Immigrazione: perché il governo ha sbagliato tutto
di Fausto Carioti
Di solito ce lo insegnano da bambini: prima il dovere, poi il piacere. Non tutti, però, abbiamo avuto le stesse maestre. La sinistra italiana ha scelto la strada opposta: dare diritti agli immigrati senza nulla pretendere in cambio (a parte una croce sulla scheda elettorale, ovviamente). «Io oggi ti do il diritto di voto alle amministrative e domani ti rendo cittadino italiano. Così ti sarai integrato nel tuo nuovo Paese»: questa è la filosofia alla base del provvedimento adottato martedì scorso dal governo Prodi. Era scritto anche nel programma con cui l’Unione si presentò alle elezioni: «L’acquisizione della cittadinanza è il più efficace strumento giuridico di integrazione di cui le democrazie liberali dispongano». I privilegi, insomma, sono visti dalla sinistra come il mezzo per rendere gli immigrati “integrati”, cioè inseriti nella società italiana e ligi alle leggi. Che è come dire: «Ti consegno le chiavi di casa e sarai libero di fare quello che ti pare. Così sono convinto che ti comporterai bene, non ruberai l’argenteria e lascerai il bagno pulito». Un mix letale di utopismo terzomondista e cinismo elettorale. Niente di strano che una filosofia simile, quando è stata adottata in Europa, abbia sempre fallito.
Quello che ha mostrato di funzionare, invece, è l’approccio esattamente contrario: prima mi dimostri di esserti inserito nella società e nel lavoro, di avere imparato la mia lingua, di conoscere la storia e le leggi di quello che vuoi che divenga il tuo nuovo Paese e magari di condividere due o tre principi fondamentali (tipo la parità di diritti e doveri tra uomo e donna e una certa idea di laicità dello Stato). Una volta che ti sarai integrato, ti concederò l’onore di votare e di essere cittadino di questo Paese. È il modello adottato negli Stati Uniti, che non a caso rappresentano la più clamorosa “success story” mondiale di integrazione degli immigrati. Come del resto riconoscono anche i meno faziosi a sinistra, dove Walter Veltroni sbrodola felice ogni volta che può citare l’esempio del “melting pot” d’Oltreoceano.
Dare il diritto di voto e la cittadinanza non trasforma gli immigrati in integrati. In Inghilterra, lo scorso anno la rete televisiva Channel 4 ha fatto realizzare un sondaggio per tastare il polso ai musulmani col passaporto britannico, che in tutto sono 1,6 milioni. Ne è uscito che: il 30% di questi cittadini inglesi preferirebbe vivere sotto la sharia che sotto l’ordinamento legislativo di Sua Maestà; il 28% è convinto che un giorno la Gran Bretagna diventerà uno Stato islamico; il 68% ritiene giusto condannare i cittadini inglesi che insultano l’Islam; il 9% (ovvero oltre centomila individui) ritiene accettabile il ricorso alla violenza in nome della religione.
Alla domanda: «Cosa ti consideri innanzitutto, un musulmano o un cittadino del tuo Paese?» gli islamici inglesi interpellati dal sondaggio condotto con cadenza annuale dal Pew Research Center di Washington hanno risposto in massa (l’81%) di considerarsi islamici. Il 77% è convinto che il senso di appartenenza degli immigrati alla comunità musulmana stia crescendo e l’86% pensa che questa sia una buona cosa. Il 78% degli islamici inglesi pensa che sia in atto una guerra tra islam moderato e islam fondamentalista, e un quarto di loro dice apertamente di sentirsi schierato dalla parte dei fondamentalisti. Questa non è integrazione: è un fallimento.
