"Antisemitismo a sinistra"
di Fausto Carioti
Brucia. Dio come brucia il libro di Gadi Luzzatto Voghera. “Antisemitismo a sinistra”, in uscita in questi giorni per Einaudi, è un trapano da dentista dritto sul nervo scoperto della gauche italienne, senza manco l’ombra dell’anestesia. Fa un male cane a) perché dice cose vere; b) perché sono cose che la sinistra, specie quella italiana, in grandissima parte si rifiuta di vedere e di sentire; c) perché chi le scrive è un ebreo di sinistra che a sinistra, nonostante tutto, è rimasto. E quali argomenti tiri fuori contro “uno dei tuoi” che porta alla luce tutte quelle cose inconfessabili che, in cuor tuo, sai benissimo essere vere? Così, con un malanimo simile a quello che a suo tempo ha accolto “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, la sinistra si trova ora a fare i conti con chi le sbatte in faccia la propria cartella clinica, dove l’antisemitismo, ovviamente mascherato da antisionismo, appare in primo piano come la più grossa delle metastasi.
Una dolorosissima operazione verità, dunque. «Dire che l’antisemitismo e la sinistra sono due concetti incompatibili è storicamente sbagliato e politicamente ipocrita», attacca Luzzatto, quarantaquattrenne storico dell’ebraismo. Non esistono verginelle, insomma, nessuno può dirsi innocente per diritto di nascita, nemmeno chi ha fatto dell’antifascismo la propria ragion d’essere: la comune matrice antifascista degli ebrei e della sinistra italiana «non può in alcun modo chiamare fuori la sinistra stessa dall’infamante accusa di fare un uso talvolta inconscio, spesso spregiudicato, del linguaggio politico antisemita».
Con chi ce l’ha Luzzatto? L’elenco completo sarebbe sterminato e lui stesso elenca solo pochi casi. Menzione doverosa per Massimo D’Alema, il quale poche settimane fa ha detto che c’è bisogno di una comunità ebraica «che sia in grado di esercitare uno stimolo critico nei confronti d’Israele» e ha chiesto agli israeliani di muovere «verso un orizzonte diverso dalla politica che hanno fatto sin qui», politica ovviamente «miope». Tradotto, l’unico ebreo buono è quello che critica Israele in pubblico. Il ministro degli Esteri è in buona compagnia: si tratta di un fenomeno assai diffuso, analizzato e riassunto benissimo da Emanuele Ottolenghi: «La denuncia d’Israele e l’adesione all’ortodossia politica liberal è il passaporto alla piena appartenenza europea per gli ebrei di oggi» (in “Autodafè”, Edizioni Lindau).
Ce n’è anche per Alberto Asor Rosa, secondo il quale gli israeliani, «per non essere più vittime, sono entrati direttamente, quasi senza mediazioni, nel novero dei carnefici». Per Gianni Vattimo, che cita George Steiner: «Il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello Stato di Israele». Per Barbara Spinelli, convinta che da Israele debba arrivare «quel mea culpa che fa crudelmente difetto, pronunciato a fronte degli individui palestinesi e in genere dell’Islam». Ce n’è per Fausto Bertinotti, incapace di andare al di là di una visione caricaturale e offensiva dell’ebreo come vittima predestinata delle ingiustizie del mondo (è la base, ovviamente, da cui poter dire che la vittima dei nazisti si è trasformata nel carnefice dei palestinesi). Per i tantissimi strabici della sinistra, dove «non si è disposti a transigere sulla pratica antisemita quando essa è esercitata da gruppuscoli neonazisti europei, mentre si chiudono entrambi gli occhi quando il presidente iraniano Ahmadinejad o il leader di Hezbollah Nasrallah rivendicano apertamente la negazione della Shoàh e auspicano la scomparsa degli ebrei e di Israele dalla faccia della terra».
Punti nel vivo, i primi chiamati in causa già si sono fatti sentire: il quotidiano di Rifondazione Comunista ieri ha dedicato una colonna della prima pagina a una faticosa spiegazione che avrebbe dovuto convincere il lettore che Bertinotti è un amico degli ebrei. Barbara Spinelli venerdì ha risposto alle accuse sulla Stampa, sostenendo che quello di Luzzatto è un dibattito arretrato, che ignora la questione vera e attuale, vale a dire i rapporti tra ebrei e sionismo (in parole povere, la colpa di Luzzatto sarebbe quella di non processare il sionismo).
