Berlusconi, Bush e l'Iraq: ecco lo stenografico del 20 maggio 2004

Da ridere. Tutta la politica italiana degli ultimi giorni è ruotata intorno a questa frase di Silvio Berlusconi, di sabato 29 ottobre 2005: «Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un Paese e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa».
Il Corriere della Sera (versione on line) titola: «Clamorosa rivelazione del Presidente del Consiglio». Clamorosa.
La Repubblica: «La svolta arriva dai sondaggi».
L'Unità ci apre il giornale due giorni di fila e titola (domenica 12 febbraio): «Finisce il grande inganno».
Il Manifesto: «Il "presidente pacifista" è l'ultima trovata del Cavaliere».
Interviene il bollito, da par suo: «Si è accorto solo adesso che era una guerra sbagliata?».
Alfonso Pecoraro Scanio: «Le parole di Berlusconi sono gravissime, perché riconosce di aver messo da parte la sovranità nazionale per salvaguardare il suo rapporto con Bush».
Giuseppe Fioroni (Margherita), altro titano della politica: «Siamo commossi dal tardivo pentimento di Berlusconi».
Ora, si può essere d'accordo con l'intervento in Iraq oppure no (chi scrive lo è, ma stavolta non c'entra). Si può dire che Berlusconi mente, è un paraculo, un doppiogiochista. Ma non si può dire che la sua frase è clamorosa, una svolta, il segno della fine dell'inganno, una trovata di questi giorni dettata dall'andamento dei sondaggi, un riconoscimento o un pentimento tardivo.
Perché la stessa cosa Berlusconi l'ha detta più volte. E non di nascosto, ai microfoni di qualche agenzia di stampa di quart'ordine. In almeno un caso, l'ha detta pubblicamente, in modo assai più deciso e dettagliato, nientemeno che in Parlamento, davanti all'assemblea del Senato, il pomeriggio del 20 maggio del 2004. Cioè un anno e mezzo fa. Con queste esatte parole:

«Personalmente, ho avuto due lunghi colloqui con il presidente americano (il primo a Camp David, il secondo alla Casa Bianca) in cui ho cercato di sostenere le nostre tesi, che puntavano a dire che non era conveniente un’operazione militare, anche perché conoscevamo la complessità della società irachena: in particolare, la sua composizione a prevalenza sciita, quindi di religiosi che potevano essere indotti al fondamentalismo. Tutto ciò lo abbiamo fatto presente al nostro alleato americano, il quale, tuttavia, ad un certo punto ha assunto una decisione che si fonda anche sulla Carta delle Nazioni Unite: quella di un attacco preventivo, ritenendo che il suo Paese fosse in pericolo.
Cosa abbiamo fatto noi? In maniera molto chiara, abbiamo detto subito al presidente Bush che non era nelle nostre possibilità intervenire, ove non vi fosse una previa esplicita autorizzazione delle Nazioni Unite, perché la nostra Costituzione ce lo impedisce. Abbiamo tuttavia promesso un aiuto, da alleati leali; lo sottolineo: non da servi, ma da alleati leali, che provano riconoscenza nei confronti degli Stati Uniti d’America per averci salvati dal comunismo e dal nazismo, per averci aiutati ad entrare nell’area del benessere grazie alla generosità degli aiuti del Piano Marshall, per averci consentito per cinquant’anni di vivere con una certa tranquillità e senza l’incubo degli arsenali nucleari sovietici attraverso la NATO e grazie ai contribuenti americani, che hanno pagato quasi il 4 per cento di ciò che guadagnavano per quelle grandi spese militari che ci hanno consentito e ancora oggi ci consentono tranquillità».

Per avere la conferma basta leggere qui, nel resoconto stenografico di quella seduta al Senato, a pagina 44 (pagina 64 del file pdf).
E meno male che fanno i giornalisti e i politici.

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