La sinistra e il prezzo della democrazia

di Fausto Carioti
Non chiamatela violenza. La definizione giusta è quella che ha dato il Manifesto, orgoglioso quotidiano comunista: si chiama «blocco democratico», perché da esso dipende «una buona dose della nostra democrazia reale». È la versione 2.0 del vecchio slogan che accompagnava le P38 negli anni Settanta: «Potere agli operai». Vuol dire che le leggi a costoro non si applicano, perché quelli che al resto dei cittadini paiono soprusi e violenze, come i blocchi di strade e ferrovie imposti dai metalmeccanici nei giorni scorsi, sono invece tappe necessarie per l’avanzamento della società lungo la via del socialismo. Chi non riesce ad apprezzarli, questi loro sforzi progressisti, magari perché fermo da due ore sulla tangenziale davanti a un manipolo in tuta blu, è per definizione un individuo meschino, privo di solidarietà.
L’ipocrisia con cui la sinistra italiana gioca da sempre in parallelo sui due tavoli - quello di lotta e quello di governo - è tornata sui massimi storici. Prima vanno in televisione, con le facce preoccupate, a parlare delle riforme necessarie per tirare fuori, signora mia, il paese dallo «sfascio» in cui l’ha precipitato Berlusconi. Poi, davanti a chi blocca strade e ferrovie, si dividono tra chi applaude i soprusi dei compagni che sfasciano le leggi e i diritti altrui e chi si limita a strizzare l’occhio. È successo così in Val di Susa, dove i lavori per l’alta velocità intanto sono stati bloccati sino a dopo le elezioni, in attesa di vedere cosa succede il 9 aprile. È successo così con il rinnovo del contratto delle tute blu, “pagato” anche da migliaia di automobilisti e pendolari (lavoratori anche loro). Niente di diverso da quanto accade in tante città italiane, dove le scene di occupazione delle case da parte dei gruppi di sinistra sono diventate parte del normale arredo urbano, con gli assessori ulivisti impegnati a guardare altrove.
Il copione è ben rodato. Prima fase: gli interessi che motivano la violenza e l’illegalità sono mascherati con i soliti slogan «democratici» e «progressisti». Seconda fase: le forze dell’ordine fanno poco, se possibile - come nel caso dei metalmeccanici - addirittura niente per fermare i soprusi. Perché il governo che alla sinistra più bamba piace definire «cileno» in realtà preferisce abbozzare piuttosto che usare la forza per far rispettare la legge. Probabilmente anche perché succube esso stesso della cagnara messa su dalla stampa e dagli esponenti politici progressisti. Terza e ultima fase: i teppisti sponsorizzati dalla sinistra vincono. O in modo strisciante, come in Val di Susa, dove il governo per non perdere del tutto la faccia ha accampato motivazioni tecniche alla sospensione dei lavori. O in modo palese, come accaduto con i blocchi dei metalmeccanici.
Quando il leader della Fiom-Cgil Giorgio Cremaschi, imitato dagli altri sindacalisti di categoria, dice che «è stata decisiva la mobilitazione di massa dei lavoratori, con i blocchi delle autostrade e delle ferrovie», ammette chiaro e tondo che i sindacati sono morti e che la concertazione e le trattative sono inutili, perché solo la violenza paga. E incoraggia i prossimi che verranno a usare lo stesso metodo, che ha causato danni a un numero altissimo di italiani, ma ha consentito alle tute blu di strappare ai «padroni» i cento euro di aumento che il sindacato non era stato capace di ottenere. Perché poi, alla fine, di questo si trattava: 5,5 euro in più a fine mese, tanti quanti separavano l’offerta di Federmeccanica dalle richieste dei sindacati. Niente a che vedere con la difesa della «democrazia reale». Il cui prezzo, a sinistra, si spera non sia tanto basso.
© Libero. Pubblicato il 20 gennaio 2006.

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