Berlusconi, Prodi, la Cdl, le elezioni, An, l'Islam e Sarkozy: intervista a Fini
di Fausto Carioti
Basta con le polemiche pretestuose, con la volontà di differenziarsi a tutti i costi - anche facendosi del male a vicenda - tra alleati del centrodestra. Basta col mettere in discussione la leadership di Silvio Berlusconi. È il momento, questo, in cui bisogna impegnarsi per fare in modo che tutte le contraddizioni del centrosinistra esplodano, senza concedere alibi né appigli agli avversari. Una volta mandato a casa Romano Prodi, si potrà ragionare sul resto, tenendo presente che la cosa migliore da fare sarà tornare alle urne, anche con l’attuale legge elettorale. Prima di partire per il Molise, Gianfranco Fini spiega a Libero la sua strategia per far tornare il centrodestra maggioranza nel Paese (dove probabilmente già lo è, grazie agli errori di Prodi) e in Parlamento. Il presidente di Alleanza nazionale tiene anche a chiarire che, su temi cruciali come l’immigrazione islamica, non si è convertito al “politicamente corretto”. Tutt’altro.
Presidente Fini, pochi giorni fa Libero ha pubblicato un sondaggio realizzato dall’Istituto Piepoli. Si chiedeva agli elettori del centrodestra di indicare chi, secondo loro, sarebbe il migliore candidato premier della coalizione alle prossime elezioni. Lei ha ottenuto il 33% dei voti, Berlusconi il 41%. Appena otto punti di distanza.
«Sarei ipocrita se dicessi che non mi ha fatto piacere. Al tempo stesso, dopo tanti anni di esperienza politica, so benissimo che bisogna stare con i piedi per terra, a lavorare per l’obiettivo che ci si è prefissi. E il mio obiettivo non è fare a gara con Berlusconi».
Qual è il suo obiettivo?
«È fare in modo che quanto prima ci sia una maggioranza di centrodestra per liberare l’Italia da Prodi. Non ha alcun senso oggi discutere di leadership del centrodestra. Oggi ha senso rafforzare il centrodestra. È questo il nostro dovere».
E come si rafforza il centrodestra?
«Innanzitutto evitando i distinguo, le polemiche pretestuose, i tentativi di spaccare il capello in quattro per portare acqua al proprio piccolo mulino».
Ogni riferimento a Pier Ferdinando Casini è puramente casuale.
«Parlo per me stesso e credo di parlare, se me lo consentono, anche per gli altri amici della Casa delle Libertà. Essere uniti e determinati è l’appello quotidiano che ci rivolgono gli elettori di centrodestra. Oggi, se vogliamo galvanizzare chi ci ha dato fiducia, e dare una speranza concreta a chi non lo ha fatto e si è già pentito, tutto possiamo fare tranne che dare lo spettacolo della divisione».
Anche perché, quando lo fate, i vostri elettori non vi capiscono.
«Come ho detto in un’altra circostanza, mi piacerebbe se con Berlusconi e con Casini, e al Nord anche con Bossi, entrassimo in una sala in cui vi sono cento elettori della Cdl e, dopo aver parlato con loro, cercassimo di indovinare chi ha votato per Forza Italia, chi per An, chi per l’Udc e chi per la Lega. Sarebbe difficilissimo riuscirci. Perché è chiaro che ognuno di loro ha scelto di votare per un partito della Cdl. Ma prima di tutto ha scelto la coalizione. Lo si vede anche in piazza, dove gli elettori con la bandiera della Lega dividono lo stesso metro quadro con quelli dell’Udc, di Forza Italia e di An».
Questo vuol dire che il partito unico, nei fatti, già esiste.
«Il partito unico, che preferisco chiamare partito unitario di centrodestra, non può nascere dalla sera alla mattina. Ci vuole un processo, anche piuttosto lungo, di partecipazione e di discussione. È un punto di arrivo, non un punto di partenza. Fatta questa premessa, la resistenza verso questa prospettiva unitaria viene dagli eletti, non dagli elettori. In ogni consiglio comunale c’è sempre l’eletto che si chiede: ma domani sarò ancora io il capogruppo, o toccherà a qualcun altro?»
Intanto la Finanziaria di Prodi ha contribuito a spostare la bilancia dei consensi verso il centrodestra.
«Non mi stupisce. È una Finanziaria classista, perché parte dal presupposto che produrre ricchezza sia una colpa. Tutti quelli che lavorano in proprio sono considerati evasori».
Prodi e i suoi ministri si giustificano con l’esigenza di redistribuire il reddito.