Niente di nuovo. Già nel 1982, come ricorda Luzzatto, all’indomani dell’attentato alla sinagoga di Roma, Silvia Berti scriveva: «Sarebbe tempo che la sinistra riconoscesse e curasse le sue infezioni, che dicesse basta agli slogan terzomondisti corrosi dalla propria astrattezza, pallidi involucri di se stessi, privi di contenuto storico. Si è cominciato col parlare dello Stato di Israele come di un centro occidentale capitalistico, filo americano e imperialistico. Si è continuato col trasferire sui palestinesi le categorie della storia ebraica; loro, la nuova diaspora; loro, costretti all’esodo; erano loro i nuovi depositari della speranza messianica, i nuovi portatori di un’altra stella di Davide». Un appello inutile: dopo un quarto di secolo, mentre la destra, specie ai piani alti, ha mostrato chiari segni d’evoluzione (l’appoggio netto e indiscusso di Silvio Berlusconi e dei suoi governi alla causa israeliana, il viaggio di Gianfranco Fini a Gerusalemme), a sinistra l’infezione, ignorata, ha continuato a progredire.
L’ebreo, agli occhi della sinistra, da archetipo di borghese sfruttatore e usuraio è diventato vittima per definizione “grazie” alla Shoàh, al genocidio nazista, per poi trasformarsi rapidissimamente, con la creazione dello Stato di Israele, nel suo opposto: il sionista «imperialista e colonizzatore, avamposto dell’Occidente capitalista». A questo punto, la partita per gli ebrei è bella che persa, come ha spiegato con amarezza il filosofo francese Alain Finkielkraut: «I Palestinesi non sono più i nemici degli Israeliani, ma il loro Altro. Essere in guerra con il proprio nemico è una possibilità umana. Fare la guerra all’Altro è un crimine contro l’umanità. Nel primo caso il rapporto è politico e può eventualmente risolversi, malgrado le tentazioni massimalistiche che l’attraversano, con un compromesso. Nel secondo caso si tratta di razzismo, e tutto ciò che è razzista deve scomparire».
Luzzatto però non si arrende all’evidenza da lui stesso documentata, e vuole provare a lavorare per «una politica di sinistra che, sui temi interessati dall’antisemitismo, faccia la differenza, isolando quella grammatica antisemita che per troppo tempo ha goduto di cittadinanza nella sinistra stessa». Auguri sinceri.
© Libero. Pubblicato il 22 aprile 2007.
Brucia. Dio come brucia il libro di Gadi Luzzatto Voghera. “Antisemitismo a sinistra”, in uscita in questi giorni per Einaudi, è un trapano da dentista dritto sul nervo scoperto della gauche italienne, senza manco l’ombra dell’anestesia. Fa un male cane a) perché dice cose vere; b) perché sono cose che la sinistra, specie quella italiana, in grandissima parte si rifiuta di vedere e di sentire; c) perché chi le scrive è un ebreo di sinistra che a sinistra, nonostante tutto, è rimasto. E quali argomenti tiri fuori contro “uno dei tuoi” che porta alla luce tutte quelle cose inconfessabili che, in cuor tuo, sai benissimo essere vere? Così, con un malanimo simile a quello che a suo tempo ha accolto “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, la sinistra si trova ora a fare i conti con chi le sbatte in faccia la propria cartella clinica, dove l’antisemitismo, ovviamente mascherato da antisionismo, appare in primo piano come la più grossa delle metastasi.
Una dolorosissima operazione verità, dunque. «Dire che l’antisemitismo e la sinistra sono due concetti incompatibili è storicamente sbagliato e politicamente ipocrita», attacca Luzzatto, quarantaquattrenne storico dell’ebraismo. Non esistono verginelle, insomma, nessuno può dirsi innocente per diritto di nascita, nemmeno chi ha fatto dell’antifascismo la propria ragion d’essere: la comune matrice antifascista degli ebrei e della sinistra italiana «non può in alcun modo chiamare fuori la sinistra stessa dall’infamante accusa di fare un uso talvolta inconscio, spesso spregiudicato, del linguaggio politico antisemita».
Con chi ce l’ha Luzzatto? L’elenco completo sarebbe sterminato e lui stesso elenca solo pochi casi. Menzione doverosa per Massimo D’Alema, il quale poche settimane fa ha detto che c’è bisogno di una comunità ebraica «che sia in grado di esercitare uno stimolo critico nei confronti d’Israele» e ha chiesto agli israeliani di muovere «verso un orizzonte diverso dalla politica che hanno fatto sin qui», politica ovviamente «miope». Tradotto, l’unico ebreo buono è quello che critica Israele in pubblico. Il ministro degli Esteri è in buona compagnia: si tratta di un fenomeno assai diffuso, analizzato e riassunto benissimo da Emanuele Ottolenghi: «La denuncia d’Israele e l’adesione all’ortodossia politica liberal è il passaporto alla piena appartenenza europea per gli ebrei di oggi» (in “Autodafè”, Edizioni Lindau).
