Quello che un presidente della repubblica non dovrebbe dire

di Fausto Carioti
Giorgio Napolitano fatica a entrare nei panni di un presidente della repubblica super partes. Ammesso, s’intende, che abbia davvero voglia d’indossarli. L’impressione, e lo si è visto anche nell’intervista rilasciata ieri al settimanale francese “L’Express”, è che preferisca usare il Quirinale per ritagliarsi un ruolo non da padre della patria, ma da padre più o meno nobile del centrosinistra. Un genitore con due figli: il pargolo prediletto, quel Romano Prodi, presidente del Consiglio, la cui coalizione ha sollevato di peso Napolitano per portarlo sul Colle, e il figliastro che deve sopportare ma del quale farebbe volentieri a meno, quel Silvio Berlusconi, leader dell’opposizione, che dal canto suo avrebbe fatto volentieri a meno di vedere Napolitano al Quirinale. Un figliastro nei cui confronti non riesce a trattenere una forte insofferenza, che trapela ogni qualvolta il presidente della repubblica abbandona le formule di circostanza.
Nell’intervista al settimanale transalpino Napolitano ha solo parole di miele per il figliolo più imbolsito. Alla domanda sulla «fragilità» della coalizione di centrosinistra, risponde garantendo di persona: «Prodi deve fare del suo meglio per superare queste fragilità e governare. Una delle sue qualità è la pazienza. E ha la capacità di unire, cosa che è forse il suo principale atout in questa situazione. Penso che abbia buone possibilità di riuscire». Per il figliastro, invece, solo imbarazzo e rimbrotti. Prima un gelido «non intendo dare giudizi su Berlusconi». Quindi, una esplicita tirata d’orecchie alla politica estera del centrodestra: in questi ultimi anni, è l’accusa, «non si è avuta la sensazione di un impegno davvero coerente da parte del governo sul terreno europeo». È vero che l’Italia è stata tra i primi paesi a ratificare il Trattato costituzionale, ma questo, avverte Napolitano, «non basta», perché «nella tradizione italiana c’è sempre stato un equilibrio tra l’impegno europeo e le relazioni amichevoli con gli Stati Uniti. Ma l’Europa deve tornare ad essere la priorità». Per inciso, costituzione alla mano, non spetta certo al presidente della Repubblica stabilire quali debbano essere le «priorità» della politica estera.
Quanto al resto dell’intervista, colpiscono sia l’appello a superare le divisioni perché «il principio maggioritario non è la dittatura della maggioranza», sia la spiegazione che Napolitano dà della sua scelta di farsi eleggere al Quirinale: «Vedendo lo stato di divisione del paese e il fatto che si sia potuta capire meglio la mia candidatura invece di quella di qualcun altro più giovane e più “politico”, non potevo rifiutare». Colpiscono intanto perché, piaccia o meno, Napolitano è stato eletto dalla maggioranza con una prova di forza, e questo ha rappresentato un ulteriore motivo di divisione. E poi quel «non potevo rifiutare», che lascia intendere chissà quale supremo sacrificio per il bene del Paese, puzza tanto di ipocrisia: diciamo piuttosto che simili treni passano una volta nella vita, soprattutto se hai 81 anni, e che nessuno sano di mente si farebbe scappare l’occasione.
Naturale che nella Cdl, soprattutto in Forza Italia e Lega, i mal di pancia si facciano sempre più forti. Postcomunista per postcomunista, iniziano a pensare in tanti col senno di poi, stai a vedere che era meglio Massimo D’Alema: meglio ritrovarsi tutti figliastri che passare sette anni a mangiare gli avanzi dell’altro. Chi non ha certi rimorsi sono gli uomini dell’Udc, con Pier Ferdinando Casini che evoca antichi slogan avvisando che «Napolitano ha sempre ragione», e Marco Follini, che invita a «non demonizzare il simbolo dell’unità del Paese». Proprio sull’atteggiamento da tenere col Quirinale la Cdl si gioca parte delle sue chances di restare unita anche all’opposizione. I segnali, sinora, non sono dei migliori. Diciamo.

© Libero. Pubblicato il 25 maggio 2006.

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