«Sì, hanno cercato di indorare la loro impostazione ideologica con una bugia: “Togliamo ai ricchi per dare ai poveri”. Ma non è così, e lo mostrano i numeri. Tasse e sacrifici per tutti quelli che guadagnano dai 40.000 euro lordi l’anno in su. Certo, per la fascia dai 15.000 ai 40.000 euro ci saranno, grazie alla rimodulazione delle aliquote, 60, 80 o 100 euro di tasse in meno. Ma quello che con una mano si dà, con l’altra mano si toglie con gli interessi, nel momento in cui si aumentano il bollo sulle auto, l’Ici, le altre imposte locali e i costi dei servizi pubblici».
Così lei scenderà in piazza, anche se Casini non ci sarà.
«Certo. E non sarò da solo. Ci saranno centinaia di migliaia di italiani. Tra loro, anche tanti elettori dell’Udc».
Lei ha detto che Prodi «cadrà da solo». Che vuol dire?
«Quando affermo che Prodi cadrà da solo, lo faccio per contestare la tesi di chi ci dice che se cerchiamo di dargli la spallata finiamo per rafforzarlo. Ma noi non stiamo cercando di dargli la spallata».
Cosa state facendo allora?
«Noi esprimiamo in piazza e in Parlamento un dissenso che oggi è talmente diffuso che si fa prima a ricordare chi non ha protestato. Protestano persino gli esponenti del centrosinistra contro se stessi. Questo dissenso è talmente forte, anche all’interno del centrosinistra, da farmi dire che prima o poi, a forza di tirare la corda, questa si rompe e il governo cade da solo. Prodi stesso, in un’intervista a “El Pais”, ha detto che non lo mandano via perché non sanno chi mettere al suo posto, non perché sta governando bene. Ci fosse un’alternativa, questa maggioranza sarebbe già caduta».
Quando cadrà?
«Spero il più presto possibile, ma nessuno lo sa. Di sicuro, c’è che Prodi si sta logorando molto più velocemente di quanto tutti avessimo previsto. Nessuno immaginava che dopo sei mesi saremmo già stati al “de profundis”. Pagano il prezzo dell’armata Bracalone che hanno dovuto mettere in piedi per vincere contro il centrodestra. È sempre più chiaro che il loro unico mastice è l’anti-berlusconismo, l’avversione per la Cdl».
Un mastice potente, però.
«Sì, ma quando devono decidere cosa fare di nuovo rispetto al centrodestra sono perennemente divisi. L’ennesima prova è la manifestazione di domani (oggi per chi legge, ndr). Se scendono in piazza contro chi non fa abbastanza contro il precariato, vuol dire che scendono in piazza contro il governo. Nel momento in cui tentano di trovare un mastice unitario per la manifestazione, sono costretti a mettere all’ordine del giorno l’abolizione della Bossi-Fini, della legge Biagi, della riforma Moratti. Eppure, visto che hanno vinto loro, dovrebbero scendere in piazza per proporre qualcosa o rivendicare parte del loro operato, non per protestare contro se stessi o per cancellare le riforme che abbiamo fatto noi».
Il futuro di questa legislatura si gioca al Senato, dove il leghista Roberto Calderoli denuncia che, in ogni votazione importante, c’è sempre qualche assenza decisiva tra i senatori di An e Forza Italia.
«Potrei invocare la legge dei grandi numeri, secondo la quale chi ha molti più senatori ha anche più probabilità di avere assenti. Ma, a parte questo, non è così. Mi sono informato. E quando ci sono state assenze ingiustificate tra i banchi di An, sul Secolo d’Italia, il giorno dopo, sono stati censurati i tre senatori coinvolti. In un altro caso, un nostro senatore era in missione, ma con lui c’erano due senatori del centrosinistra».
Gli elettori si attendono dagli eletti un presidio continuo, sono poco interessati alle missioni all’estero.
«E infatti Matteoli, il nostro capogruppo, è stato tassativo: l’assenza è ingiustificabile. Non esiste impegno politico o personale che abbia la priorità rispetto al voto sulla Finanziaria. Nessun elettore capirebbe se, a causa degli assenti della Cdl, il governo riuscisse a spuntarla per un paio di voti».
Immaginiamo che domani Prodi non ottenga la fiducia al Senato sulla Finanziaria. Che succede?
«Se Prodi non ottiene la fiducia, la Costituzione vigente assegna al capo dello Stato il compito di verificare se esista o meno una maggioranza in Parlamento. Ma la faccia tosta di Prodi e il suo terrore sono tali che, un minuto dopo essere caduto, non escludo che si presenti al Quirinale dicendo che tutto è stato chiarito e chiedendo il reincarico. Si tratta di un’ipotesi da non escludere».
