Il Fronte cristiano combattente, l'islam e la politica che non c'è
di Fausto Carioti
Volessimo imitare quello che fanno tanti esponenti della sinistra in simili occasioni, apriremmo la cassetta degli attrezzi e ne tireremmo fuori la tesi furbetta del “cui prodest”. Suonerebbe più o meno così: l’imbecille che ieri a Milano ha tirato alcune molotov contro la sede dell’organizzazione Islamic Relief e ha rivendicato l’attentato come opera del “Fronte cristiano combattente” non è certo un cristiano. Al contrario, è qualcuno che vuole fare apparire le organizzazioni islamiche, anche le più discusse, come vittime. Quindi, basta pensare a “chi giova” l’attentato di ieri, peraltro compiuto in un orario nel quale non era possibile fare del male a nessuno, per capire chi c’è dietro. Ecco, per fortuna non solo non siamo di sinistra, ma siamo anche estranei a simili dietrologie. Il ragionamento che leggerete è di tutt’altra pasta.
Quando non si hanno prove di alcun genere è bene lasciare parlare i fatti. E i fatti, al momento, dicono che ieri mattina, intorno alle 7, alcune bottiglie incendiarie lanciate da mano ignota hanno danneggiato l’entrata dei locali di Islam Relief Italia, associazione di raccolta fondi per la causa musulmana, in via Amadeo 39. Pochi minuti dopo, una sigla sino a quel momento sconosciuta, il Fronte cristiano combattente, ha rivendicato l’attentato. La stessa voce avrebbe minacciato di morte il direttore di Islamic Relief, Paolo “Abdullah” Gonzaga. Gli investigatori parlano di una probabile “matrice razzista” dell’attentato. Quelli di Islamic Relief, come prevedibile, danno la colpa ai quotidiani che nei giorni scorsi hanno raccontato la recente “tournée” durante la quale l’organizzazione ha raccolto fondi e ospitato predicatori estremisti che inneggiavano alla guerra santa.
Detto l’ovvio, e cioè che si tratta del gesto di qualche delinquente che si spera venga arrestato nel giro di poche ore, tirato un sospiro di sollievo perché nessuno s’è fatto male, resta da capire quello che sta succedendo in Italia attorno al fenomeno dell’immigrazione. La risposta all’attentato di ieri deve essere investigativa e giudiziaria, ma se si vuole impedire che simili cose si ripetano occorre una risposta politica. Proprio quello che adesso manca: il modo con cui l’Italia sta affrontando il fenomeno dell’immigrazione causa forti malcontenti, e l’errore peggiore sarebbe credere che sono tutti malumori ingiustificati, roba da estremisti nostalgici e da pazzoidi più o meno isolati che vanno in giro a fare i crociati del terzo millennio.
Per lungo tempo la politica, varando una sanatoria dopo l’altra (cinque in quindici anni), non ha saputo gestire né il numero né la qualità degli immigrati. Oggi l’Italia ne ospita troppi con un basso livello di qualifica, spesso entrati illegalmente nel nostro paese. Molti di questi clandestini riescono a sopravvivere solo rubando, spacciando o prostituendosi. Esempi tipici, si legge nell’ultimo dossier della Caritas sull’immigrazione, «sono il giovane che, non potendo pagarsi il viaggio della speranza, sia stato indotto a diventare corriere della droga, o il padre di famiglia che stenta a ritrovare nel mercato legale il posto di lavoro perso e si arrangia con espedienti non sempre consentiti dalla legge». Niente di strano se oggi il 33% dei detenuti nelle carceri italiane è straniero.
Lo Stato italiano si rivela incapace persino di rispedire oltre frontiera i clandestini fermati dalla polizia. «Nel 2005», scrive sempre la Caritas, «le persone destinatarie di un provvedimento di allontanamento dal territorio italiano sono state 119.923, di cui quelle effettivamente rimpatriate costituiscono poco meno della metà, il 45,3%, laddove l’anno precedente si trattava del 56,8%». Insomma, anche una volta scoperto, un clandestino ha più probabilità di restare in Italia che di essere rimandato in patria. E il numero di quelli che riescono a farla franca è in aumento. Di contro, il nostro Paese non riesce ad attrarre i “cervelli” stranieri, i lavoratori extracomunitari più qualificati, i quali - sensatamente - preferiscono emigrare in altri Paesi. In quasi tutte le città d’Italia manca una strategia efficace per l’integrazione. Gli immigrati vivono nei loro quartieri-ghetto e quasi sempre finiscono per sposarsi tra loro o con una persona originaria del loro Paese. Proprio grazie ai ricongiungimenti familiari, nel 2005 sono entrati 89.900 immigrati: diecimila in più di quanti se ne siano presentati per lavorare, a ulteriore conferma che l’Italia continua a subire l’immigrazione e ancora non ha imparato a gestirla.
Lo specchio dell’inettitudine della politica è la scelta del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, di non usare i propri poteri per espellere i due imam salafiti di Torino sorpresi dalle telecamere di Annozero a invocare lo sterminio degli infedeli, la fine dello Stato d’Israele e la sottomissione delle donne, mentre nelle loro moschee venivano distribuite pubblicazioni legate ad Al Qaeda. Ma non è certo chiudendo gli occhi e facendo finta che tutto vada bene che si risolve il problema. Se al Viminale ci fosse qualcuno, questo sarebbe il momento di rimboccarsi le maniche per evitare che domani accada di peggio.
