Il grande piano del fine stratega D'Alema
di Fausto Carioti
Ricordate il Massimo D’Alema che in Senato guardava gli avversari negli occhi e rivendicava strafottente la «discontinuità» della “sua” politica estera rispetto al governo Berlusconi? Avete presente il Romano Prodi che, appena due giorni fa, annunciava che in Senato «c’è l’autosufficienza sotto tutti gli aspetti, anche senza senatori a vita»? Scherzavano. E per capirlo bastava leggere ieri l’Unità, che in prima pagina svelava la geniale «mossa di D’Alema». In realtà, una resa su tutti i fronti, anche se i compagni, ormai ai saldi di fine stagione, provano a spacciarla come un capolavoro di finezza politica.
La «mossa» raccontata al quotidiano di Antonio Padellaro dagli uomini di D’Alema è composta da tre fasi. Prima fase: riconoscere pubblicamente che la missione in Afghanistan è in «oggettiva continuità» con la politica estera degli ultimi anni. L’avesse detto in Senato il 21 febbraio, il ministro degli Esteri si sarebbe risparmiato un bel po’ di rogne. Contraddirsi così, per uno come lui deve essere dura. Ma per tirare a campare si fa questo e altro.
Seconda fase: appello a mani giunte al centrodestra affinché voti il rifinanziamento della missione, in modo da tappare le falle lasciate aperte dai senatori pacifisti “dissenzienti”. «In qualsiasi Paese democratico ogni forza politica responsabile non avrebbe alcun dubbio a sostenere le missioni all’estero», avvertono i dalemiani. Più che un richiamo al senso di responsabilità della Cdl, è una chiara ammissione che i loro alleati non sono «responsabili», a differenza dei rivali di centrodestra. Commovente il tentativo dell’Unità di girare attorno alla questione per venderla nel modo meno imbarazzante possibile: «L’autosufficienza della maggioranza non deve essere l’innalzamento di “muri” sempre e comunque. E sulle missioni all’estero è possibile realizzare ponti di dialogo». In italiano vuol dire che, pur di sopravvivere, sono pronti ad accattarsi i voti decisivi di Berlusconi. Senza se e senza ma.
Terza fase: niente voto di fiducia. Per D’Alema, spiegano i suoi, mettere la fiducia sul decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero «sarebbe un atto di ostilità verso l’opposizione». Un lusso che un esecutivo al quale i voti del centrodestra servono come l’ossigeno non si può permettere. Anche perché le votazioni di fiducia non si sa mai come finiscono: metti che due senatori a vita sono a casa con il raffreddore, e tempo due ore si ritrovano tutti disoccupati. Non male, per un governo che si vanta di essere «autosufficiente sotto tutti gli aspetti».
Intanto da palazzo Grazioli, quartier generale del Cavaliere, assicurano che «se il rifinanziamento della missione in Afghanistan dovesse passare solo grazie ai voti dell’opposizione e dei senatori a vita, il governo dovrà essere considerato in crisi e noi dovremo chiedere le dimissioni di Prodi». Vedremo. Ma è chiaro che Prodi e D’Alema hanno già messo in conto una simile eventualità, e intendono tirare dritti come se niente fosse.
© Libero. Pubblicato il 3 marzo 2007.
Ricordate il Massimo D’Alema che in Senato guardava gli avversari negli occhi e rivendicava strafottente la «discontinuità» della “sua” politica estera rispetto al governo Berlusconi? Avete presente il Romano Prodi che, appena due giorni fa, annunciava che in Senato «c’è l’autosufficienza sotto tutti gli aspetti, anche senza senatori a vita»? Scherzavano. E per capirlo bastava leggere ieri l’Unità, che in prima pagina svelava la geniale «mossa di D’Alema». In realtà, una resa su tutti i fronti, anche se i compagni, ormai ai saldi di fine stagione, provano a spacciarla come un capolavoro di finezza politica.
La «mossa» raccontata al quotidiano di Antonio Padellaro dagli uomini di D’Alema è composta da tre fasi. Prima fase: riconoscere pubblicamente che la missione in Afghanistan è in «oggettiva continuità» con la politica estera degli ultimi anni. L’avesse detto in Senato il 21 febbraio, il ministro degli Esteri si sarebbe risparmiato un bel po’ di rogne. Contraddirsi così, per uno come lui deve essere dura. Ma per tirare a campare si fa questo e altro.
Seconda fase: appello a mani giunte al centrodestra affinché voti il rifinanziamento della missione, in modo da tappare le falle lasciate aperte dai senatori pacifisti “dissenzienti”. «In qualsiasi Paese democratico ogni forza politica responsabile non avrebbe alcun dubbio a sostenere le missioni all’estero», avvertono i dalemiani. Più che un richiamo al senso di responsabilità della Cdl, è una chiara ammissione che i loro alleati non sono «responsabili», a differenza dei rivali di centrodestra. Commovente il tentativo dell’Unità di girare attorno alla questione per venderla nel modo meno imbarazzante possibile: «L’autosufficienza della maggioranza non deve essere l’innalzamento di “muri” sempre e comunque. E sulle missioni all’estero è possibile realizzare ponti di dialogo». In italiano vuol dire che, pur di sopravvivere, sono pronti ad accattarsi i voti decisivi di Berlusconi. Senza se e senza ma.
Terza fase: niente voto di fiducia. Per D’Alema, spiegano i suoi, mettere la fiducia sul decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero «sarebbe un atto di ostilità verso l’opposizione». Un lusso che un esecutivo al quale i voti del centrodestra servono come l’ossigeno non si può permettere. Anche perché le votazioni di fiducia non si sa mai come finiscono: metti che due senatori a vita sono a casa con il raffreddore, e tempo due ore si ritrovano tutti disoccupati. Non male, per un governo che si vanta di essere «autosufficiente sotto tutti gli aspetti».
Intanto da palazzo Grazioli, quartier generale del Cavaliere, assicurano che «se il rifinanziamento della missione in Afghanistan dovesse passare solo grazie ai voti dell’opposizione e dei senatori a vita, il governo dovrà essere considerato in crisi e noi dovremo chiedere le dimissioni di Prodi». Vedremo. Ma è chiaro che Prodi e D’Alema hanno già messo in conto una simile eventualità, e intendono tirare dritti come se niente fosse.
© Libero. Pubblicato il 3 marzo 2007.