E lei, a nome di Alleanza Nazionale, cosa proporrebbe al Colle?
«La via maestra, nel momento in cui la maggioranza non c’è più, è tornare alle urne. Il grado di vischiosità della politica italiana e il dettato della Costituzione vigente, che attribuisce il potere di sciogliere le Camere al Capo dello Stato, mi fanno dire, però, che ci sono anche tante altre ipotesi. Ecco perché un po’ tutti nella Cdl, seppure con sfumature diverse, ci siamo detti disposti a valutare qualunque scenario, pur di evitare che l’Italia continui a essere malgovernata da Prodi. Ma la via maestra, ripeto, è quella delle elezioni».
Avrebbe senso tornare a votare con l’attuale legge elettorale?
«Questo è uno dei punti dolenti. Intanto faccio notare che, dopo appena sei mesi, lo stesso presidente del Senato ha chiesto di mettere all’ordine del giorno dell’agenda politica la riforma della legge elettorale. Da che mondo è mondo, questo è un argomento da fine legislatura, non da inizio».
Forse stavolta le due cose coincidono.
«Appunto. Ed è importante che sia lo stesso Marini a dirlo, non uno qualsiasi. Come se non bastasse, l’iniziativa referendaria trasversale per cancellare dall’attuale legge elettorale il premio di maggioranza alla coalizione e lasciarlo alla lista determina un forte sconvolgimento dell’assetto politico, perché tende a creare un sostanziale bipolarismo. Mettendo assieme le due cose, è prevedibile che la legge elettorale venga cambiata nel corso della legislatura».
Ma se, come dice lei, il governo è pronto a cadere e la via da imboccare è quella delle elezioni, si va alle urne con il sistema attuale. Con il rischio di uscirne fuori con un altro sostanziale pareggio.
«Sono convinto che varrebbe la pena di correre questo rischio, perché la delusione che Prodi ha creato anche tra i suoi elettori è tale che non si avrebbe un vincitore con il 50,1% dei voti e uno sconfitto con il 49,9. Vinceremmo con un margine assai più ampio, non perché molti elettori che hanno votato per Prodi sceglierebbero il centrodestra, ma perché si ripeterebbe quel fenomeno di astensionismo che già in passato ha colpito il centrosinistra».
Alleanza Nazionale, intanto, sta lavorando per entrare nel partito popolare europeo. In che modo?
«Non abbiamo bisogno di dare credenziali, tutti sanno chi siamo e cosa abbiamo fatto. Il mio impegno alla Convenzione europea, il mio ruolo da ministro degli Esteri, il lavoro fatto dai nostri deputati a Strasburgo parlano chiaro».
Che tempi si è dato?
«Noi non chiediamo di entrare nel Ppe adesso. Il nostro traguardo sono le elezioni europee del 2009. Se contemporaneamente va avanti il processo unitario, è auspicabile che per allora si arrivi con una lista dei partiti italiani che si riconoscono nel Ppe: cioè Forza Italia e Udc, che già ne fanno parte, e An, che aspira a entrarvi. Tra l’altro, al parlamento europeo, per regolamento, non si può entrare in un gruppo a legislatura iniziata».
Francesco Storace sostiene che in questo modo lei intende trasformare An in una nuova Dc, e ha creato una corrente apposta per impedirlo.
«Nel momento in cui si parla di questioni così complesse bisogna farlo a ragion veduta, e non con la logica di vent’anni fa. E oggi il partito popolare europeo, tranne che nella componente tedesca, cioè nella Cdu-Csu bavarese, non ha nessun altro grande raggruppamento politico di derivazione democratico-cristiana».
Storace chiede la convocazione di un congresso. Quando si farà?
«Il congresso nazionale si farà nel momento in cui il partito ne ravviserà la necessità, e non perché lo chiede un dirigente, per quanto autorevole. Oggi il partito non ravvisa questa necessità. Ravvisiamo invece l’esigenza di adottare quella strategia in chiave europea che ho appena spiegato e di riorganizzare il partito, anche aprendolo all’esterno, attraverso la celebrazione, in primavera, di 110 congressi provinciali, che sono il momento in cui il partito si organizza meglio sul territorio».
Alcune volte lei non sembra in sintonia con il suo elettorato e con gli esponenti del suo partito. Ad esempio quando ha definito il film di Renzo Martinelli, “Il mercante di pietre”, un esempio di «becera propaganda» anti islamica. Lì il presidente di An è sembrato, a molti, troppo politicamente corretto.
«Un tema come l’Islam è talmente complesso e pericoloso da rendere indispensabile un approccio che non sia superficiale, come quello legato al semplice giudizio, positivo o negativo che sia, su un film».