© Libero. Pubblicato il 14 aprile 2007.
Volessimo imitare quello che fanno tanti esponenti della sinistra in simili occasioni, apriremmo la cassetta degli attrezzi e ne tireremmo fuori la tesi furbetta del “cui prodest”. Suonerebbe più o meno così: l’imbecille che ieri a Milano ha tirato alcune molotov contro la sede dell’organizzazione Islamic Relief e ha rivendicato l’attentato come opera del “Fronte cristiano combattente” non è certo un cristiano. Al contrario, è qualcuno che vuole fare apparire le organizzazioni islamiche, anche le più discusse, come vittime. Quindi, basta pensare a “chi giova” l’attentato di ieri, peraltro compiuto in un orario nel quale non era possibile fare del male a nessuno, per capire chi c’è dietro. Ecco, per fortuna non solo non siamo di sinistra, ma siamo anche estranei a simili dietrologie. Il ragionamento che leggerete è di tutt’altra pasta.
Quando non si hanno prove di alcun genere è bene lasciare parlare i fatti. E i fatti, al momento, dicono che ieri mattina, intorno alle 7, alcune bottiglie incendiarie lanciate da mano ignota hanno danneggiato l’entrata dei locali di Islam Relief Italia, associazione di raccolta fondi per la causa musulmana, in via Amadeo 39. Pochi minuti dopo, una sigla sino a quel momento sconosciuta, il Fronte cristiano combattente, ha rivendicato l’attentato. La stessa voce avrebbe minacciato di morte il direttore di Islamic Relief, Paolo “Abdullah” Gonzaga. Gli investigatori parlano di una probabile “matrice razzista” dell’attentato. Quelli di Islamic Relief, come prevedibile, danno la colpa ai quotidiani che nei giorni scorsi hanno raccontato la recente “tournée” durante la quale l’organizzazione ha raccolto fondi e ospitato predicatori estremisti che inneggiavano alla guerra santa.
Detto l’ovvio, e cioè che si tratta del gesto di qualche delinquente che si spera venga arrestato nel giro di poche ore, tirato un sospiro di sollievo perché nessuno s’è fatto male, resta da capire quello che sta succedendo in Italia attorno al fenomeno dell’immigrazione. La risposta all’attentato di ieri deve essere investigativa e giudiziaria, ma se si vuole impedire che simili cose si ripetano occorre una risposta politica. Proprio quello che adesso manca: il modo con cui l’Italia sta affrontando il fenomeno dell’immigrazione causa forti malcontenti, e l’errore peggiore sarebbe credere che sono tutti malumori ingiustificati, roba da estremisti nostalgici e da pazzoidi più o meno isolati che vanno in giro a fare i crociati del terzo millennio.
Per lungo tempo la politica, varando una sanatoria dopo l’altra (cinque in quindici anni), non ha saputo gestire né il numero né la qualità degli immigrati. Oggi l’Italia ne ospita troppi con un basso livello di qualifica, spesso entrati illegalmente nel nostro paese. Molti di questi clandestini riescono a sopravvivere solo rubando, spacciando o prostituendosi. Esempi tipici, si legge nell’ultimo dossier della Caritas sull’immigrazione, «sono il giovane che, non potendo pagarsi il viaggio della speranza, sia stato indotto a diventare corriere della droga, o il padre di famiglia che stenta a ritrovare nel mercato legale il posto di lavoro perso e si arrangia con espedienti non sempre consentiti dalla legge». Niente di strano se oggi il 33% dei detenuti nelle carceri italiane è straniero.
Lo Stato italiano si rivela incapace persino di rispedire oltre frontiera i clandestini fermati dalla polizia. «Nel 2005», scrive sempre la Caritas, «le persone destinatarie di un provvedimento di allontanamento dal territorio italiano sono state 119.923, di cui quelle effettivamente rimpatriate costituiscono poco meno della metà, il 45,3%, laddove l’anno precedente si trattava del 56,8%». Insomma, anche una volta scoperto, un clandestino ha più probabilità di restare in Italia che di essere rimandato in patria. E il numero di quelli che riescono a farla franca è in aumento. Di contro, il nostro Paese non riesce ad attrarre i “cervelli” stranieri, i lavoratori extracomunitari più qualificati, i quali - sensatamente - preferiscono emigrare in altri Paesi. In quasi tutte le città d’Italia manca una strategia efficace per l’integrazione. Gli immigrati vivono nei loro quartieri-ghetto e quasi sempre finiscono per sposarsi tra loro o con una persona originaria del loro Paese. Proprio grazie ai ricongiungimenti familiari, nel 2005 sono entrati 89.900 immigrati: diecimila in più di quanti se ne siano presentati per lavorare, a ulteriore conferma che l’Italia continua a subire l’immigrazione e ancora non ha imparato a gestirla.
Lo specchio dell’inettitudine della politica è la scelta del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, di non usare i propri poteri per espellere i due imam salafiti di Torino sorpresi dalle telecamere di Annozero a invocare lo sterminio degli infedeli, la fine dello Stato d’Israele e la sottomissione delle donne, mentre nelle loro moschee venivano distribuite pubblicazioni legate ad Al Qaeda. Ma non è certo chiudendo gli occhi e facendo finta che tutto vada bene che si risolve il problema. Se al Viminale ci fosse qualcuno, questo sarebbe il momento di rimboccarsi le maniche per evitare che domani accada di peggio.
© Libero. Pubblicato il 14 aprile 2007.