La fine del "fattore C"
di Fausto Carioti
Non c’è niente da ridere, l’argomento è serissimo. La fortuna irradiata da Romano Prodi, quel “fattore C” che sembrava accompagnare dalla nascita il professore bolognese, non c’è più. Da tempo gli influssi benefici emanati dal leader dell’Ulivo sono oggetto di profonde riflessioni filosofiche e politologiche a sinistra. Basta leggere quello che ne ha scritto una delle poche vere teste pensanti della gauche, Edmondo Berselli, direttore di una rivista seria come il Mulino. L’articolo, apparso su Repubblica nell’ottobre del 2004, s’intitolava «Il mago Romano e il “fattore C”», e rappresenta a tutt’oggi il più approfondito studio fenomenologico sulle terga del premier. Berselli fu il primo a chiamarlo con il suo nome: «È il Culo di Prodi. Categoria mitologica che verrà usata per esteso solo questa volta, per rispetto ai lettori e per non sfidare sorti e superstizioni. Come tutti i fenomeni meravigliosi, come un monstrum smisurato e stupefacente, come un prodigio prenaturale, una chimera, una fenice, una cometa, il C. di Prodi è un Ente largamente imprevedibile». «Il dono del mago Romano», ci informava Berselli, «esiste da tempi immemorabili, eppure ricordati religiosamente dai fedeli: i compagni del liceo gli sfregavano la nuca prima delle interrogazioni, convinti che il contatto con gli spigoli vivi della blindatura cranica di Prodi fossero una garanzia di fronte a qualsiasi insegnante». Ecco: oggi, a un anno esatto dalla vittoria dell’Unione alle elezioni politiche si può dire con ragionevole certezza che il monstrum non c’è più. Il “fattore C” è scomparso.
Intendiamoci, per Prodi funziona sempre. Altrimenti non sarebbe ancora a palazzo Chigi, dopo aver vinto le elezioni per un soffio ed essersi ritrovato privo di maggioranza al Senato. Ma tutti quelli che nel frattempo sono stati in qualche modo toccati da lui, sono finiti in disgrazia. Se prima portava fortuna a chiunque gli si avvicinasse (o almeno così ci avevano fatto credere), adesso il “mago Romano” sembra succhiare quel po’ di buona sorte che gli resta dalle sventure altrui. Detta con la stessa schiettezza di Berselli: Prodi di questi tempi pare portare una jella nera a chi gli sta accanto. L’ultimo che ha subito il suo tocco letale è stato il presidente afgano Hamid Karzai. Il quale ha accettato controvoglia la “richiesta” di Prodi di scarcerare cinque tagliagole islamici in cambio della liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, essenziale per la sopravvivenza del governo italiano. Errore fatale, perché i talebani ci hanno preso gusto e hanno tentato subito il bis. Alla tragedia umana (l’uccisione di Adjmal Naqeshbandi, l’interprete di Mastrogiacomo) si è aggiunta la sconfitta politica: Karzai, per i suoi elettori, ora è l’uomo che valuta la vita di un afgano meno di quella di uno straniero, mentre i suoi nemici rivolgono pensieri di gratitudine al governo italiano che ha fatto liberare cinque loro compagni e vuole far sedere gli allievi del mullah Omar al tavolo delle trattative. «Mai più trattative simili», ha commentato Karzai quando si è reso conto di cosa ha significato dare retta a Prodi.
Non vanno meglio le cose in Italia. I due più stretti collaboratori di Prodi sono finiti nel tritacarne. Prima è toccato ad Angelo Rovati, il consigliere ombra del premier, l’uomo dei numeri, che ha commesso l’errore madornale di spedire a Marco Tronchetti Provera, su carta intestata di palazzo Chigi, uno studio nel quale suggeriva a Telecom di scorporare la rete telefonica e farla passare sotto il controllo dello Stato. Quando l’intromissione del governo negli affari di un’impresa privata è venuta a galla - complice una manina galeotta che ha consegnato ai giornali il documento partito dalla presidenza del Consiglio - Rovati è stato costretto a dimettersi. Ovviamente dopo essersi assunto tutte le responsabilità. Poche settimane fa è toccato al povero Silvio Sircana, appena scelto come portavoce unico del governo, finire in prima pagina fotografato mentre chiedeva informazioni, si presume stradali, a un transessuale sul bordo della strada. Altri ci avrebbero fatto una risata sopra, ma Sircana è personcina sensibile, e appena ha saputo della fotografia è stato ricoverato in ospedale per colica addominale. Da allora continuano a girare le voci che lo vogliono intenzionato a lasciare l’incarico di portavoce di Prodi. Altro che sfregamento scaramantico della nuca.