Lasciamo da parte la pellicola, allora, e parliamo solo di Islam.
«Parto da una considerazione banale, ma che va fatta: avremo sempre più musulmani in Italia. È impensabile alzare le frontiere e dire che non li vogliamo, anche se questo potrebbe piacere a qualcuno. A differenza di altri grandi Paesi europei, noi italiani è la prima volta che ci confrontiamo con un fenomeno del genere. Seconda considerazione, tutt’altro che politicamente corretta: io contesto che l’integrazione coincida automaticamente con la concessione della cittadinanza».
Che invece è la linea del governo Prodi.
«Appunto. Io ritengo che il provvedimento del governo Prodi per ridurre da dieci a cinque anni il tempo necessario a un immigrato per ottenere la cittadinanza sia profondamente sbagliato. Ma non per il numero degli anni: io contesto il principio che la concessione della cittadinanza comporti l’integrazione. Prova ne sia che in Francia i casseurs sono tutti francesi e che i bombaroli di Londra avevano il passaporto di Sua Maestà. La cittadinanza non è un diritto, ma uno status. Per ottenerlo diventa indispensabile che io dimostri non solo giurandolo, ma anche con i miei comportamenti, di accettare tradizioni, costumi e valori della nazione di cui voglio diventare cittadino».
Come si risolve il problema?
«Intanto prevedendo che la cittadinanza, così come viene concessa, possa anche essere revocata se i fatti dimostrano che l’immigrato non si riconosce in certi valori di fondo. L’islamico pakistano che questa estate ha sgozzato la figlia probabilmente aveva tutti i requisiti per diventare cittadino italiano. Il problema, allora, non è stabilire i presupposti formali per la cittadinanza, ma essere molto espliciti nel dire che integrarsi significa respingere la logica del ghetto».
L’esperienza del resto d’Europa dimostra che spesso sono gli immigrati islamici che scelgono di stare separati dalla società che li ospita.
«Esatto. Ma proprio perché noi questi problemi ancora non li abbiamo, iniziamo subito col dire che è impensabile che ci siano scuole solo per islamici, quartieri solo per islamici e così via. O riusciamo a integrarli “spalmandoli” nella società italiana, o creiamo i ghetti. Che ci portano dritti dritti al muro di via Anelli».
Fatto sta che l’integralismo islamico attrae sempre più gli arabi.
«Finito il mito del panarabismo, le masse arabo-musulmane hanno ritrovato una loro identità forte nella religione, che se imbevuta di integralismo è pericolosa. Il vero antidoto consiste nel dare anche al nostro popolo coscienza di un’identità. Io ho paura di quello che non conosco, ma ne ho paura soprattutto se non so cosa sono io. C’è un lungo lavoro culturale da fare per ridare identità all’Occidente».
A chi spetta questo lavoro? Alla politica? Alla chiesa?
«A tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Ne sono talmente convinto che ho fatto di tutto, in sede di Convenzione europea, per inserire nella carta il riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Dal punto di vista legislativo servono, ad esempio, politiche per favorire la nascita dei figli. L’Europa è vecchia e l’Italia lo è ancora di più, e non possiamo lamentarci se c’è sempre più bisogno d’immigrati. Il problema demografico e quello dell’integrazione vanno affrontati insieme».
Chi è il politico europeo con cui sente più affinità? Il ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy, alla cui edizione italiana di un libro lei ha appena scritto la prefazione?
«Sì, anche se la realtà francese è molto diversa da quella italiana, vedo diverse affinità con Sarkozy, e nel suo libro si ritrovano tante delle cose che ho detto. Ci sono sensibilità comuni in Europa sul tema dell’immigrazione, soprattutto musulmana. Il presupposto, tipico di una certa visione culturale della destra politica, è che il cosiddetto multiculturalismo si è rivelato un fallimento».
Per concludere. Cosa ha pensato quando ha letto su Libero la storia dell’ex brigatista rosso che ora lavora al Viminale come segretario particolare del sottosegretario di Rifondazione Francesco Bonato?
«Ho fatto tre riflessioni. La prima: fosse successo a un personaggio analogo di estrema destra, non oso immaginare cosa sarebbe successo. La seconda: non è un problema di illegalità o di illegittimità, ma di opportunità. E magari, per quel tizio, anche di coscienza. Insomma, se fino a ieri pensava alla lotta armata contro lo stato borghese, adesso dovrebbe chiedere scusa di tutto il male che ha fatto quando credeva in certe cose. Terza considerazione: a indignare non è tanto il fatto in sé, quanto che le vittime del terrorismo vengono dimenticate, mentre chi ha contribuito a fare quei lutti, alla fine, torna sempre agli onori delle cronache».
