Qualcuno spieghi alla sinistra italiana che i democratici sanno fare la guerra più e meglio di Bush

Detto l'ovvio, e cioè che da queste parti si faceva il tifo per i candidati repubblicani, resta da occuparsi del resto del mondo. Circola, in queste ore (anche a destra, ma soprattutto a sinistra), una curiosa teoria, per la quale le elezioni americane sarebbero state vinte dagli equivalenti statunitensi di Alfonso Pecoraro Scanio e Giovanni Russo Spena. Una tesi un po' bislacca, che però fa gola al popolo della sinistra italiana, che applica - confermando così una certa ignoranza diffusa - alla realtà americana gli schemi italiani. Si immaginano un Silvio Berlusconi premier (nel loro piatto immaginario l'equivalente stivalato di George W. Bush), lo circondano da una maggioranza di parlamentari di sinistra estrema e si preparano a godersi la scena dello scuoiamento seduti sul divano, pop corn in mano. Ovviamente, certi quotidiani fanno a gara nel tenere a galla simili aspettative, accreditando la tesi di una grande svolta pacifista degli elettori americani e, di conseguenza, dell'intero Paese.

Tutto questo è molto buffo. Intanto, per iniziare a capire di chi stiamo realmente parlando, vale la pena di rileggersi questa dichiarazione tuttora presente sul sito della Camera di Washington, datata 16 dicembre 1998, ai tempi della presidenza di Bill Clinton:
«As a member of the House Intelligence Committee, I am keenly aware that the proliferation of chemical and biological weapons is an issue of grave importance to all nations. Saddam Hussein has been engaged in the development of weapons of mass destruction technology which is a threat to countries in the region and he has made a mockery of the weapons inspection process.

The responsibility of the United States in this conflict is to eliminate weapons of mass destruction, to minimize the danger to our troops and to diminish the suffering of the Iraqi people. The citizens of Iraq have suffered the most for Saddam Hussein's activities; sadly, those same citizens now stand to suffer more. I have supported efforts to ease the humanitarian situation in Iraq and my thoughts and prayers are with the innocent Iraqi civilians, as well as with the families of U.S. troops participating in the current action.

I believe in negotiated solutions to international conflict. This is, unfortunately, not going to be the case in this situation where Saddam Hussein has been a repeat offender, ignoring the international community's requirement that he come clean with his weapons program. While I support the President, I hope and pray that this conflict can be resolved quickly and that the international community can find a lasting solution through diplomatic means».
E' firmata da Nancy Pelosi, la nuova eroina dell'Unità, che da capogruppo dei democratici sta per diventare speaker della Camera. La Pelosi, quindi, ha denunciato l'esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq e teorizzato l'intervento militare ben prima che Bush iniziasse il suo mandato. Al quale, nel luglio del 2003, ha inviato una lettera ufficiale, assieme agli altri leader democratici, in cui si legge che
«The magnificent performance of our armed forces in ousting Saddam Hussein and his brutal regime has created an opportunity to build a free Iraq and promote positive change in the region».
e in cima alle richieste fatte alla Casa Bianca è messo il seguente punto:
«We do not have sufficient numbers of troops in Iraq, or the right mix, to protect our own forces, much less establish a secure environment for 22 million Iraqis. We urge you to increase overall force levels by drawing on more troops from more nations, and not just our own. For our own forces, we should set up a rotation system that conforms to the reality of a long-term presence in Iraq, and the ability of our military to sustain it. (...) Other nations have skills, resources, and experience that would benefit our reconstruction efforts in Iraq. They must be encouraged to participate, and we must be prepared to exchange some control for greater burden-sharing».
Tradotto in italiano e in termini semplici, la condanna (sempre più dura ed esplicita man mano che ci si è avvicinati all'appuntamento elettorale di metà mandato, e da oggi destinata a scendere di tono) fatta dai vertici dei democratici alla guerra in Iraq riguarda prima di tutto il "come". Al di là degli slogan delle ultime ore prima del voto, l'accusa reale mossa all'amministrazione repubblicana, e messa nero su bianco in questa lettera alla Casa Bianca, non è quella di aver fatto la guerra (che è, da sempre, l'accusa della sinistra italiana), ma di averla gestita male dopo la caduta di Saddam Hussein. Tanto che spesso i vertici democratici hanno raccolto le proteste dei generali i quali chiedevano una maggiore dotazione di uomini. Bush e Rumsfeld sono criticati per avere messo a rischio troppi soldati americani, senza adeguata protezione militare da parte degli altri Paesi, i quali dovevano essere coinvolti di più. L'esatto contrario di quello che sostiene la sinistra italiana, per la quale i nostri soldati sono stati sin troppo presenti in Iraq, e anzi avrebbero fatto meglio a non metterci nemmeno piede.

