Primi ragionamenti sul dopo-Prodi: Lamberto Dini ci crede

di Fausto Carioti

Un ragazzino di 75 anni. «Un puttino», come si dice nella sua Firenze. Lamberto Dini, classe 1931, ha capito che può tornare ad avere un ruolo da protagonista, e si sente alla sua terza giovinezza. La prima risale a 60 anni fa, e a quanto si racconta non è stata delle più spensierate: più libri che divertimenti per l’ambizioso figliolo del fruttivendolo fiorentino, che a 25 anni riuscì a vincere la borsa di studio della Banca d’Italia con cui potè perfezionare gli studi in America. Venti anni dopo, a Washington, Dini diventerà uno dei direttori esecutivi del Fondo monetario internazionale, prima di tornare in Italia come direttore generale della banca centrale. La seconda giovinezza, inaspettata, arrivò nel 1995 assieme alla poltrona di presidente del Consiglio. “Lambertow”, come ormai veniva chiamato, vistosi sbarrare le porte del governatorato di via Nazionale, era diventato ministro del Tesoro del governo Berlusconi. Finito questo, accettò la profferta di Oscar Luigi Scalfaro: guidare il governo tecnico dello scellerato “ribaltone”, facendo diventare maggioranza quei partiti che gli elettori avevano pensato bene di spedire all’opposizione. «Il mio governo durerà il tempo necessario per condurre a termine un programma fatto di quattro punti: manovra economica, riforma delle pensioni, par condicio e riforma elettorale regionale», spiegò Dini alle Camere. Invece si incollò alla poltrona, e se ne tornò a casa solo perché Fausto Bertinotti decise di dargli il benservito. E comunque, prima di lasciare palazzo Chigi, raggiunse con Prodi l’alleanza che, di lì a poco, lo avrebbe fatto diventare ministro degli Esteri nel governo dell’Ulivo. Adesso - e saremmo al miracolo - per il gerovitalizzato Lamberto sembra profilarsi una nuova occasione.

Più si fa forte l’odore di decomposizione che si leva dall’esecutivo, più nel centrosinistra si infittiscono i ragionamenti su come evitare di farsi trascinare a fondo assieme a Prodi. Su Liberazione, ieri, la senatrice rifondarola Rina Gagliardi ha scritto che «l’idea di liberarsi di Romano Prodi è una “tentazione” che si affaccia all’interno delle componenti moderate della maggioranza». Cioè nella Margherita e nei Ds, con l’esclusione del correntone. Ma quella della Gagliardi è la versione edulcorata. La verità è che a sinistra si parla già di dopo-Prodi, e i nomi che circolano sono due. Il primo è quello di Franco Marini, attuale presidente del Senato, che potrebbe essere chiamato col pretesto di creare un governo che si impegni a far cambiare la legge elettorale prima di tornare alle urne. Ne resterebbero fuori di sicuro Rifondazione e la Lega, e probabilmente anche Comunisti italiani, Verdi e Alleanza nazionale. Il secondo nome che circola con insistenza, per la felicità del diretto interessato, è proprio quello di Dini. Il cui incarico verrebbe giustificato dinanzi agli elettori con la necessità di raddrizzare i conti pubblici e varare provvedimenti capaci di restituire un po’ di competitività alle imprese.

In questi giorni Lamberto ostenta la solita aria impassibile, appresa in tanti anni di Banca d’Italia e affinata osservando il suo mentore Giulio Andreotti. Fa il presidente della commissione Esteri, incarico che il centrosinistra gli ha assegnato un po’ come riconoscimento di fine carriera, un po’ perché il suo è uno dei pochi volti dell’Unione che non spaventa gli alleati americani (al cui parere, per chi non lo sapesse, i ds tengono moltissimo). Ma il lavoro è poco e di basso profilo, perché a palazzo Madama si tira avanti a scartamento ridotto. Vista la sostanziale parità tra i due schieramenti, Prodi e Marini hanno tutto l’interesse a lasciare disoccupata la camera alta, in modo da evitare ulteriori rogne al governo e alla maggioranza, i quali hanno già il loro bel daffare con una Finanziaria indigeribile per il ceto medio, le lamentele del Quirinale, sondaggi sempre più drammatici e il declassamento del rating italiano da parte delle agenzie internazionali. Di certo, lì dove lo hanno messo, Dini si annoia.