Basta con le polemiche pretestuose, con la volontà di differenziarsi a tutti i costi - anche facendosi del male a vicenda - tra alleati del centrodestra. Basta col mettere in discussione la leadership di Silvio Berlusconi. È il momento, questo, in cui bisogna impegnarsi per fare in modo che tutte le contraddizioni del centrosinistra esplodano, senza concedere alibi né appigli agli avversari. Una volta mandato a casa Romano Prodi, si potrà ragionare sul resto, tenendo presente che la cosa migliore da fare sarà tornare alle urne, anche con l’attuale legge elettorale. Prima di partire per il Molise, Gianfranco Fini spiega a Libero la sua strategia per far tornare il centrodestra maggioranza nel Paese (dove probabilmente già lo è, grazie agli errori di Prodi) e in Parlamento. Il presidente di Alleanza nazionale tiene anche a chiarire che, su temi cruciali come l’immigrazione islamica, non si è convertito al “politicamente corretto”. Tutt’altro.
Presidente Fini, pochi giorni fa Libero ha pubblicato un sondaggio realizzato dall’Istituto Piepoli. Si chiedeva agli elettori del centrodestra di indicare chi, secondo loro, sarebbe il migliore candidato premier della coalizione alle prossime elezioni. Lei ha ottenuto il 33% dei voti, Berlusconi il 41%. Appena otto punti di distanza.
«Sarei ipocrita se dicessi che non mi ha fatto piacere. Al tempo stesso, dopo tanti anni di esperienza politica, so benissimo che bisogna stare con i piedi per terra, a lavorare per l’obiettivo che ci si è prefissi. E il mio obiettivo non è fare a gara con Berlusconi».
Qual è il suo obiettivo?
«È fare in modo che quanto prima ci sia una maggioranza di centrodestra per liberare l’Italia da Prodi. Non ha alcun senso oggi discutere di leadership del centrodestra. Oggi ha senso rafforzare il centrodestra. È questo il nostro dovere».
E come si rafforza il centrodestra?
«Innanzitutto evitando i distinguo, le polemiche pretestuose, i tentativi di spaccare il capello in quattro per portare acqua al proprio piccolo mulino».
Ogni riferimento a Pier Ferdinando Casini è puramente casuale.
«Parlo per me stesso e credo di parlare, se me lo consentono, anche per gli altri amici della Casa delle Libertà. Essere uniti e determinati è l’appello quotidiano che ci rivolgono gli elettori di centrodestra. Oggi, se vogliamo galvanizzare chi ci ha dato fiducia, e dare una speranza concreta a chi non lo ha fatto e si è già pentito, tutto possiamo fare tranne che dare lo spettacolo della divisione».
Anche perché, quando lo fate, i vostri elettori non vi capiscono.
«Come ho detto in un’altra circostanza, mi piacerebbe se con Berlusconi e con Casini, e al Nord anche con Bossi, entrassimo in una sala in cui vi sono cento elettori della Cdl e, dopo aver parlato con loro, cercassimo di indovinare chi ha votato per Forza Italia, chi per An, chi per l’Udc e chi per la Lega. Sarebbe difficilissimo riuscirci. Perché è chiaro che ognuno di loro ha scelto di votare per un partito della Cdl. Ma prima di tutto ha scelto la coalizione. Lo si vede anche in piazza, dove gli elettori con la bandiera della Lega dividono lo stesso metro quadro con quelli dell’Udc, di Forza Italia e di An».
Questo vuol dire che il partito unico, nei fatti, già esiste.
«Il partito unico, che preferisco chiamare partito unitario di centrodestra, non può nascere dalla sera alla mattina. Ci vuole un processo, anche piuttosto lungo, di partecipazione e di discussione. È un punto di arrivo, non un punto di partenza. Fatta questa premessa, la resistenza verso questa prospettiva unitaria viene dagli eletti, non dagli elettori. In ogni consiglio comunale c’è sempre l’eletto che si chiede: ma domani sarò ancora io il capogruppo, o toccherà a qualcun altro?»
Intanto la Finanziaria di Prodi ha contribuito a spostare la bilancia dei consensi verso il centrodestra.
«Non mi stupisce. È una Finanziaria classista, perché parte dal presupposto che produrre ricchezza sia una colpa. Tutti quelli che lavorano in proprio sono considerati evasori».
Prodi e i suoi ministri si giustificano con l’esigenza di redistribuire il reddito.