Del resto, i democratici votarono a favore della guerra in Iraq. E niente marca meglio l'abisso che separa i democratici americani dalla sinistra italiana del messaggio inviato dalla stessa Pelosi a Bush e ai soldati americani il 23 marzo 2003, il giorno della decisione:
«Americans stand united behind our men and women in uniform. We pray for the swift and successful disarmament of Iraq with the least possible loss of life among our forces and the civilians of Iraq. Congress will ensure our armed forces have the support they need to prevail in the difficult and dangerous mission in which they are now engaged. God bless our courageous forces and their brave families. God bless the President of the United States. God bless America».
C'è molto altro da dire. Come sempre negli Stati Uniti, esistono (e non sono pochi) parlamentari democratici interventisti e parlamentari repubblicani non interventisti. Non è certo un pacifista, sotto alcun punto di vista, il neoletto deputato democratico Joe Sestak (Pennsylvania), ex vice ammiraglio impegnato nell'operazione militare in Afghanistan. Non lo è il suo collega Chris Carney (Pennsylvania), ex militare ed esperto di antiterrorismo. Non lo è Bob Casey (Pennsylvania anche lui). Non lo è Heath Shuler (North Carolina): democratico, sì, ma contrario a ogni controllo sulle armi da fuoco (e, incidentalmente, antiabortista).

Al Senato, l'uomo che ora fa la differenza è l'ex democratico, ora indipendente, Joe Lieberman, che sull'Iraq ha una posizione assai più convinta di buona parte dei repubblicani (leggere quello che scriveva nemmeno un anno fa). Nel Connecticut Lieberman, facendo il pieno dei voti dei repubblicani (il candidato ufficiale repubblicano ha preso appena il 10% dei voti) ha surclassato il candidato democratico Ned Lamont, lui sì contrario alla guerra in Iraq (alle primarie del partito democratico Lamont aveva sconfitto Lieberman, a ulteriore conferma che la differenza stavolta l'hanno fatta gli elettori di destra favorevoli al coinvolgimento americano in Iraq). Da notare che, di cinque membri repubblicani del Congresso che votarono contro la liberazione dell'Iraq, tre sono stati bocciati dagli elettori.

E' importante poi sottolineare che molti dei neoeletti democratici al Congresso ritengono che sia giunto il momento di lasciare l'Iraq agli iracheni affinché l'esercito americano abbia il tempo necessario per occuparsi di minacce ritenute più serie per la sicurezza nazionale, come la Corea del Nord. Chissà cosa ne pensa la sinistra italiana.

Che l'equazione democratici uguale pacifisti sia uno schema infantile lo dimostra la stessa storia dei presidenti americani democratici. Solo nel secondo dopoguerra, Harry S. Truman portò gli Stati Uniti in guerra contro la Corea del Nord. Quindi John F. Kennedy avviò il conflitto in Vietnam e il suo vicepresidente diventatogli successore, Lyndon B. Johnson, fu quello durante il quale la guerra raggiunse il culmine. Bill Clinton, è storia recente, decise l'intervento della Nato in Kosovo. Spaccando la sinistra italiana, che mostra così di non sapere imparare nemmeno dal proprio passato.

Insomma, la via d'uscita zapaterista, il "via subito dall'Iraq" è un'opzione che esiste solo nei wet dreams dei più ingenui. Soprattutto, vi è un consenso diffuso sulla necessità di proseguire la lotta al terrorismo su scala globale, se necessario anche aprendo nuovi scenari. Non vi è traccia nella nuova politica statunitense di un disimpegno militare americano nel mondo, e con ogni probabilità non ve ne sarebbe nemmeno se quelle appena vinte dai democratici fossero state le elezioni presidenziali. L'esito del voto e le dimissioni di Donald Rumsfeld (il cui successore, Robert Gates, non è certo una colomba), in altre parole, ufficializzano un cambio di strategia in Iraq (da dove comunque non si fugge), non certo il ribaltamento della politica estera americana. Con buona pace di chi si era illuso così facilmente.

Post scriptum. Essendo il tempo a disposizione sempre meno, ed essendo intenzionato a usarne il più possibile per scrivere articoli e post, sono costretto a recuperarlo dalla lettura dei commenti e dalla risposta ad essi. Ergo, da oggi, in via sperimentale, niente più commenti su questo blog. Se per un periodo limitato o per sempre, lo decideranno i miei impegni. Resta attiva, ovviamente, la mail, tramite la quale avviene già da tempo la comunicazione "vera" con tanti lettori.

Update. Qualche lettura consigliata sugli argomenti sopra trattati:
Only a Minor Earthquake, di Charles Krauthammer
Concession Stands. Politicians are at their best when acknowledging defeat, di Peggy Noonan
Quei dibattiti al ristorante di noi liberal dissidenti. Così nacquero i neocon, intervista a Daniel Pipes
Dopo Rumsfeld. Il bivio degli Stati Uniti tra Iraq e Iran, di Mario Sechi

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