"Institutions matter", seconda puntata: Douglass North

Seconda puntata della lezione che il sottoscritto ha tenuto lunedì 6 febbraio 2006 alla Scuola di Liberalismo di Roma, organizzata dalla Fondazione Einaudi. Argomento: il motivo per cui la globalizzazione stenta ad attecchire al di fuori del mondo occidentale, ed in particolare lascia ai margini gran parte dell'America Latina. La prima puntata è servita come introduzione. Questa è dedicata alle teorie dell'economista americano Douglass North, mentre la terza e ultima avrà come protagonista l'economista peruviano Hernando de Soto. Come già scritto, ho fatto di tutto per usare un linguaggio molto divulgativo. Il tutto è lungo assai.

di Fausto Carioti
Douglass North, americano, ha vinto il Nobel per l’Economia nel 1993. Il suo lavoro principale si intitola “Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia” ed è ritenuto uno dei testi più influenti degli ultimi anni. Riprendendo il filone aperto da un altro Nobel per l’economia, Ronald Coase, North rivoluziona i canoni dell’economia classica, introducendo una nuova variabile, fondamentale, nella equazione degli scambi: i costi della transazione. North ci dice che lo scambio non avviene mai a costo zero. Al contrario: ogni transazione ha un costo, legato all’incertezza: incertezza su cosa sto comprando, incertezza sul fatto che chi me lo sta vendendo ne sia realmente il proprietario, incertezza che la mia controparte rispetterà tutti gli impegni che ha preso con me. E questo costo in una società complessa come quella capitalistica, basata sullo scambio impersonale, cioè tra due soggetti che non si conoscono, è più elevato che in passato, quando le forme di scambio erano più semplici ed avvenivano all’interno delle stesse comunità.
«Fare rispettare i contratti costa: in effetti è in genere costoso anche solo scoprire se un contratto non è stato rispettato, più costoso è misurarne la violazione, ancora più costoso arrestare il colpevole e imporgli una pena».
Quali sono questi costi di transazione? Sono i costi «dell’attività bancaria, assicurativa, finanziaria, di intermediazione all’ingrosso e al minuto; o, in termini di professioni, dei costi afferenti al lavoro dei giuristi, dei contabili ecc».
Quanto sono alti questi costi di transazione? Moltissimo, più di quanto intuitivamente si possa pensare. Lo stesso North nel 1986 scoprì che nell’economia statunitense il 45% del reddito nazionale veniva speso non come ragione di scambio, ma per rendere possibili e più sicure le transazioni. Un secolo prima, queste stesse attività rappresentavano il 25% del reddito nazionale. Questo vuol dire che i costi di transazione aumentano con il progredire del libero mercato.
Questi costi di transazione sono un freno alla divisione e alla specializzazione del lavoro, quindi – come visto – alla creazione di nuova ricchezza. In sostanza, dividere ulteriormente il lavoro vuol dire creare nuove controparti con cui stringere nuovi accordi, e per ognuno di questi accordi esiste il rischio che la controparte non rispetti gli impegni presi. Come dice North,
«la mancata specializzazione è una forma di assicurazione contro gli alti costi e le incertezze della transazione».
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni: esse hanno il compito di ridurre l’incertezza degli scambi, cioè di abbassarne i costi. Le istituzioni saranno tanto più efficienti, cioè tanto più efficaci nel produrre ricchezza, quanto più abbasseranno i costi di transazione e consentiranno la divisione del lavoro.
Cosa intende North per istituzioni? Intende tutti i vincoli formali (come le leggi) o informali (che, dice, sono «parte di un’eredità che si chiama cultura») concepiti dagli uomini per regolare l’interazione sociale. North, quindi, non inserisce le organizzazioni tra le istituzioni. Questo è un punto chiave del suo discorso. Le organizzazioni (come i partiti, il parlamento, un consiglio comunale, un’agenzia pubblica, un’impresa, i sindacati, la chiesa, le associazioni sportive, le scuole…) sono obbligate a muoversi all’interno del recinto fissato dalle istituzioni. Ma le stesse organizzazioni contribuiscono a cambiare le istituzioni. Insomma, c’è un “effetto feedback” tra le istituzioni e le organizzazioni. Tra poco vedremo quanto questo “effetto feedback” sia importante.
Le istituzioni, per North, si dividono in tre categorie, a seconda del tipo di scambio che riescono a garantire.
Il tipo di scambio più elementare è lo scambio personalizzato, tipico del commercio locale. Tutti conoscono tutti, manca una terza parte che faccia da garante degli scambi, perché non se ne sente la necessità. Il rischio è basso, e quindi sono bassi i costi di transazione, ma in compenso sono elevati i costi di trasformazione, perché la divisione e la specializzazione del lavoro avviene a livello elementare. Le economie che hanno un simile scambio sono piccole e hanno bassissima capacità di crescita.
Il secondo tipo di scambio, più evoluto, è lo scambio impersonale, ma ancora privo di una terza parte che garantisca l’applicazione dei contratti. In questo caso si cerca di tutelarsi da possibili inadempienze mediante legami di parentela, cauzioni o altri mezzi di tipo più o meno arrangiato.
Il terzo tipo di scambio, quello più evoluto, che garantisce la massima divisione e specializzazione del lavoro, è lo scambio impersonale garantito da un terzo che assicura il rispetto dei contratti.