«Sì, hanno cercato di indorare la loro impostazione ideologica con una bugia: “Togliamo ai ricchi per dare ai poveri”. Ma non è così, e lo mostrano i numeri. Tasse e sacrifici per tutti quelli che guadagnano dai 40.000 euro lordi l’anno in su. Certo, per la fascia dai 15.000 ai 40.000 euro ci saranno, grazie alla rimodulazione delle aliquote, 60, 80 o 100 euro di tasse in meno. Ma quello che con una mano si dà, con l’altra mano si toglie con gli interessi, nel momento in cui si aumentano il bollo sulle auto, l’Ici, le altre imposte locali e i costi dei servizi pubblici».
Così lei scenderà in piazza, anche se Casini non ci sarà.
«Certo. E non sarò da solo. Ci saranno centinaia di migliaia di italiani. Tra loro, anche tanti elettori dell’Udc».
Lei ha detto che Prodi «cadrà da solo». Che vuol dire?
«Quando affermo che Prodi cadrà da solo, lo faccio per contestare la tesi di chi ci dice che se cerchiamo di dargli la spallata finiamo per rafforzarlo. Ma noi non stiamo cercando di dargli la spallata».
Cosa state facendo allora?
«Noi esprimiamo in piazza e in Parlamento un dissenso che oggi è talmente diffuso che si fa prima a ricordare chi non ha protestato. Protestano persino gli esponenti del centrosinistra contro se stessi. Questo dissenso è talmente forte, anche all’interno del centrosinistra, da farmi dire che prima o poi, a forza di tirare la corda, questa si rompe e il governo cade da solo. Prodi stesso, in un’intervista a “El Pais”, ha detto che non lo mandano via perché non sanno chi mettere al suo posto, non perché sta governando bene. Ci fosse un’alternativa, questa maggioranza sarebbe già caduta».
Quando cadrà?
«Spero il più presto possibile, ma nessuno lo sa. Di sicuro, c’è che Prodi si sta logorando molto più velocemente di quanto tutti avessimo previsto. Nessuno immaginava che dopo sei mesi saremmo già stati al “de profundis”. Pagano il prezzo dell’armata Bracalone che hanno dovuto mettere in piedi per vincere contro il centrodestra. È sempre più chiaro che il loro unico mastice è l’anti-berlusconismo, l’avversione per la Cdl».
Un mastice potente, però.
«Sì, ma quando devono decidere cosa fare di nuovo rispetto al centrodestra sono perennemente divisi. L’ennesima prova è la manifestazione di domani (oggi per chi legge, ndr). Se scendono in piazza contro chi non fa abbastanza contro il precariato, vuol dire che scendono in piazza contro il governo. Nel momento in cui tentano di trovare un mastice unitario per la manifestazione, sono costretti a mettere all’ordine del giorno l’abolizione della Bossi-Fini, della legge Biagi, della riforma Moratti. Eppure, visto che hanno vinto loro, dovrebbero scendere in piazza per proporre qualcosa o rivendicare parte del loro operato, non per protestare contro se stessi o per cancellare le riforme che abbiamo fatto noi».
Il futuro di questa legislatura si gioca al Senato, dove il leghista Roberto Calderoli denuncia che, in ogni votazione importante, c’è sempre qualche assenza decisiva tra i senatori di An e Forza Italia.
«Potrei invocare la legge dei grandi numeri, secondo la quale chi ha molti più senatori ha anche più probabilità di avere assenti. Ma, a parte questo, non è così. Mi sono informato. E quando ci sono state assenze ingiustificate tra i banchi di An, sul Secolo d’Italia, il giorno dopo, sono stati censurati i tre senatori coinvolti. In un altro caso, un nostro senatore era in missione, ma con lui c’erano due senatori del centrosinistra».
Gli elettori si attendono dagli eletti un presidio continuo, sono poco interessati alle missioni all’estero.
«E infatti Matteoli, il nostro capogruppo, è stato tassativo: l’assenza è ingiustificabile. Non esiste impegno politico o personale che abbia la priorità rispetto al voto sulla Finanziaria. Nessun elettore capirebbe se, a causa degli assenti della Cdl, il governo riuscisse a spuntarla per un paio di voti».
Immaginiamo che domani Prodi non ottenga la fiducia al Senato sulla Finanziaria. Che succede?
«Se Prodi non ottiene la fiducia, la Costituzione vigente assegna al capo dello Stato il compito di verificare se esista o meno una maggioranza in Parlamento. Ma la faccia tosta di Prodi e il suo terrore sono tali che, un minuto dopo essere caduto, non escludo che si presenti al Quirinale dicendo che tutto è stato chiarito e chiedendo il reincarico. Si tratta di un’ipotesi da non escludere».
E lei, a nome di Alleanza Nazionale, cosa proporrebbe al Colle?
