Il marchio di Bertinotti sulla Mortadella
di Fausto Carioti
Davanti a una lenza come Fausto Bertinotti è facile abboccare all’amo. È così carino, così simpatico, così educato, così ammodo, così borghesuccio piccino picciò, il leader del Prc, che quasi ti fa credere che il comunismo, anziché rifondato, sia morto per sempre, soffocato sotto enormi matasse di cachemire o annegato - bicchiere di Havana Club in mano - nella piscina in pietra viva di una villa in Umbria. Bertinotti si prepara a fare il presidente della Camera, con grande rabbia dei Ds, con la stessa faccia divertita con cui, qualche anno fa, scortato dalla moglie, saltellava nei casinò di Las Vegas, l’enclave ultracapitalista del capitalismo americano: una puntata da cento dollari al black jack, dieci minuti alla slot machine, un cocktail al bar, ruota del pavone davanti ai turisti italiani che lo hanno riconosciuto, un salto nella boutique dell’albergo con la carta di credito in mano. Per poi ricominciare daccapo, facendo credere a tutti di voler abbattere il neoliberismo a colpi di foie gras. Difficile ritenere pericoloso uno così, facile provare simpatia per lui.
Peccato che il Bertinotti che tutti vorremmo avere come vicino di casa sia tanto adorabile da un punto di vista umano quanto inesistente da quello politico. Il Bertinotti che conosciamo è uno spot, e come tutti gli spot nasconde una realtà molto diversa, assai meno piacevole. Un leader politico è definito, prima di ogni altra cosa, dal suo partito. E Rifondazione comunista è il partito che difende i picchiatori no-global e vuole togliere gli assassini delle Br dal regime di carcere duro. Assegnare la terza carica dello Stato al capo di un simile schieramento vuol dire dare rappresentanza istituzionale a chi ha scelto la violenza e l’attacco alle istituzioni come metodo di lotta politica.
Non occorre andare indietro nel tempo per capire di che pasta sono fatti gli uomini di Bertinotti: basta leggere le cronache del dopo-elezioni. Ieri sette parlamentari di Rifondazione Comunista, tra cui il no global milanese Daniele Farina, il suo “collega” napoletano Francesco Caruso e il capogruppo di Rifondazione al Senato, Gigi Malabarba, affiancati dal solito verde, Paolo Cento, hanno scritto e firmato un appello per chiedere la scarcerazione dei venticinque autonomi arrestati durante gli scontri avvenuti l’11 marzo in corso Buenos Aires a Milano e rimasti in carcere con l’accusa di devastazioni aggravate, saccheggio, incendio, violenza, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale.
Detta come va detta: quei venticinque che Rifondazione “copre” col suo aiuto politico sono la feccia del teppismo rosso. L’ordinanza con cui il tribunale del riesame un mese fa ha respinto la richiesta della loro scarcerazione li descrive come autori di una «lucida strategia di devastazione», che con un «nutrito lancio di pietre e ordigni esplosivi» hanno ferito cinque poliziotti e quattro carabinieri. Secondo la ricostruzione dei magistrati, che si sono basati anche sui filmati, i venticinque arrestati, assieme ad altri esponenti dei centri sociali, alcuni dei quali già presenti agli scontri del G-8 di Genova, hanno creato «una barricata formata da cassonetti, pezzi di arredo urbano e un ciclomotore», da dietro la quale hanno lanciato «razzi e molotov» e dato il via a una «sistematica operazione di devastazione», incendiando alcune autovetture, distruggendo la vetrina di un McDonald’s e uno stand di Alleanza Nazionale. Gli autori di questa «vera e propria guerriglia urbana», insistono i magistrati, hanno mostrato una «non comune capacità di commettere reati contro l’ordine pubblico con uso della violenza», «freddezza strategica» nonché «inveterata esperienza e consuetudine alla realizzazione di simili condotte». Ecco, questi sono gli uomini che la pattuglia bertinottiana, forte della vittoria dell’Unione grazie allo 0,06 per cento dei voti, si sente in diritto di pretendere liberi.