La differenza tra i Paesi avanzati e i Paesi del terzo mondo è proprio nel grado di evoluzione degli scambi che le istituzioni permettono. Nei Paesi avanzati, le istituzioni riescono a garantire più o meno bene e a costi relativamente convenienti lo svolgimento dello scambio impersonale, e quindi la divisione e la specializzazione del lavoro. Nei Paesi del terzo mondo le istituzioni riescono a garantire solo forme di scambio più elementari, che consentono una divisione e specializzazione del lavoro elementare, e quindi la produzione di minore ricchezza.
«Nei Paesi sviluppati un sistema giudiziario efficace è composto da leggi ben fatte e da un insieme di operatori, quali avvocati, arbitri e mediatori; si ha inoltre fiducia che i risultati saranno determinati dal merito dei problemi e non da interessi privati».
«Invece, nei sistemi economici del terzo mondo, la garanzia di applicazione dei contratti è un fenomeno incerto non solo a causa dell’ambiguità del diritto, ma anche dell’incertezza relativa al comportamento degli agenti».
Venendo all’esempio classico, e cioè l’enorme differenza di sviluppo tra Stati Uniti e America Latina, North lo spiega così:
«la storia economica degli Stati Uniti è stata caratterizzata da un sistema di politica federale, da pesi e contrappesi istituzionali e da un sistema basilare di diritti di proprietà che hanno favorito nel lungo periodo l’attività di scambio necessaria alla creazione di un mercato di capitali e in generale alla crescita economica»,
mentre
«la storia economica dell’America Latina ha continuato sulla strada della tradizione centralistica e burocratica ereditata dall’esperienza spagnola e portoghese. Così John Coatsworth descrisse l’ambiente istituzionale messicano nel 1800: "La natura oppressiva, inquisitiva e arbitraria dell’ambiente istituzionale obbligò ogni impresa, urbana o rurale, a operare secondo una logica fortemente politicizzata, usando relazioni di parentela, influenza politica e prestigio familiare per ottenere accessi privilegiati al credito agevolato, per reclutare illegalmente forza lavoro, per accumulare debiti o fare applicare i contratti, per evadere le tasse o eludere il giudizio dei tribunali e per difendere o affermare titoli di proprietà sulle terre"».
Nei Paesi di cultura spagnola, in sostanza, le istituzioni danno vita a forme di scambio poco evolute ed efficienti, nelle quali «le relazioni personali sono ancora alla base di gran parte degli scambi in politica e in economia».
Discorso simile per il Nord Africa e il Medio Oriente, dove la forma di scambio più diffusa è quella tipica del suq, fatta di scambi impersonali ad alto rischio tra i clienti e piccolissimi imprenditori. Mancano norme capaci di garantire l’applicazione della legge e dei contratti. In assenza di queste norme, gli incentivi a modificare il sistema, a farlo evolvere verso forme di scambio capaci di produrre più ricchezza, sono inesistenti.
Ora, secondo un pensiero liberale che potrei definire “ingenuo”, che risente molto dell’impostazione darwinista, questo non dovrebbe accadere. Le istituzioni dovrebbero evolvere verso forme che consentano gli scambi ai costi più bassi possibile. Dovrebbero diventare sempre più efficienti, perché nel lungo periodo gli individui dovrebbero “scaricare” le istituzioni che frenano la produzione di ricchezza per sostituirle con istituzioni capaci di soddisfare meglio i loro bisogni. Cioè con istituzioni capaci di stimolare il libero scambio, il capitalismo, invece di frenarlo. Questo è avvenuto solo nei Paesi più ricchi del mondo. In quelli del terzo mondo, no.
La spiegazione di North è che ciò accade perché le istituzioni e le organizzazioni si influenzano a vicenda. Se è vero che le istituzioni efficienti nel lungo periodo dovrebbero rimpiazzare quelle inefficienti, è vero anche che pure le organizzazioni tendono a diventare più efficienti, e la loro efficienza si misura da come riescono a massimizzare la quota di rendite che entra in loro possesso. Una fetta più grande la si può avere in due modi. O contribuendo a produrre una torta più grande, ed è ciò che accade nei Paesi avanzati, nei quale l’interazione tra istituzioni e organizzazioni è virtuosa e le istituzioni sono focalizzate all’aumento della produttività. Oppure cercando di mettere le mani su una quota maggiore della stessa torta. Ed è quanto fanno le organizzazioni nei Paesi del terzo mondo, dove riescono a vivere mediante rendite parassitarie ottenute grazie a istituzioni che, invece di aumentare la produttività, si preoccupano quasi esclusivamente delle redistribuzione. Insomma, istituzioni e organizzazioni possono spingere in due direzioni diverse, e in certi contesti la ricerca di una maggiore efficienza da parte delle organizzazioni si rivela un freno alla crescita dell’efficienza delle istituzioni.
Le istituzioni che non funzionano non si cambiano facilmente. Sia perché le organizzazioni che ne traggono vantaggio hanno tutto l’interesse a difendere le istituzioni inefficienti, sia perché le istituzioni sono (anche) un prodotto della nostra cultura. E una cultura non è una cosa che si possa cambiare dall’oggi al domani.
Seconda puntata di tre. Continua.

"Institutions matter": i liberisti e la globalizzazione (prima parte)

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