«La via maestra, nel momento in cui la maggioranza non c’è più, è tornare alle urne. Il grado di vischiosità della politica italiana e il dettato della Costituzione vigente, che attribuisce il potere di sciogliere le Camere al Capo dello Stato, mi fanno dire, però, che ci sono anche tante altre ipotesi. Ecco perché un po’ tutti nella Cdl, seppure con sfumature diverse, ci siamo detti disposti a valutare qualunque scenario, pur di evitare che l’Italia continui a essere malgovernata da Prodi. Ma la via maestra, ripeto, è quella delle elezioni».
Avrebbe senso tornare a votare con l’attuale legge elettorale?
«Questo è uno dei punti dolenti. Intanto faccio notare che, dopo appena sei mesi, lo stesso presidente del Senato ha chiesto di mettere all’ordine del giorno dell’agenda politica la riforma della legge elettorale. Da che mondo è mondo, questo è un argomento da fine legislatura, non da inizio».
Forse stavolta le due cose coincidono.
«Appunto. Ed è importante che sia lo stesso Marini a dirlo, non uno qualsiasi. Come se non bastasse, l’iniziativa referendaria trasversale per cancellare dall’attuale legge elettorale il premio di maggioranza alla coalizione e lasciarlo alla lista determina un forte sconvolgimento dell’assetto politico, perché tende a creare un sostanziale bipolarismo. Mettendo assieme le due cose, è prevedibile che la legge elettorale venga cambiata nel corso della legislatura».
Ma se, come dice lei, il governo è pronto a cadere e la via da imboccare è quella delle elezioni, si va alle urne con il sistema attuale. Con il rischio di uscirne fuori con un altro sostanziale pareggio.
«Sono convinto che varrebbe la pena di correre questo rischio, perché la delusione che Prodi ha creato anche tra i suoi elettori è tale che non si avrebbe un vincitore con il 50,1% dei voti e uno sconfitto con il 49,9. Vinceremmo con un margine assai più ampio, non perché molti elettori che hanno votato per Prodi sceglierebbero il centrodestra, ma perché si ripeterebbe quel fenomeno di astensionismo che già in passato ha colpito il centrosinistra».
Alleanza Nazionale, intanto, sta lavorando per entrare nel partito popolare europeo. In che modo?
«Non abbiamo bisogno di dare credenziali, tutti sanno chi siamo e cosa abbiamo fatto. Il mio impegno alla Convenzione europea, il mio ruolo da ministro degli Esteri, il lavoro fatto dai nostri deputati a Strasburgo parlano chiaro».
Che tempi si è dato?
«Noi non chiediamo di entrare nel Ppe adesso. Il nostro traguardo sono le elezioni europee del 2009. Se contemporaneamente va avanti il processo unitario, è auspicabile che per allora si arrivi con una lista dei partiti italiani che si riconoscono nel Ppe: cioè Forza Italia e Udc, che già ne fanno parte, e An, che aspira a entrarvi. Tra l’altro, al parlamento europeo, per regolamento, non si può entrare in un gruppo a legislatura iniziata».
Francesco Storace sostiene che in questo modo lei intende trasformare An in una nuova Dc, e ha creato una corrente apposta per impedirlo.
«Nel momento in cui si parla di questioni così complesse bisogna farlo a ragion veduta, e non con la logica di vent’anni fa. E oggi il partito popolare europeo, tranne che nella componente tedesca, cioè nella Cdu-Csu bavarese, non ha nessun altro grande raggruppamento politico di derivazione democratico-cristiana».
Storace chiede la convocazione di un congresso. Quando si farà?
«Il congresso nazionale si farà nel momento in cui il partito ne ravviserà la necessità, e non perché lo chiede un dirigente, per quanto autorevole. Oggi il partito non ravvisa questa necessità. Ravvisiamo invece l’esigenza di adottare quella strategia in chiave europea che ho appena spiegato e di riorganizzare il partito, anche aprendolo all’esterno, attraverso la celebrazione, in primavera, di 110 congressi provinciali, che sono il momento in cui il partito si organizza meglio sul territorio».
Alcune volte lei non sembra in sintonia con il suo elettorato e con gli esponenti del suo partito. Ad esempio quando ha definito il film di Renzo Martinelli, “Il mercante di pietre”, un esempio di «becera propaganda» anti islamica. Lì il presidente di An è sembrato, a molti, troppo politicamente corretto.
«Un tema come l’Islam è talmente complesso e pericoloso da rendere indispensabile un approccio che non sia superficiale, come quello legato al semplice giudizio, positivo o negativo che sia, su un film».
Lasciamo da parte la pellicola, allora, e parliamo solo di Islam.