La storia degli squadristi rossi che hanno devastato Milano non è molto diversa da quella della brigatista Nadia Desdemona Lioce, che lo scorso marzo è stata condannata definitivamente all’ergastolo per l’omicidio - aggravato dalle finalità di terrorismo - dell’agente della Polfer Emanuele Petri. La Lioce è rinchiusa nel carcere dell’Aquila in un regime di super-isolamento, che secondo gli uomini di Rifondazione va oltre quanto previsto dall’articolo 41-bis, che introduce il “carcere duro” e riduce al minimo i contatti con l’esterno dei detenuti “speciali”, come mafiosi e terroristi. Così due esponenti di Rifondazione, giovedì scorso, hanno chiesto la fine dell’isolamento per la brigatista rossa e l’abolizione del 41 bis. Si tratta, per inciso, della stessa richiesta che fanno i boss mafiosi, e si può immaginare, se l’avesse portata avanti qualche garantista della Casa delle Libertà, le reazioni e le insinuazioni che avrebbe scatenato a sinistra.
Queste sono le idee e gli uomini che hanno portato Bertinotti laddove è adesso. Legittimarli al punto da assegnare al segretario di Rifondazione la terza carica dello Stato è una scelta che marchierà a fuoco questa seconda Mortadella di governo e sposterà inevitabilmente il baricentro politico della nuova legislatura verso chi predica e pratica la violenza politica, anche armata. All’altra metà dell’Italia, quella degli elettori di centro-destra, resta solo una piccola soddisfazione, pure tardiva: è sempre più difficile, alla luce dei “signorsì” con cui il leader dell’Unione sta rispondendo agli ordini di Bertinotti, non dare ragione a Silvio Berlusconi quando definì Prodi «l’utile idiota che presta la faccia di curato bonario ai comunisti».
© Libero. Pubblicato il 22 aprile 2006.
Post scriptum. Il prossimo aggiornamento di questo blog è previsto per il 25 aprile. Sino ad allora è attivata la moderazione dei commenti. Buon fine settimana a tutti. E buon ponte a chi lo fa.
Davanti a una lenza come Fausto Bertinotti è facile abboccare all’amo. È così carino, così simpatico, così educato, così ammodo, così borghesuccio piccino picciò, il leader del Prc, che quasi ti fa credere che il comunismo, anziché rifondato, sia morto per sempre, soffocato sotto enormi matasse di cachemire o annegato - bicchiere di Havana Club in mano - nella piscina in pietra viva di una villa in Umbria. Bertinotti si prepara a fare il presidente della Camera, con grande rabbia dei Ds, con la stessa faccia divertita con cui, qualche anno fa, scortato dalla moglie, saltellava nei casinò di Las Vegas, l’enclave ultracapitalista del capitalismo americano: una puntata da cento dollari al black jack, dieci minuti alla slot machine, un cocktail al bar, ruota del pavone davanti ai turisti italiani che lo hanno riconosciuto, un salto nella boutique dell’albergo con la carta di credito in mano. Per poi ricominciare daccapo, facendo credere a tutti di voler abbattere il neoliberismo a colpi di foie gras. Difficile ritenere pericoloso uno così, facile provare simpatia per lui.
Peccato che il Bertinotti che tutti vorremmo avere come vicino di casa sia tanto adorabile da un punto di vista umano quanto inesistente da quello politico. Il Bertinotti che conosciamo è uno spot, e come tutti gli spot nasconde una realtà molto diversa, assai meno piacevole. Un leader politico è definito, prima di ogni altra cosa, dal suo partito. E Rifondazione comunista è il partito che difende i picchiatori no-global e vuole togliere gli assassini delle Br dal regime di carcere duro. Assegnare la terza carica dello Stato al capo di un simile schieramento vuol dire dare rappresentanza istituzionale a chi ha scelto la violenza e l’attacco alle istituzioni come metodo di lotta politica.
