"Institutions matter": i liberisti e la globalizzazione

Inizio a pubblicare la lezione che il sottoscritto ha tenuto lunedì 6 febbraio 2006 alla Scuola di Liberalismo di Roma, organizzata dalla Fondazione Einaudi. Argomento: il motivo per cui la globalizzazione stenta ad attecchire al di fuori del mondo occidentale, ed in particolare lascia ai margini gran parte dell'America Latina. Lezione che qui pubblicherò in tre puntate. Quella che segue è l'introduzione. La seconda puntata userà come "lente" per comprendere l'argomento le teorie dell'economista americano Douglass North, mentre la terza sarà centrata sugli studi e la "folle" proposta dell'economista peruviano Hernando de Soto. Ho fatto ogni sforzo possibile per usare un linguaggio estremamente divulgativo, essendo la lezione rivolta a un pubblico di non specialisti. Spero di esserci riuscito. Attenzione: il tutto è molto, ma molto lungo.

di Fausto Carioti
La lezione di stasera ha come argomento una domanda. Posto che il libero mercato è il mezzo migliore per produrre ricchezza, e posto che è nell’interesse degli individui e delle nazioni vivere nel modo migliore possibile da un punto di vista materiale, perché il libero mercato resta una caratteristica quasi esclusivamente occidentale? Perché il capitalismo è così poco diffuso al di fuori del nostro emisfero? Ho detto “libero mercato”, ma avrei potuto dire “globalizzazione”, cioè l’argomento sulla bocca di tutti da tre lustri a questa parte. Li uso come sinonimi perché la globalizzazione altro non è che l’unico volto oggi possibile del capitalismo.

L'importanza della divisione del lavoro
Il capitalismo è un sistema di produzione dei beni basato su molti ingredienti, i principali dei quali sono la proprietà privata; la libera impresa, ovvero la libertà di cercare il profitto; la divisione e la specializzazione del lavoro; la libertà di scambio. Senza divisione e specializzazione del lavoro non vi è capitalismo. Questo concetto è espresso nel libro stesso che per primo ha teorizzato in modo compiuto i vantaggi del libero scambio, ovvero “La ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith. Vi ricordo l’esempio di Adam Smith, perché stasera ci tornerà utile.
«Se tutte le parti di uno spillo dovessero essere fatte da un solo uomo, se la stessa persona dovesse estrarre il materiale dalla miniera, separarlo dalle scorie, forgiarlo, dividerlo in piccole verghe, allungare queste verghe in fili e, alla fine, trasformare questi fili metallici in spilli, un uomo probabilmente, con tutta la sua laboriosità, potrebbe a stento fare uno spillo in un anno. Il prezzo di uno spillo, quindi, dovrebbe in questo caso essere almeno uguale al prezzo del mantenimento di un uomo per la durata di un anno».
Per fortuna le cose non funzionano così, altrimenti saremmo tutti poveri.
«Solo la divisione del lavoro, per la quale ciascun individuo si limita ad esercitare un’attività particolare», dice ancora Smith, «può fornirci una spiegazione di questa maggiore ricchezza che si produce nelle città evolute e che, nonostante l’ineguaglianza nella proprietà, si estende ai più umili componenti della comunità».
La globalizzazione altro non è che la diffusione di questo processo su scala ultima, cioè planetaria. Il tratto caratteristico di quella che oggi si chiama globalizzazione non è solo la libertà di circolazione delle merci. Questa c’è sempre stata, le merci hanno sempre viaggiato da una parte all’altra del pianeta, anche se – ovviamente – sino a non molto tempo fa solo pochi potevano avvantaggiarsene. Il tratto caratteristico della globalizzazione è piuttosto, a mio avviso, la divisione della produzione su scala globale: ogni fase della lavorazione di un prodotto può essere spostata con estrema rapidità e a costi relativamente bassi laddove più conviene all’imprenditore; ogni fattore di produzione – includendo tra essi non solo il lavoro, ma persino i vincoli legislativi (che di fatto sono un “fattore” della produzione) e gli strumenti finanziari – proviene dai Paesi in cui più è conveniente reperirle.
Particolare importante: più conveniente non vuole dire necessariamente a costo più basso. La certezza del diritto e la stabilità politica sono elementi importanti: nessun imprenditore vuole vedersi portare via l’investimento da un giorno all’altro da una legge che nazionalizza tutti i capitali stranieri. Anche la qualità della manodopera, intesa come produttività e (per le lavorazioni a più alto valore aggiunto) come livello d’istruzione e di cultura del personale, ha un ruolo decisivo nella scelta. La globalizzazione è un esito naturale del capitalismo anche perché i capitalisti cercano le economie di scala per abbattere i loro costi per unità di prodotto, e la scala più grande è – ovviamente – quella planetaria.

