Prodi davanti al rompicapo afghano

Riassumendo. Se Romano Prodi non mette la fiducia sul decreto che rifinanzia la missione italiana in Afghanistan e aumenta il contingente militare italiano (prezzo da pagare per scappare dall'Iraq e mantenere rapporti decenti con Washington, se non si fosse capito), ufficializza la fine politica della sua maggioranza, perché alcuni senatori dell'Unione voteranno contro il decreto. Che comunque passerà grazie al voto favorevole dell'Udc. Sarà la certificazione del fatto che la politica estera può essere gestita solo da una maggioranza diversa da quella con cui Prodi è andato al governo. E' la soluzione più probabile, perché è anche la meno rischiosa: Prodi perde la faccia (tanto...), ma non la poltrona.
Se Prodi invece mette la fiducia sul provvedimento, fa rientrare, mugugnanti, buona parte dei dissidenti (facendo accrescere le tensioni dentro l'Unione ben oltre i livelli di guardia), ma rischia comunque di perderne per strada un pugno, e tanti bastano a cambiare gli esiti del voto a palazzo Madama e a mettere le sorti del suo governo nelle mani dei senatori a vita, dal momento che l'Udc non ha alcuna intenzione di votare la fiducia a Prodi.
Terza soluzione: il governo cede alle pressioni della sinistra pacifista e non vara alcun aumento delle truppe italiane in Afghanistan, sconfessando in modo clamoroso l'impegno preso pubblicamente dal ministro della Difesa Arturo Parisi. La maggioranza tiene, ma Parisi può cambiare mestiere. Salta l'accordo con gli Stati Uniti: l'Italia diventa ufficialmente la macchietta dell'alleanza atlantica. Prodi perde la faccia (tanto...).
Morale: comunque vada, Prodi è destinato a pagare un prezzo politico elevato al caos che domina nella sua coalizione in materia di politica estera.

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