Non occorre andare indietro nel tempo per capire di che pasta sono fatti gli uomini di Bertinotti: basta leggere le cronache del dopo-elezioni. Ieri sette parlamentari di Rifondazione Comunista, tra cui il no global milanese Daniele Farina, il suo “collega” napoletano Francesco Caruso e il capogruppo di Rifondazione al Senato, Gigi Malabarba, affiancati dal solito verde, Paolo Cento, hanno scritto e firmato un appello per chiedere la scarcerazione dei venticinque autonomi arrestati durante gli scontri avvenuti l’11 marzo in corso Buenos Aires a Milano e rimasti in carcere con l’accusa di devastazioni aggravate, saccheggio, incendio, violenza, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale.
Detta come va detta: quei venticinque che Rifondazione “copre” col suo aiuto politico sono la feccia del teppismo rosso. L’ordinanza con cui il tribunale del riesame un mese fa ha respinto la richiesta della loro scarcerazione li descrive come autori di una «lucida strategia di devastazione», che con un «nutrito lancio di pietre e ordigni esplosivi» hanno ferito cinque poliziotti e quattro carabinieri. Secondo la ricostruzione dei magistrati, che si sono basati anche sui filmati, i venticinque arrestati, assieme ad altri esponenti dei centri sociali, alcuni dei quali già presenti agli scontri del G-8 di Genova, hanno creato «una barricata formata da cassonetti, pezzi di arredo urbano e un ciclomotore», da dietro la quale hanno lanciato «razzi e molotov» e dato il via a una «sistematica operazione di devastazione», incendiando alcune autovetture, distruggendo la vetrina di un McDonald’s e uno stand di Alleanza Nazionale. Gli autori di questa «vera e propria guerriglia urbana», insistono i magistrati, hanno mostrato una «non comune capacità di commettere reati contro l’ordine pubblico con uso della violenza», «freddezza strategica» nonché «inveterata esperienza e consuetudine alla realizzazione di simili condotte». Ecco, questi sono gli uomini che la pattuglia bertinottiana, forte della vittoria dell’Unione grazie allo 0,06 per cento dei voti, si sente in diritto di pretendere liberi.
La storia degli squadristi rossi che hanno devastato Milano non è molto diversa da quella della brigatista Nadia Desdemona Lioce, che lo scorso marzo è stata condannata definitivamente all’ergastolo per l’omicidio - aggravato dalle finalità di terrorismo - dell’agente della Polfer Emanuele Petri. La Lioce è rinchiusa nel carcere dell’Aquila in un regime di super-isolamento, che secondo gli uomini di Rifondazione va oltre quanto previsto dall’articolo 41-bis, che introduce il “carcere duro” e riduce al minimo i contatti con l’esterno dei detenuti “speciali”, come mafiosi e terroristi. Così due esponenti di Rifondazione, giovedì scorso, hanno chiesto la fine dell’isolamento per la brigatista rossa e l’abolizione del 41 bis. Si tratta, per inciso, della stessa richiesta che fanno i boss mafiosi, e si può immaginare, se l’avesse portata avanti qualche garantista della Casa delle Libertà, le reazioni e le insinuazioni che avrebbe scatenato a sinistra.
Queste sono le idee e gli uomini che hanno portato Bertinotti laddove è adesso. Legittimarli al punto da assegnare al segretario di Rifondazione la terza carica dello Stato è una scelta che marchierà a fuoco questa seconda Mortadella di governo e sposterà inevitabilmente il baricentro politico della nuova legislatura verso chi predica e pratica la violenza politica, anche armata. All’altra metà dell’Italia, quella degli elettori di centro-destra, resta solo una piccola soddisfazione, pure tardiva: è sempre più difficile, alla luce dei “signorsì” con cui il leader dell’Unione sta rispondendo agli ordini di Bertinotti, non dare ragione a Silvio Berlusconi quando definì Prodi «l’utile idiota che presta la faccia di curato bonario ai comunisti».
© Libero. Pubblicato il 22 aprile 2006.
Post scriptum. Il prossimo aggiornamento di questo blog è previsto per il 25 aprile. Sino ad allora è attivata la moderazione dei commenti. Buon fine settimana a tutti. E buon ponte a chi lo fa.