Dopo lo champagne 2 (di Giovanni Orsina)

di Giovanni Orsina

L’ascesa di Nicholas Sarkozy alla presidenza della Repubblica Francese dimostra una volta di più quanto la nostra sia un’epoca «di destra». Storicamente stiamo ancora vivendo nella stagione, apertasi circa un quarto di secolo fa, della reazione all’ondata progressista degli anni Sessanta e Settanta. Politicamente, i temi oggi in cima all’agenda sono quasi tutti tali da favorire un approccio in senso lato liberalconservatore alla sfera pubblica: innovazione economica e imprenditoriale, riduzione dei costi del welfare, controllo dei flussi migratori, sicurezza, terrorismo internazionale e scontro di civiltà, difesa del tessuto sociale. Non per caso, come pure le elezioni presidenziali francesi hanno mostrato, le forze di sinistra stanno oggi sempre più intensamente riflettendo sull’opportunità di spostarsi verso il centro, consapevoli di come i loro strumenti culturali siano spesso inadatti ad affrontare le necessità dell’ora.

Allo stesso tempo, malgrado i tentativi di delegittimazione anche feroci dei quali è stato oggetto, Sarkozy sembra essere riuscito pure a «nazionalizzare la destra», ossia a dare al proprio liberalconservatorismo un’impronta inclusiva, ripensando ma non rinnegando quelle parti fondamentali della tradizione politica francese – dai diritti civili al welfare state – che in origine almeno vengono da sinistra. Salvaguardando insomma l’eredità repubblicana, e dandone però un’interpretazione «muscolare» che a fianco degli elementi liberali e garantisti ne ha evidenziato anche quelli dogmatici e disciplinari: i doveri oltre che i diritti.

Date queste premesse, è fin troppo naturale che la destra italiana guardi al di là delle Alpi con un certo interesse. Chiudendo un cerchio, per altro: perché Sarkozy si è ispirato, e non poco, all’esperienza berlusconiana. È fin troppo naturale, e certo potrebbe essere assai utile. Purché però si tenga conto delle notevoli differenze che corrono fra la storia italiana e la francese, e di quanto queste differenze distanzino proprio gli schieramenti moderati dei due paesi. Ossia, purché si sappia che la destra francese – sul piano storico, culturale e istituzionale – ha qualche decennio di vantaggio sull’italiana, la quale perciò, se vorrà ispirarsi all’esempio transalpino, dovrà accelerare non poco il passo.

Questo vantaggio, se volessimo semplificarlo fino all’essenziale, potremmo esprimerlo con tre parole: Charles De Gaulle. È stato soprattutto grazie al Generale, infatti, che della resistenza antifascista si è salvata in Francia anche un’interpretazione moderata e «nazionale», e non soltanto partitica e progressista com’è stato in Italia; se il sistema parlamentaristico della Quarta Repubblica ha incontrato una robusta opposizione politica e intellettuale pure sul versante destro dello spazio pubblico; se quell’opposizione ha poi potuto generare una Quinta Repubblica capace di riconciliare il carisma individuale, il presidenzialismo e il plebiscitarismo con la democrazia rappresentativa, e di risanare così un’antica, profondissima frattura della storia politica francese; se l’ondata progressista avviatasi negli anni Sessanta, e culminata col Sessantotto, ha trovato fin da subito una robusta opposizione moderata.

È di tutto questo che, per tanti versi, Sarkozy è figlio. Lo dimostrano la sua formazione gollista. La sua capacità di essere uomo di establishment, politico di professione da trent’anni, e al contempo uomo di rottura segnato da più che qualche venatura populista. La sua abilità nel farsi eleggere in virtù del proprio carisma personale, superando l’ostilità del suo stesso partito. Il forte attacco che in campagna elettorale ha mosso al Sessantotto, riallacciandosi all’opposizione gollista contro l’ondata progressista e sovversiva degli anni Sessanta e contro i suoi effetti di lungo periodo.

Ora, di tutto questo in Italia non abbiamo avuto pressoché nulla. Proprio negli anni in cui la Francia portava De Gaulle alla presidenza della repubblica e si dotava di una costituzione semi-presidenzialistica, in Italia si consolidava un sistema partitico – e partitocratico – fondato sull’antifascismo, che culturalmente relegava le destre, anche democratiche, nell’angolo della delegittimazione più assoluta. Se non si è eclissato, certo da allora il pensiero conservatore in Italia è stato assai marginale. Quando poi all’inizio degli anni Novanta, con la «discesa in campo» di Berlusconi, una destra capace di chiamarsi tale si è ripresa la cittadinanza, in termini culturali ha trovato ben poco su cui poter costruire. Nell’immediato ha rimediato a questa debolezza con un’ampia dose di populismo, e negli anni con un po’ di fortuna è anche riuscita almeno in qualche misura a rilegittimarsi sul terreno intellettuale. Non tanto, però, da recuperare il ritardo rispetto al caso francese. Né, diversamente dal Generale, ha saputo in tempi ragionevolmente brevi costruirsi un sistema istituzionale che le desse forza e le consentisse di durare nel tempo.

Una robusta tradizione intellettuale liberalconservatrice e una costituzione fondata sulla «monarchia elettiva» sono stati elementi fondamentali della vittoria di Sarkozy. In Italia non abbiamo né l’una né l’altra. Non c’è dubbio che per il centro destra nostrano la via da seguire sia in larga misura quella francese. La strada da fare, però, è ancora tanta.

© Il Mattino. Pubblicato l'8 maggio 2006.

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