Gli spioni di Telecom: no, non l'ho presa bene
di Fausto Carioti
Di tutte le sensazioni che può provare un individuo, poche sono più fastidiose dello scoprire che qualcuno molto grosso e molto potente usa i soldi che gli versi ogni bimestre nella bolletta telefonica, con l’aggiunta di qualche milione di euro, per frugare tra i tuoi documenti e nella tua corrispondenza, allo scopo di impedirti di fare il tuo lavoro e trovare materiale utile per ricattarti. Il sottoscritto il dubbio lo aveva da tempo, e quando è saltato fuori che gli sgherri di Telecom Italia avevano allestito una struttura degna della Spectre per monitorare la vita e le attività di Davide Giacalone, il dubbio era diventato quasi certezza. La conferma definitiva che ha tolto quel «quasi» è arrivata domenica mattina, leggendo l’articolo del bravo Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. Dall’ottobre 2003 al marzo 2004, come risulta da una relazione della polizia postale, il computer di chi scrive è stato frugato con attenzione, giorno per giorno, dagli hacker al soldo di Telecom. I quali hanno copiato sui loro hard disk tutta la posta elettronica che entrava e usciva dalla mia casella personale, esplorato il contenuto dei miei documenti e memorizzato alcune schermate del mio monitor.
Provo a spiegarmi meglio. Durante quei sei mesi, i signori in questione sono entrati in possesso di ogni dettaglio della mia vita professionale e personale. Sapevano a quali articoli stessi lavorando e cosa scrivevo, con chi mi scambiavo le mail, quali erano i movimenti del mio conto in banca e quale fosse la password per accedervi via Web. Erano al corrente degli acquisti fatti con la mia carta di credito (l’estratto conto mi arriva via mail, come a milioni di italiani). Per arrivare a occuparsi del sottoscritto, devono avere probabilmente seguito i miei spostamenti, sicuramente intercettato le mie telefonate (cosa per loro mille volte più semplice del rovistare nel mio computer). Avessi acquistato su Internet un completo in pelle genere sadomaso, modello Pulp Fiction, lo avrebbero saputo, avrebbero preso l’appunto e aggiunto così un dettaglio interessante al dossier intestato al sottoscritto, per far vedere a chi pagava il loro lavoro che certi incarichi li prendono sul serio. Avessi acquistato on line farmaci dagli Stati Uniti, come fanno molti italiani, se ne sarebbero accorti, e forse avrebbero chiesto a qualche medico una diagnosi su misura per il sottoscritto, tanto per capire se soffrissi o meno di una malattia grave. Avessi avuto un’amante, lo avrebbero saputo, e magari avrebbero trovato il modo di farmi sapere che loro sapevano: fai il bravo, smettila di mettere il naso in faccende che non ti riguardano, e resta tutto tra di noi. Se l’amante fosse stato un uomo, meglio ancora. Può far sorridere, ma è proprio immondizia del genere quella cui erano interessati i solerti spioni pagati con i soldi delle nostre telefonate.
Perché tanto interesse negli affari privati del sottoscritto? Semplicemente perché mi era venuta voglia di vedere chiaro in quel gran casino che Telecom Italia aveva sollevato in Sud America. Il fondo d’investimento Opportunity, socio di maggioranza di Brasil Telecom, sosteneva che il prezzo (800 milioni di dollari) pagato nel luglio del 2000 dalla società per l’acquisizione della Crt, Companhia Riograndense Telecomunicacoes, era stato spinto all’insù, per ragioni tutte da chiarire, da Telecom Italia, all’epoca sotto la gestione di Roberto Colaninno, che di Brasil Telecom era il socio di minoranza. La merchant bank Interamericana, che nell’operazione aveva svolto il ruolo di advisor per conto di Brasil Telecom, in un documento aveva definito una «grande montatura» l’intera trattativa sul prezzo dell’operazione, indicando il giusto valore della Crt, che era stata ceduta dagli spagnoli di Telefónica, in una cifra che «difficilmente avrebbe superato i 450 milioni di dollari».
Come chiunque può intuire, è molto strano che un azionista insista perché una società nella quale ha investito i suoi soldi paghi 350 milioni più del dovuto. Una mossa simile si sarebbe potuta spiegare solo con la volontà di dar vita a un giro di soldi dai contorni poco chiari. Per un giornalista, quindi, cercare di capire cosa stesse succedendo, e scoprire se le accuse di Opportunity fossero fondate, era di fatto un obbligo.