Il marito di Donatella Zingone - la quale tra il Nicaragua e la provincia bergamasca gestisce con alterne fortune il patrimonio da capogiro ereditato dal suo precedente consorte - si è reso così protagonista di un lavoro infaticabile dietro le quinte. Un impegno che negli ultimi giorni, vista l’accelerazione del disfacimento del governo Prodi, è diventato frenetico. A Dini il centrosinistra sta stretto, perché ha capito che non ha più nulla da ricavarci. E il governo Prodi gli sta tremendamente sulle scatole. Per una lunga serie di motivi. Primo: lui non ne fa parte, e scusate se è poco. Secondo: la poltrona più importante, quella di superministro dell’Economia, è stata affidata a Tommaso Padoa Schioppa, suo rivale storico sin dai tempi di Bankitalia. Terzo: viceministro per l’Economia è il diessino Vincenzo Visco, un altro nella lista nera di Dini. I due si detestano da quando Visco era un semplice deputato della commissione Finanze che si occupava delle vicende di via Nazionale. Quarto motivo: il padre spirituale di questo governo è Carlo Azeglio Ciampi, che per anni si è rifiutato di lasciare a Dini la poltrona di governatore della Banca d’Italia, come sarebbe stato nell’ordine naturale delle cose, giudicando tale successione un rischio letale per l’istituto di emissione. Per di più, lo ha fatto senza avere il buon gusto di tenere per sé questo giudizio. Alla fine, il laico Ciampi preferì lasciare il suo ufficio al cattolico Antonio Fazio, piuttosto che a lui. Nel caso qualcuno se lo stia chiedendo, Lamberto non ha gradito.

Essendo uomo previdente, Dini ha iniziato a ricucire i suoi rapporti con Berlusconi e la Cdl già prima delle elezioni. Con il Cavaliere si è incontrato anche negli ultimi giorni, e non ci vuole molto a mettere in relazione questo rendez-vous con il momentaccio che sta attraversando Prodi. Se Dini vuole tornare sotto i riflettori, l’appoggio del leader di Forza Italia gli è indispensabile. Berlusconi nicchia. Non si fida, e non è il solo. A palazzo Grazioli non hanno scordato quello che successe nel ’95. Scalfaro chiese a Berlusconi di indicare chi, secondo lui, avrebbe dovuto essere il presidente del consiglio incaricato. Il Cavaliere provò a fare il nome di Gianni Letta, ma Scalfaro lo stoppò subito: troppo vicino a Berlusconi. Titubante, il leader del Polo convocò Dini e, prima di portare il suo nome al Quirinale, gli chiese tre promesse: la nomina di Letta a sottosegretario alla presidenza del Consiglio, la presenza di alcuni ministri di Forza Italia, la garanzia che il nuovo esecutivo sarebbe stato «in assoluta continuità» con il governo Berlusconi. «Sono io la tua garanzia», gli rispose Dini, mostrando un’abilità da piazzista non inferiore a quella del suo interlocutore. Quando Berlusconi vide la lista preliminare dei ministri, e si accorse che il nome di Letta non era presente nemmeno tra i sottosegretari di palazzo Chigi, da dove lo aveva fatto togliere il solito Scalfaro, capì che come garanzia la parola di Dini non valeva molto. Il resto è storia.

Certo, sono passati dieci anni. E stavolta un’eventuale “operazione Dini” verrebbe realizzata passando sul cadavere politico di Prodi. Insomma, ci si può pensare, anche se nella Cdl sono tanti a spingere sul Cavaliere affinché lasci Prodi logorarsi al governo il più a lungo possibile. Nel dubbio, Lamberto ci spera. E ci prova. Tanto, non ha nulla da perdere. Pur essendo fiorentino e di letture raffinate, condivide l’insegnamento di Franco Califano, schietto filosofo contemporaneo della capitale: «Nella palude si salva solo il coccodrillo».

© Libero. Pubblicato il 21 ottobre 2006.

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