Non va meglio in Francia. Dove gli islamici transalpini danno risposte appena meno inquietanti di quelle fornite dai loro correligionari inglesi. In compenso ci sono molti di loro in prima fila nella “intifada” delle banlieues, dove spesso il grido «Allah Akbar» accompagna il lancio di pietre sulle auto dei poliziotti. In Francia ci sono 751 “Zones urbaines sensibles”, interi quartieri in cui lo Stato francese riconosce di non avere il potere di imporre la propria legge. In essi vivono 5 milioni di persone, e coincidono con le aree in cui sono concentrati gli immigrati, spesso di seconda e terza generazione e dotati di passaporto francese.
Negli Stati Uniti, agli immigrati è concesso il diritto di voto, anche alle elezioni locali, solo dopo che sono diventati cittadini americani. E avere il passaporto a stelle e strisce non è un diritto che si matura col tempo, ma un onore concesso al termine di un percorso personale. L’immigrato deve dimostrare di aver maturato la capacità di leggere, scrivere e parlare in inglese, la conoscenza della storia e della politica americane, «attaccamento ai principi della Costituzione degli Stati Uniti» e una «disposizione favorevole nei confronti degli Usa».
Bruce Bawer, giornalista e saggista americano trapiantato da qualche tempo nel Nord Europa, la differenza la racconta così: «In America la cittadinanza è vista come un grande onore. Se sei un cittadino, è naturale che tu onori la bandiera a stelle e strisce. È naturale che tu canti l’inno nazionale. La tendenza europea a considerare tutto ciò come l’equivalente di arrestare qualcuno, rinchiuderlo in uno sgabuzzino e obbligarlo a svendere la propria anima puntandogli una pistola alla tempia è terribilmente disastrosa. Negli Stati Uniti, i nuovi cittadini vanno alla cerimonia di concessione della cittadinanza indossando i loro abiti migliori. Portano con sé le loro famiglie, scattano fotografie e piangono e si abbracciano e cantano l’inno nazionale con orgoglio e felicità. Questo vuol dire costruire e mantenere solido un Paese. Quando un Paese inizia a concedere passaporti a persone che non vivono la concessione della cittadinanza in questo modo, che di fatto disprezzano il Paese e i suoi valori, quel Paese è condannato».
© Libero. Pubblicato il 27 aprile 2007.
Di solito ce lo insegnano da bambini: prima il dovere, poi il piacere. Non tutti, però, abbiamo avuto le stesse maestre. La sinistra italiana ha scelto la strada opposta: dare diritti agli immigrati senza nulla pretendere in cambio (a parte una croce sulla scheda elettorale, ovviamente). «Io oggi ti do il diritto di voto alle amministrative e domani ti rendo cittadino italiano. Così ti sarai integrato nel tuo nuovo Paese»: questa è la filosofia alla base del provvedimento adottato martedì scorso dal governo Prodi. Era scritto anche nel programma con cui l’Unione si presentò alle elezioni: «L’acquisizione della cittadinanza è il più efficace strumento giuridico di integrazione di cui le democrazie liberali dispongano». I privilegi, insomma, sono visti dalla sinistra come il mezzo per rendere gli immigrati “integrati”, cioè inseriti nella società italiana e ligi alle leggi. Che è come dire: «Ti consegno le chiavi di casa e sarai libero di fare quello che ti pare. Così sono convinto che ti comporterai bene, non ruberai l’argenteria e lascerai il bagno pulito». Un mix letale di utopismo terzomondista e cinismo elettorale. Niente di strano che una filosofia simile, quando è stata adottata in Europa, abbia sempre fallito.
Quello che ha mostrato di funzionare, invece, è l’approccio esattamente contrario: prima mi dimostri di esserti inserito nella società e nel lavoro, di avere imparato la mia lingua, di conoscere la storia e le leggi di quello che vuoi che divenga il tuo nuovo Paese e magari di condividere due o tre principi fondamentali (tipo la parità di diritti e doveri tra uomo e donna e una certa idea di laicità dello Stato). Una volta che ti sarai integrato, ti concederò l’onore di votare e di essere cittadino di questo Paese. È il modello adottato negli Stati Uniti, che non a caso rappresentano la più clamorosa “success story” mondiale di integrazione degli immigrati. Come del resto riconoscono anche i meno faziosi a sinistra, dove Walter Veltroni sbrodola felice ogni volta che può citare l’esempio del “melting pot” d’Oltreoceano.
