Prodi non ha nulla da offrire, Berlusconi non ha nulla da perdere

Alla fine l'inevitabile è avvenuto: Silvio Berlusconi e Romano Prodi si sono incontrati. Argomento obbligato: evitare spargimenti di sangue nella battaglia per il Quirinale. Le cronache dicono che hanno discusso per un'ora e un quarto, scortati dai fidi Gianni Letta e Ricky Levi. Ci sarà un altro incontro, prima di lunedì. Il problema è che in quei 75 minuti i due non hanno trovato alcuna via d'uscita all'impasse, perché niente di interessante aveva da offrire Prodi - che aveva chiesto il colloquio - a Berlusconi. Non a caso si è scoperto che i quattro hanno discusso soprattutto del "metodo", che è ciò che si dice quando sui contenuti non vi è alcuna possibilità di confronto. Prodi non ha potuto offrire a Berlusconi alcuna rosa di candidati tra cui scegliere, perché la sinistra porterà un solo nome. Né Prodi ha potuto discutere su quale debba essere questo nome, perché lui stesso è il primo ad avere le mani legate: la sinistra ha un candidato unico, ed è Massimo D'Alema. Le possibili compensazioni che Prodi può concedere al centrodestra, magari sotto forma di qualche presidenza di commissione al Senato, sono semplicemente ridicole. Alla Cdl resta così un'alternativa secca: accettare, e magari provare a mettere il cappello sull'elezione di D'Alema, o rifiutare e, nel caso - probabile - in cui D'Alema la spunti farsi interprete nelle piazze della metà netta del Paese che vede D'Alema al Quirinale (in tandem con Bertinotti alla Camera) come il peggiore degli incubi.
Se la Cdl tiene il punto e non sbraga, l'unica speranza che le resta sono i franchi tiratori della sinistra. D'Alema sta sulle scatole a molti dell'Unione, ed è scontato che tanti, specie nella Margherita, si rifiuteranno di votarlo. Nei primi tre turni, nei quali è prevista la maggioranza di due terzi dell'assemblea, è scontato che il suo nome non passi. Dal quarto turno, però, basterà la maggioranza assoluta (il 50% più uno dei voti) e i numeri per farcela l'Unione li ha tutti. Insomma, ci vorrebbe davvero una sommossa sotterranea a sinistra per impallinare D'Alema, con tutte le ripercussioni devastanti che questo avrebbe sul governo e l'alleanza. A quel punto potrebbero tornare in pista Giuliano Amato e persino Franco Marini, che oggi si è tirato indietro per spirito di squadra e per gratitudine verso i Ds, i quali hanno difeso con le unghie e i denti la sua candidatura alla presidenza del Senato, ma che non è scemo e al Quirinale, manco a dirlo, ci andrebbe di corsa qualora il front-man della sinistra, D'Alema, finisse impallinato. Per scongiurare simili eventualità il dalemiano Vincenzo Visco non si è fatto problemi, usando lo stesso tatto con cui un tempo trattava i contribuenti, a minacciare gli alleati: la trombatura di D'Alema, ha avvisato, «non sarebbe una cosa indolore» per il centrosinistra. Rutelli avvisato, mezzo salvato.
A complicare un pochino la vita a D'Alema ci si sono messe poi la grande stampa e la Conferenza episcopale. Oggi tre editoriali politicamente pesantissimi hanno chiesto esplicitamente all'Unione di non provare a fare il colpo di mano. Il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, dice che la maggioranza deve «coinvolgere le forze di opposizione, cercando un consenso più ampio del suo perimetro parlamentare, non per ragioni numeriche, ma per ragioni di ordine istituzionale e politico», laddove D'Alema «è un nome che divide, nel Paese e nel Palazzo, ha nemici anche nel centrosinistra che conosce la sua forza, e ha qualche ammiratore nascosto nel centrodestra, che però l'ha usato come spauracchio simbolico per mobilitare il suo elettorato in tutte le ultime campagne». Quello di Mauro, per la vicinanza del quotidiano di largo Fochetti alle posizioni della sinistra (anche se non certo a quelle di D'Alema) è il colpo più basso giunto al candidato unico dell'Unione.
Ma anche l'editoriale del Corriere è stato chiaro. Paolo Franchi oggi avverte che «tocca al centrosinistra individuare e poi verificare con il centrodestra quale, tra tutte le sue possibili indicazioni, nessuna esclusa, possa trovare il consenso più ampio, tenendo a bada la tentazione pericolosa dell’autosufficienza». Tradotto: nessun diktat su un solo nome. E ieri Pierluigi Battista, sempre sulla prima pagina del Corriere, aveva scritto che «la maggioranza non può prendere tutto, e il Quirinale non è una fortezza da espugnare umiliando gli avversari».
Infine, il quotidiano dei vescovi: Avvenire. Che nell'editoriale odierno, a firma Marco Tarquinio, avverte (anche in questo caso per la seconda volta) la sinistra: «Non è neppure pensabile che uno schieramento dimostratosi in grado di raccogliere a malapena il consenso della metà del Paese finisca per prendere possesso di tutte e tre le massime istituzioni della Repubblica lasciando scoperta l'altra metà». Messaggio chiaro: in Vaticano non vogliono il presidente dei Ds sul Colle.
Di simili "avvertimenti" D'Alema se ne frega, e questo suo lato trucido, in fondo, è uno dei pochi motivi per cui qui si prova una certa simpatia per lui. Resta da vedere se se ne sbattono anche i centristi dell'Unione. In caso affermativo, la partita è già chiusa. In caso negativo, a sinistra sarà pianto e stridor di denti.

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