«Parto da una considerazione banale, ma che va fatta: avremo sempre più musulmani in Italia. È impensabile alzare le frontiere e dire che non li vogliamo, anche se questo potrebbe piacere a qualcuno. A differenza di altri grandi Paesi europei, noi italiani è la prima volta che ci confrontiamo con un fenomeno del genere. Seconda considerazione, tutt’altro che politicamente corretta: io contesto che l’integrazione coincida automaticamente con la concessione della cittadinanza».
Che invece è la linea del governo Prodi.
«Appunto. Io ritengo che il provvedimento del governo Prodi per ridurre da dieci a cinque anni il tempo necessario a un immigrato per ottenere la cittadinanza sia profondamente sbagliato. Ma non per il numero degli anni: io contesto il principio che la concessione della cittadinanza comporti l’integrazione. Prova ne sia che in Francia i casseurs sono tutti francesi e che i bombaroli di Londra avevano il passaporto di Sua Maestà. La cittadinanza non è un diritto, ma uno status. Per ottenerlo diventa indispensabile che io dimostri non solo giurandolo, ma anche con i miei comportamenti, di accettare tradizioni, costumi e valori della nazione di cui voglio diventare cittadino».
Come si risolve il problema?
«Intanto prevedendo che la cittadinanza, così come viene concessa, possa anche essere revocata se i fatti dimostrano che l’immigrato non si riconosce in certi valori di fondo. L’islamico pakistano che questa estate ha sgozzato la figlia probabilmente aveva tutti i requisiti per diventare cittadino italiano. Il problema, allora, non è stabilire i presupposti formali per la cittadinanza, ma essere molto espliciti nel dire che integrarsi significa respingere la logica del ghetto».
L’esperienza del resto d’Europa dimostra che spesso sono gli immigrati islamici che scelgono di stare separati dalla società che li ospita.
«Esatto. Ma proprio perché noi questi problemi ancora non li abbiamo, iniziamo subito col dire che è impensabile che ci siano scuole solo per islamici, quartieri solo per islamici e così via. O riusciamo a integrarli “spalmandoli” nella società italiana, o creiamo i ghetti. Che ci portano dritti dritti al muro di via Anelli».
Fatto sta che l’integralismo islamico attrae sempre più gli arabi.
«Finito il mito del panarabismo, le masse arabo-musulmane hanno ritrovato una loro identità forte nella religione, che se imbevuta di integralismo è pericolosa. Il vero antidoto consiste nel dare anche al nostro popolo coscienza di un’identità. Io ho paura di quello che non conosco, ma ne ho paura soprattutto se non so cosa sono io. C’è un lungo lavoro culturale da fare per ridare identità all’Occidente».
A chi spetta questo lavoro? Alla politica? Alla chiesa?
«A tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Ne sono talmente convinto che ho fatto di tutto, in sede di Convenzione europea, per inserire nella carta il riferimento alle radici cristiane dell’Europa. Dal punto di vista legislativo servono, ad esempio, politiche per favorire la nascita dei figli. L’Europa è vecchia e l’Italia lo è ancora di più, e non possiamo lamentarci se c’è sempre più bisogno d’immigrati. Il problema demografico e quello dell’integrazione vanno affrontati insieme».
Chi è il politico europeo con cui sente più affinità? Il ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy, alla cui edizione italiana di un libro lei ha appena scritto la prefazione?
«Sì, anche se la realtà francese è molto diversa da quella italiana, vedo diverse affinità con Sarkozy, e nel suo libro si ritrovano tante delle cose che ho detto. Ci sono sensibilità comuni in Europa sul tema dell’immigrazione, soprattutto musulmana. Il presupposto, tipico di una certa visione culturale della destra politica, è che il cosiddetto multiculturalismo si è rivelato un fallimento».
Per concludere. Cosa ha pensato quando ha letto su Libero la storia dell’ex brigatista rosso che ora lavora al Viminale come segretario particolare del sottosegretario di Rifondazione Francesco Bonato?
«Ho fatto tre riflessioni. La prima: fosse successo a un personaggio analogo di estrema destra, non oso immaginare cosa sarebbe successo. La seconda: non è un problema di illegalità o di illegittimità, ma di opportunità. E magari, per quel tizio, anche di coscienza. Insomma, se fino a ieri pensava alla lotta armata contro lo stato borghese, adesso dovrebbe chiedere scusa di tutto il male che ha fatto quando credeva in certe cose. Terza considerazione: a indignare non è tanto il fatto in sé, quanto che le vittime del terrorismo vengono dimenticate, mentre chi ha contribuito a fare quei lutti, alla fine, torna sempre agli onori delle cronache».
© Libero. Pubblicato il 4 novembre 2006.