Restano i vicini “politici” del presidente del Consiglio. Che poi sono quelli che se la passano peggio. Prodi non ha un partito, e quasi può permettersi il lusso di fregarsene dei sondaggi. Ma i Ds, la Margherita e gli altri no. Il partito di Fassino e quello di Rutelli, insieme, un anno fa ottennero il 31,3% dei voti degli elettori. Adesso, uniti in quello che dovrebbe essere il partito democratico, secondo un recente sondaggio apparso su Repubblica.it arriverebbero appena al 25%: due punti in meno di Forza Italia. Il crollo, ovviamente, non risparmia gli altri partiti dell’Unione. Il più malconcio dei suoi alleati è Piero Fassino, che all’emorragia di consensi deve aggiungere la scissione che Fabio Mussi gli sta organizzando dentro al partito. Non bastasse, il segretario dei Ds ha appena rimediato una colossale figuraccia internazionale: l’idea di convocare i talebani alla conferenza di pace sull’Afghanistan l’ha lanciata lui, e i tagliagole l’hanno subito ripagato sgozzando l’interprete di Mastrogiacomo: con tanti saluti alla “proposta Fassino”. Guai uno appresso all’altro pure per Massimo D’Alema, che dopo aver visto il Senato bocciare la “sua” politica estera si è tirato addosso le critiche di tutte le cancellerie occidentali per come ha gestito l’emergenza afgana. Quindi ha dovuto subire Gino Strada, che ha definito «vergognoso» il comportamento della Farnesina dinanzi all’arresto del mediatore di Emergency.
Un amuleto servirebbe anche a Francesco Rutelli. Prima è esplosa la vicenda dei tesseramenti gonfiati della Margherita. Poi i bloggers vicini al suo partito hanno documentato che il congresso romano è stato una buffonata, poiché il quorum ufficiale di 15mila votanti è stato solo fittizio. Ciliegina sulla torta, il video “istituzionale” - diventato subito un cult su Internet - nel quale Rutelli illustrava al mondo le bellezze dell’Italia con un inglese da far inorridire Aldo Biscardi: «Pliz, visit Itali». Resta solo Arturo Parisi. Il quale, poverello, ha appena incassato due schiaffi dal suo stesso governo. Il primo in politica estera, quando la Farnesina ha dato a Strada, e non al Sismi (che dipende dal ministero della Difesa, cioè da Parisi), la gestione delle trattative per liberare Mastrogiacomo. Il secondo sul fronte interno: Prodi, su pressione dei piccoli partiti, è stato costretto a sconfessare tutto l’impegno del suo ministro in favore del referendum per cambiare la legge elettorale. Ora gli ambienti prodiani dipingono Parisi piuttosto distante dal premier. Vista l’aria che tira da quelle parti, non è detto che per lui sia un male. Anzi.
© Libero. Pubblicato il 10 aprile 2007.
Non c’è niente da ridere, l’argomento è serissimo. La fortuna irradiata da Romano Prodi, quel “fattore C” che sembrava accompagnare dalla nascita il professore bolognese, non c’è più. Da tempo gli influssi benefici emanati dal leader dell’Ulivo sono oggetto di profonde riflessioni filosofiche e politologiche a sinistra. Basta leggere quello che ne ha scritto una delle poche vere teste pensanti della gauche, Edmondo Berselli, direttore di una rivista seria come il Mulino. L’articolo, apparso su Repubblica nell’ottobre del 2004, s’intitolava «Il mago Romano e il “fattore C”», e rappresenta a tutt’oggi il più approfondito studio fenomenologico sulle terga del premier. Berselli fu il primo a chiamarlo con il suo nome: «È il Culo di Prodi. Categoria mitologica che verrà usata per esteso solo questa volta, per rispetto ai lettori e per non sfidare sorti e superstizioni. Come tutti i fenomeni meravigliosi, come un monstrum smisurato e stupefacente, come un prodigio prenaturale, una chimera, una fenice, una cometa, il C. di Prodi è un Ente largamente imprevedibile». «Il dono del mago Romano», ci informava Berselli, «esiste da tempi immemorabili, eppure ricordati religiosamente dai fedeli: i compagni del liceo gli sfregavano la nuca prima delle interrogazioni, convinti che il contatto con gli spigoli vivi della blindatura cranica di Prodi fossero una garanzia di fronte a qualsiasi insegnante». Ecco: oggi, a un anno esatto dalla vittoria dell’Unione alle elezioni politiche si può dire con ragionevole certezza che il monstrum non c’è più. Il “fattore C” è scomparso.
