato è proprio Follini. Prima deve dimettersi da segretario dell’Udc, poi incassa lo schiaffo delle urne: la vittoria, sfuggita per un soffio, sarebbe stata raggiunta se tutti i leader della coalizione ci avessero creduto. Ora Berlusconi è lì, che fa sentire il suo fiato sul collo di Prodi, mentre Follini, uscito dall’Udc, è costretto a offrirsi ai partiti di centrosinistra per non scomparire.
Chi adesso tiene i fili della sua vicenda politica, raccontano, è la moglie, Elisabetta Spitz, con la quale ha cresciuto una figlia che ora ha 14 anni. Lei lo costringe ad arrampicate mondane per le quali lui, tipo rigoroso dalle passioni fredde, proprio non è tagliato. Come fargli comprare casa ad Ansedonia, introducendosi così nel buen retiro di oligarchi di sinistra quali Giuliano Amato, Sabino Cassese e Augusto Fantozzi. Cresciuta alla scuola di Gianni Prandini, bresciano, ex potentissimo ministro dc dei Lavori Pubblici, la Spitz è stata nominata direttore dell’agenzia del Demanio dal secondo governo D’Alema, confermata nel suo incarico dal governo Berlusconi e quindi riconfermata poche settimane fa da Prodi. Il che, visto il ruolo delicatissimo che sta giocando in questo momento il marito, proprio non stupisce.
© Libero. Pubblicato l'11 gennaio 2007.