Seguivo la vicenda da qualche anno, e proprio verso la metà del settembre 2003 sembrava si dovesse essere a un punto di svolta. Brasil Telecom, sotto la spinta del suo socio di maggioranza, denunciava apertamente l’operato degli italiani. I parlamentari della coalizione guidata dal presidente Luiz Inacio Lula chiedevano in aula l’apertura di inchieste per mettere sotto la lente gli acquisti fatti negli anni precedenti da Telecom Italia e portare a galla «responsabilità di persone, imprenditori e autorità di governo, così come dei gruppi industriali coinvolti, degli altri enti e degli organismi pubblici». Non bastasse tutto questo, Brasil Telecom e Telecom Italia erano entrate in conflitto anche per la concessione delle licenze di telefonia mobile. Curiosamente (si fa per dire), gli unici in Italia ad essere al corrente di tutto ciò erano i lettori di Libero.
Agli inizi di ottobre, un incontro riservato con Luis Octavio da Motta Veiga, presidente del consiglio d’amministrazione di Brasil Telecom ed ex numero uno della Consob brasiliana, mi confermava la difficilissima situazione che Telecom Italia stava incontrando in Brasile. Fu proprio durante quella riunione in un albergo romano, alla quale partecipò anche Giacalone, che la sensazione di essere spiato diventò fortissima.
Guarda caso, proprio in quei giorni, secondo quando scoperto dagli uomini della polizia postale, entrano in azione gli hacker del Tiger Team. Anche se il nome è da supereroi giapponesi sfigati, si tratta di gente di primissimo livello. I magistrati milanesi che indagano sulla vicenda scrivono che della squadra fanno parte «persone con profili professionali elevatissimi», sebbene - particolare che certo non tranquillizza - in qualche caso «gravate da qualche denuncia o precedente penale». Rocco Lucia, il leader della squadra dei ficcanaso, «doveva rispondere del proprio operato ad Andrea Pompili», coordinatore del team. «Questi dipendeva da Fabio Ghioni», capo della Information Security di Telecom, «il quale a sua volta aveva come referente Giuliano Tavaroli», capo della sicurezza. Gente della Telecom, che lavorava in una sede romana di Telecom usando il meglio della tecnologia Telecom. Ghioni e Lucia sono stati arrestati il 18 gennaio per l’intrusione del 4 novembre 2004 nei computer del Corriere della sera, mentre a Tavaroli è stata notificata in carcere l’ennesima ordinanza di arresto. Aprendo la cassaforte dell’ufficio di Pompili, sono saltati fuori quattro cd-rom, uno dei quali contenente le mail, i documenti e le schermate copiate illegalmente dal computer del sottoscritto.
Per dirla con un vecchio slogan: niente resterà impunito. Pagherete caro, pagherete tutto. L’appuntamento, con gli spioni informatici e i loro mandanti, è in tribunale.
© Libero. Pubblicato il 30 gennaio 2007.
Di tutte le sensazioni che può provare un individuo, poche sono più fastidiose dello scoprire che qualcuno molto grosso e molto potente usa i soldi che gli versi ogni bimestre nella bolletta telefonica, con l’aggiunta di qualche milione di euro, per frugare tra i tuoi documenti e nella tua corrispondenza, allo scopo di impedirti di fare il tuo lavoro e trovare materiale utile per ricattarti. Il sottoscritto il dubbio lo aveva da tempo, e quando è saltato fuori che gli sgherri di Telecom Italia avevano allestito una struttura degna della Spectre per monitorare la vita e le attività di Davide Giacalone, il dubbio era diventato quasi certezza. La conferma definitiva che ha tolto quel «quasi» è arrivata domenica mattina, leggendo l’articolo del bravo Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera. Dall’ottobre 2003 al marzo 2004, come risulta da una relazione della polizia postale, il computer di chi scrive è stato frugato con attenzione, giorno per giorno, dagli hacker al soldo di Telecom. I quali hanno copiato sui loro hard disk tutta la posta elettronica che entrava e usciva dalla mia casella personale, esplorato il contenuto dei miei documenti e memorizzato alcune schermate del mio monitor.
Provo a spiegarmi meglio. Durante quei sei mesi, i signori in questione sono entrati in possesso di ogni dettaglio della mia vita professionale e personale. Sapevano a quali articoli stessi lavorando e cosa scrivevo, con chi mi scambiavo le mail, quali erano i movimenti del mio conto in banca e quale fosse la password per accedervi via Web. Erano al corrente degli acquisti fatti con la mia carta di credito (l’estratto conto mi arriva via mail, come a milioni di italiani). Per arrivare a occuparsi del sottoscritto, devono avere probabilmente seguito i miei spostamenti, sicuramente intercettato le mie telefonate (cosa per loro mille volte più semplice del rovistare nel mio computer). Avessi acquistato su Internet un completo in pelle genere sadomaso, modello Pulp Fiction, lo avrebbero saputo, avrebbero preso l’appunto e aggiunto così un dettaglio interessante al dossier intestato al sottoscritto, per far vedere a chi pagava il loro lavoro che certi incarichi li prendono sul serio. Avessi acquistato on line farmaci dagli Stati Uniti, come fanno molti italiani, se ne sarebbero accorti, e forse avrebbero chiesto a qualche medico una diagnosi su misura per il sottoscritto, tanto per capire se soffrissi o meno di una malattia grave. Avessi avuto un’amante, lo avrebbero saputo, e magari avrebbero trovato il modo di farmi sapere che loro sapevano: fai il bravo, smettila di mettere il naso in faccende che non ti riguardano, e resta tutto tra di noi. Se l’amante fosse stato un uomo, meglio ancora. Può far sorridere, ma è proprio immondizia del genere quella cui erano interessati i solerti spioni pagati con i soldi delle nostre telefonate.