Intendiamoci, per Prodi funziona sempre. Altrimenti non sarebbe ancora a palazzo Chigi, dopo aver vinto le elezioni per un soffio ed essersi ritrovato privo di maggioranza al Senato. Ma tutti quelli che nel frattempo sono stati in qualche modo toccati da lui, sono finiti in disgrazia. Se prima portava fortuna a chiunque gli si avvicinasse (o almeno così ci avevano fatto credere), adesso il “mago Romano” sembra succhiare quel po’ di buona sorte che gli resta dalle sventure altrui. Detta con la stessa schiettezza di Berselli: Prodi di questi tempi pare portare una jella nera a chi gli sta accanto. L’ultimo che ha subito il suo tocco letale è stato il presidente afgano Hamid Karzai. Il quale ha accettato controvoglia la “richiesta” di Prodi di scarcerare cinque tagliagole islamici in cambio della liberazione del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, essenziale per la sopravvivenza del governo italiano. Errore fatale, perché i talebani ci hanno preso gusto e hanno tentato subito il bis. Alla tragedia umana (l’uccisione di Adjmal Naqeshbandi, l’interprete di Mastrogiacomo) si è aggiunta la sconfitta politica: Karzai, per i suoi elettori, ora è l’uomo che valuta la vita di un afgano meno di quella di uno straniero, mentre i suoi nemici rivolgono pensieri di gratitudine al governo italiano che ha fatto liberare cinque loro compagni e vuole far sedere gli allievi del mullah Omar al tavolo delle trattative. «Mai più trattative simili», ha commentato Karzai quando si è reso conto di cosa ha significato dare retta a Prodi.
Non vanno meglio le cose in Italia. I due più stretti collaboratori di Prodi sono finiti nel tritacarne. Prima è toccato ad Angelo Rovati, il consigliere ombra del premier, l’uomo dei numeri, che ha commesso l’errore madornale di spedire a Marco Tronchetti Provera, su carta intestata di palazzo Chigi, uno studio nel quale suggeriva a Telecom di scorporare la rete telefonica e farla passare sotto il controllo dello Stato. Quando l’intromissione del governo negli affari di un’impresa privata è venuta a galla - complice una manina galeotta che ha consegnato ai giornali il documento partito dalla presidenza del Consiglio - Rovati è stato costretto a dimettersi. Ovviamente dopo essersi assunto tutte le responsabilità. Poche settimane fa è toccato al povero Silvio Sircana, appena scelto come portavoce unico del governo, finire in prima pagina fotografato mentre chiedeva informazioni, si presume stradali, a un transessuale sul bordo della strada. Altri ci avrebbero fatto una risata sopra, ma Sircana è personcina sensibile, e appena ha saputo della fotografia è stato ricoverato in ospedale per colica addominale. Da allora continuano a girare le voci che lo vogliono intenzionato a lasciare l’incarico di portavoce di Prodi. Altro che sfregamento scaramantico della nuca.
Restano i vicini “politici” del presidente del Consiglio. Che poi sono quelli che se la passano peggio. Prodi non ha un partito, e quasi può permettersi il lusso di fregarsene dei sondaggi. Ma i Ds, la Margherita e gli altri no. Il partito di Fassino e quello di Rutelli, insieme, un anno fa ottennero il 31,3% dei voti degli elettori. Adesso, uniti in quello che dovrebbe essere il partito democratico, secondo un recente sondaggio apparso su Repubblica.it arriverebbero appena al 25%: due punti in meno di Forza Italia. Il crollo, ovviamente, non risparmia gli altri partiti dell’Unione. Il più malconcio dei suoi alleati è Piero Fassino, che all’emorragia di consensi deve aggiungere la scissione che Fabio Mussi gli sta organizzando dentro al partito. Non bastasse, il segretario dei Ds ha appena rimediato una colossale figuraccia internazionale: l’idea di convocare i talebani alla conferenza di pace sull’Afghanistan l’ha lanciata lui, e i tagliagole l’hanno subito ripagato sgozzando l’interprete di Mastrogiacomo: con tanti saluti alla “proposta Fassino”. Guai uno appresso all’altro pure per Massimo D’Alema, che dopo aver visto il Senato bocciare la “sua” politica estera si è tirato addosso le critiche di tutte le cancellerie occidentali per come ha gestito l’emergenza afgana. Quindi ha dovuto subire Gino Strada, che ha definito «vergognoso» il comportamento della Farnesina dinanzi all’arresto del mediatore di Emergency.
Un amuleto servirebbe anche a Francesco Rutelli. Prima è esplosa la vicenda dei tesseramenti gonfiati della Margherita. Poi i bloggers vicini al suo partito hanno documentato che il congresso romano è stato una buffonata, poiché il quorum ufficiale di 15mila votanti è stato solo fittizio. Ciliegina sulla torta, il video “istituzionale” - diventato subito un cult su Internet - nel quale Rutelli illustrava al mondo le bellezze dell’Italia con un inglese da far inorridire Aldo Biscardi: «Pliz, visit Itali». Resta solo Arturo Parisi. Il quale, poverello, ha appena incassato due schiaffi dal suo stesso governo. Il primo in politica estera, quando la Farnesina ha dato a Strada, e non al Sismi (che dipende dal ministero della Difesa, cioè da Parisi), la gestione delle trattative per liberare Mastrogiacomo. Il secondo sul fronte interno: Prodi, su pressione dei piccoli partiti, è stato costretto a sconfessare tutto l’impegno del suo ministro in favore del referendum per cambiare la legge elettorale. Ora gli ambienti prodiani dipingono Parisi piuttosto distante dal premier. Vista l’aria che tira da quelle parti, non è detto che per lui sia un male. Anzi.
© Libero. Pubblicato il 10 aprile 2007.