Ce n’è anche per Alberto Asor Rosa, secondo il quale gli israeliani, «per non essere più vittime, sono entrati direttamente, quasi senza mediazioni, nel novero dei carnefici». Per Gianni Vattimo, che cita George Steiner: «Il danno più grave che ci ha fatto lo sterminio nazista degli ebrei è stato la nascita dello Stato di Israele». Per Barbara Spinelli, convinta che da Israele debba arrivare «quel mea culpa che fa crudelmente difetto, pronunciato a fronte degli individui palestinesi e in genere dell’Islam». Ce n’è per Fausto Bertinotti, incapace di andare al di là di una visione caricaturale e offensiva dell’ebreo come vittima predestinata delle ingiustizie del mondo (è la base, ovviamente, da cui poter dire che la vittima dei nazisti si è trasformata nel carnefice dei palestinesi). Per i tantissimi strabici della sinistra, dove «non si è disposti a transigere sulla pratica antisemita quando essa è esercitata da gruppuscoli neonazisti europei, mentre si chiudono entrambi gli occhi quando il presidente iraniano Ahmadinejad o il leader di Hezbollah Nasrallah rivendicano apertamente la negazione della Shoàh e auspicano la scomparsa degli ebrei e di Israele dalla faccia della terra».
Punti nel vivo, i primi chiamati in causa già si sono fatti sentire: il quotidiano di Rifondazione Comunista ieri ha dedicato una colonna della prima pagina a una faticosa spiegazione che avrebbe dovuto convincere il lettore che Bertinotti è un amico degli ebrei. Barbara Spinelli venerdì ha risposto alle accuse sulla Stampa, sostenendo che quello di Luzzatto è un dibattito arretrato, che ignora la questione vera e attuale, vale a dire i rapporti tra ebrei e sionismo (in parole povere, la colpa di Luzzatto sarebbe quella di non processare il sionismo).
Niente di nuovo. Già nel 1982, come ricorda Luzzatto, all’indomani dell’attentato alla sinagoga di Roma, Silvia Berti scriveva: «Sarebbe tempo che la sinistra riconoscesse e curasse le sue infezioni, che dicesse basta agli slogan terzomondisti corrosi dalla propria astrattezza, pallidi involucri di se stessi, privi di contenuto storico. Si è cominciato col parlare dello Stato di Israele come di un centro occidentale capitalistico, filo americano e imperialistico. Si è continuato col trasferire sui palestinesi le categorie della storia ebraica; loro, la nuova diaspora; loro, costretti all’esodo; erano loro i nuovi depositari della speranza messianica, i nuovi portatori di un’altra stella di Davide». Un appello inutile: dopo un quarto di secolo, mentre la destra, specie ai piani alti, ha mostrato chiari segni d’evoluzione (l’appoggio netto e indiscusso di Silvio Berlusconi e dei suoi governi alla causa israeliana, il viaggio di Gianfranco Fini a Gerusalemme), a sinistra l’infezione, ignorata, ha continuato a progredire.
L’ebreo, agli occhi della sinistra, da archetipo di borghese sfruttatore e usuraio è diventato vittima per definizione “grazie” alla Shoàh, al genocidio nazista, per poi trasformarsi rapidissimamente, con la creazione dello Stato di Israele, nel suo opposto: il sionista «imperialista e colonizzatore, avamposto dell’Occidente capitalista». A questo punto, la partita per gli ebrei è bella che persa, come ha spiegato con amarezza il filosofo francese Alain Finkielkraut: «I Palestinesi non sono più i nemici degli Israeliani, ma il loro Altro. Essere in guerra con il proprio nemico è una possibilità umana. Fare la guerra all’Altro è un crimine contro l’umanità. Nel primo caso il rapporto è politico e può eventualmente risolversi, malgrado le tentazioni massimalistiche che l’attraversano, con un compromesso. Nel secondo caso si tratta di razzismo, e tutto ciò che è razzista deve scomparire».
Luzzatto però non si arrende all’evidenza da lui stesso documentata, e vuole provare a lavorare per «una politica di sinistra che, sui temi interessati dall’antisemitismo, faccia la differenza, isolando quella grammatica antisemita che per troppo tempo ha goduto di cittadinanza nella sinistra stessa». Auguri sinceri.
© Libero. Pubblicato il 22 aprile 2007.