Dare il diritto di voto e la cittadinanza non trasforma gli immigrati in integrati. In Inghilterra, lo scorso anno la rete televisiva Channel 4 ha fatto realizzare un sondaggio per tastare il polso ai musulmani col passaporto britannico, che in tutto sono 1,6 milioni. Ne è uscito che: il 30% di questi cittadini inglesi preferirebbe vivere sotto la sharia che sotto l’ordinamento legislativo di Sua Maestà; il 28% è convinto che un giorno la Gran Bretagna diventerà uno Stato islamico; il 68% ritiene giusto condannare i cittadini inglesi che insultano l’Islam; il 9% (ovvero oltre centomila individui) ritiene accettabile il ricorso alla violenza in nome della religione.
Alla domanda: «Cosa ti consideri innanzitutto, un musulmano o un cittadino del tuo Paese?» gli islamici inglesi interpellati dal sondaggio condotto con cadenza annuale dal Pew Research Center di Washington hanno risposto in massa (l’81%) di considerarsi islamici. Il 77% è convinto che il senso di appartenenza degli immigrati alla comunità musulmana stia crescendo e l’86% pensa che questa sia una buona cosa. Il 78% degli islamici inglesi pensa che sia in atto una guerra tra islam moderato e islam fondamentalista, e un quarto di loro dice apertamente di sentirsi schierato dalla parte dei fondamentalisti. Questa non è integrazione: è un fallimento.
Non va meglio in Francia. Dove gli islamici transalpini danno risposte appena meno inquietanti di quelle fornite dai loro correligionari inglesi. In compenso ci sono molti di loro in prima fila nella “intifada” delle banlieues, dove spesso il grido «Allah Akbar» accompagna il lancio di pietre sulle auto dei poliziotti. In Francia ci sono 751 “Zones urbaines sensibles”, interi quartieri in cui lo Stato francese riconosce di non avere il potere di imporre la propria legge. In essi vivono 5 milioni di persone, e coincidono con le aree in cui sono concentrati gli immigrati, spesso di seconda e terza generazione e dotati di passaporto francese.
Negli Stati Uniti, agli immigrati è concesso il diritto di voto, anche alle elezioni locali, solo dopo che sono diventati cittadini americani. E avere il passaporto a stelle e strisce non è un diritto che si matura col tempo, ma un onore concesso al termine di un percorso personale. L’immigrato deve dimostrare di aver maturato la capacità di leggere, scrivere e parlare in inglese, la conoscenza della storia e della politica americane, «attaccamento ai principi della Costituzione degli Stati Uniti» e una «disposizione favorevole nei confronti degli Usa».
Bruce Bawer, giornalista e saggista americano trapiantato da qualche tempo nel Nord Europa, la differenza la racconta così: «In America la cittadinanza è vista come un grande onore. Se sei un cittadino, è naturale che tu onori la bandiera a stelle e strisce. È naturale che tu canti l’inno nazionale. La tendenza europea a considerare tutto ciò come l’equivalente di arrestare qualcuno, rinchiuderlo in uno sgabuzzino e obbligarlo a svendere la propria anima puntandogli una pistola alla tempia è terribilmente disastrosa. Negli Stati Uniti, i nuovi cittadini vanno alla cerimonia di concessione della cittadinanza indossando i loro abiti migliori. Portano con sé le loro famiglie, scattano fotografie e piangono e si abbracciano e cantano l’inno nazionale con orgoglio e felicità. Questo vuol dire costruire e mantenere solido un Paese. Quando un Paese inizia a concedere passaporti a persone che non vivono la concessione della cittadinanza in questo modo, che di fatto disprezzano il Paese e i suoi valori, quel Paese è condannato».
© Libero. Pubblicato il 27 aprile 2007.