Perché tanto interesse negli affari privati del sottoscritto? Semplicemente perché mi era venuta voglia di vedere chiaro in quel gran casino che Telecom Italia aveva sollevato in Sud America. Il fondo d’investimento Opportunity, socio di maggioranza di Brasil Telecom, sosteneva che il prezzo (800 milioni di dollari) pagato nel luglio del 2000 dalla società per l’acquisizione della Crt, Companhia Riograndense Telecomunicacoes, era stato spinto all’insù, per ragioni tutte da chiarire, da Telecom Italia, all’epoca sotto la gestione di Roberto Colaninno, che di Brasil Telecom era il socio di minoranza. La merchant bank Interamericana, che nell’operazione aveva svolto il ruolo di advisor per conto di Brasil Telecom, in un documento aveva definito una «grande montatura» l’intera trattativa sul prezzo dell’operazione, indicando il giusto valore della Crt, che era stata ceduta dagli spagnoli di Telefónica, in una cifra che «difficilmente avrebbe superato i 450 milioni di dollari».
Come chiunque può intuire, è molto strano che un azionista insista perché una società nella quale ha investito i suoi soldi paghi 350 milioni più del dovuto. Una mossa simile si sarebbe potuta spiegare solo con la volontà di dar vita a un giro di soldi dai contorni poco chiari. Per un giornalista, quindi, cercare di capire cosa stesse succedendo, e scoprire se le accuse di Opportunity fossero fondate, era di fatto un obbligo.
Seguivo la vicenda da qualche anno, e proprio verso la metà del settembre 2003 sembrava si dovesse essere a un punto di svolta. Brasil Telecom, sotto la spinta del suo socio di maggioranza, denunciava apertamente l’operato degli italiani. I parlamentari della coalizione guidata dal presidente Luiz Inacio Lula chiedevano in aula l’apertura di inchieste per mettere sotto la lente gli acquisti fatti negli anni precedenti da Telecom Italia e portare a galla «responsabilità di persone, imprenditori e autorità di governo, così come dei gruppi industriali coinvolti, degli altri enti e degli organismi pubblici». Non bastasse tutto questo, Brasil Telecom e Telecom Italia erano entrate in conflitto anche per la concessione delle licenze di telefonia mobile. Curiosamente (si fa per dire), gli unici in Italia ad essere al corrente di tutto ciò erano i lettori di Libero.
Agli inizi di ottobre, un incontro riservato con Luis Octavio da Motta Veiga, presidente del consiglio d’amministrazione di Brasil Telecom ed ex numero uno della Consob brasiliana, mi confermava la difficilissima situazione che Telecom Italia stava incontrando in Brasile. Fu proprio durante quella riunione in un albergo romano, alla quale partecipò anche Giacalone, che la sensazione di essere spiato diventò fortissima.
Guarda caso, proprio in quei giorni, secondo quando scoperto dagli uomini della polizia postale, entrano in azione gli hacker del Tiger Team. Anche se il nome è da supereroi giapponesi sfigati, si tratta di gente di primissimo livello. I magistrati milanesi che indagano sulla vicenda scrivono che della squadra fanno parte «persone con profili professionali elevatissimi», sebbene - particolare che certo non tranquillizza - in qualche caso «gravate da qualche denuncia o precedente penale». Rocco Lucia, il leader della squadra dei ficcanaso, «doveva rispondere del proprio operato ad Andrea Pompili», coordinatore del team. «Questi dipendeva da Fabio Ghioni», capo della Information Security di Telecom, «il quale a sua volta aveva come referente Giuliano Tavaroli», capo della sicurezza. Gente della Telecom, che lavorava in una sede romana di Telecom usando il meglio della tecnologia Telecom. Ghioni e Lucia sono stati arrestati il 18 gennaio per l’intrusione del 4 novembre 2004 nei computer del Corriere della sera, mentre a Tavaroli è stata notificata in carcere l’ennesima ordinanza di arresto. Aprendo la cassaforte dell’ufficio di Pompili, sono saltati fuori quattro cd-rom, uno dei quali contenente le mail, i documenti e le schermate copiate illegalmente dal computer del sottoscritto.
Per dirla con un vecchio slogan: niente resterà impunito. Pagherete caro, pagherete tutto. L’appuntamento, con gli spioni informatici e i loro mandanti, è in tribunale.
© Libero. Pubblicato il 30 gennaio 2007.