Produzione e distribuzione della ricchezza
Faccio notare che se ho parlato solo di produzione della ricchezza, e non della distribuzione della ricchezza, non è per motivi “politici”, ma per motivi logici: la ricchezza, prima di essere distribuita, deve essere prodotta. Se non è prodotta, non può essere distribuita. Se vogliamo distribuirne di più tra tutti, dobbiamo produrne di più. E’ il motivo per cui i nemici del capitalismo sono i grandi sconfitti della storia: perché si preoccupano solo di distribuire la ricchezza secondo criteri di uguaglianza e di solidarietà - in teoria, poi in pratica, come insegna la storia, le rendite finiscono nelle mani dei burocrati di Stato. Della produzione della ricchezza se ne fregano. Se ne fregano al punto che le loro ricette finiscono fatalmente per impedire la creazione di ricchezza. Il problema della creazione di ricchezza, con la loro ricetta, è insolubile: ritengono il profitto il problema, un affronto alla miseria, un esproprio del lavoro del "proletario", e fanno di tutto per abbatterlo. E non capiscono che senza profitto non c’è incentivo all’accumulazione di capitale, cioè non c’è crescita della ricchezza globale. Quindi non c’è alcuna torta da dividersi. Sono convinti che il libero mercato sia un gioco a somma zero, nel quale se uno diventa ricco è perché è riuscito a togliere soldi a qualcun altro: i capitalisti si appropriano del lavoro prodotto dai proletari, le nazioni ricche si appropriano delle ricchezze di quelle povere. Invece la ricchezza si crea. Chi trasforma il silicio in un microconduttore ha creato ricchezza. E il nuovo valore creato non dipende dalla quantità di ore di lavoro incorporate nel prodotto finito, come diceva Karl Marx. Ma dall’utilità che il potenziale acquirente attribuisce al prodotto, come ci hanno insegnato i marginalisti austriaci: un prodotto obsoleto, che nessuno vuole, ha valore zero anche se sono state necessarie mille ore per produrlo. E questa utilità varia in funzione della tecnologia disponibile all’epoca. Il petrolio, che in certe aree affiora da sempre in superficie, non ha avuto alcun valore sin quando non è stato inventato il motore a scoppio.

I liberisti non difendono i capitalisti: difendono il capitalismo
Già che ci sono, sgombro anche il campo da un altro equivoco molto diffuso. Quello per cui i liberisti difendono i capitalisti. Non è vero. I liberisti difendono il capitalismo, non i capitalisti. Il liberista vuole la libera concorrenza tra capitalisti, nella convinzione che questa spinga i capitalisti a offrire beni migliori a costi sempre più convenienti. Non a caso, in un mercato in concorrenza perfetta il tasso di profitto marginale tende a zero. I capitalisti, invece, difendono – giustamente – la massimizzazione del loro profitto. Quindi tendono ad essere liberisti quando assumono il ruolo di sfidanti di un “incumbent”, cioè di un concorrente già ben posizionato sul mercato. Chiedono l’abbattimento delle barriere poste all’ingresso del mercato in cui vogliono entrare, denunciano l’esistenza di cartelli a protezione dei leader di mercato, sono contrari alle agevolazioni e ai sussidi di Stato in favore dei più forti. Ma qualora riescano a diventare loro gli “incumbent”, cioè i titolari di una posizione di monopolio o di oligopolio, la storia insegna che non si fanno problemi a chiedere, mediante azioni di lobbing spesso efficaci, che questa loro “conquista” sia difesa da leggi ad hoc; chiedono l’intervento pubblico, anche economico, con il pretesto di difendere i loro “lavoratori”; si danno da fare per creare cartelli con i concorrenti e i fornitori in modo da rendere la loro posizione quanto più possibile redditizia e inattaccabile.
Fatte queste premesse, torniamo alla domanda: come mai libero mercato e globalizzazione sono esclusiva di pochi fortunati? Perché in Sud America (con l’eccezione del Cile) gli esperimenti di adesione alla globalizzazione non hanno dato i risultati che si sono visti in Nord America? Perché in certi Paesi lo spirito del capitalismo ha attecchito e ha prodotto più ricchezza, della quale, anche se in modo molto diverso, tutti si sono avvantaggiati, e in altri Paesi no? (Incidentalmente, faccio notare che se del capitalismo siamo qui a discutere, sul comunismo non c’è proprio niente da dire: anche lasciando perdere la questione fondamentale, quella dei diritti umani e delle libertà individuali, esso ha prodotto miseria ovunque).
A questa domanda cercherò di dare una risposta con l’aiuto di due liberoscambisti nostri contemporanei, Douglass North ed Hernando de Soto. Racconterò le loro posizioni in termini molto schematici. Questa lezione vuole essere soprattutto un incentivo per chi non li conosce a comprare i loro libri e conoscerli meglio. Intanto, vi anticipo il filo comune che lega le loro posizioni: “Institutions matter”. Le istituzioni sono importanti. La sfida per i liberali del XXI secolo è proprio quella di rendere, ovunque, le istituzioni compatibili con lo sviluppo di ricchezza.

Prima puntata di tre. Continua.

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