Chi (e come) sta lavorando al dopo Prodi
di Fausto Carioti
Una fase politica, quella che aveva consentito a Romano Prodi di vincere di misura le elezioni e governare per oltre un anno, si è appena chiusa. In queste ore si sta aprendo una fase nuova, in cui a Prodi stavolta tocca la parte del tacchino alla vigilia di Natale. La sua sostituzione a palazzo Chigi potrà non essere immediata (anche se a destra come a sinistra c’è chi lavora affinché lo sia), ma il punto non è questo. Il punto è che, dopo la prova di piazza di sabato scorso e dopo la batosta rimediata alle elezioni amministrative, anche a sinistra si è diffusa la convinzione che i presupposti su cui si basava il suo governo non solo non esistono più, ma si sono addirittura rovesciati.
Sinora il governo Prodi è nato e si è retto (male) sulla presunzione di riuscire a incanalare le pulsioni tribali della sinistra anticapitalistica in un percorso di civiltà politica. Lo scorso fine settimana si è capito che si tratta di una scommessa persa. Gli elettori (e anche molti eletti) dei partiti di sinistra sabato hanno scelto con le loro gambe: hanno lasciato Franco Giordano, Oliviero Diliberto e compagni a piazza del Popolo, soli come cani in chiesa, e hanno scelto di sfilare con gli antagonisti, il cui corteo si apriva con uno striscione di aperta sfiducia all’esecutivo: «No war, no Bush, no alle politiche di guerra del governo Prodi». Due settimane prima, le urne avevano punito gli stessi partiti e la loro pretesa di stare con la protesta e con il governo: Rifondazione ha perso un terzo dei suoi voti. La morale, per Prodi, è amarissima: più stanno vicini a lui e al suo governo, più questi partiti tendono ad azzerare i loro consensi. Politicamente parlando, Prodi oggi è un appestato. Sono gli stessi leader di queste sigle a riconoscerlo, quando - come hanno fatto Franco Giordano del Prc e Paolo Cento dei Verdi - avvertono di avere abbandonato la linea della lealtà per abbracciare la politica delle mani libere nei confronti dell’esecutivo, senza escludere nulla, nemmeno l’uscita dalla maggioranza.
Cresce poi l’aspettativa - e il diretto interessato non fa nulla per smentirla - che Clemente Mastella staccherà la spina a Prodi appena avrà la certezza che la legislatura si è avviata in modo inesorabile verso quel referendum promosso da Mariotto Segni per cambiare la legge elettorale a danno dei piccoli partiti. Gianfranco Fini in questi giorni racconta che «esiste già un’intesa di massima tra Mastella e Berlusconi, che dovrebbe portare l’Udeur fuori dal governo alla fine del mese». Se entro il 28 giugno, infatti, la commissione Affari costituzionali del Senato non avrà steso una proposta di legge elettorale condivisa da buona parte della maggioranza e dell’opposizione, ben difficilmente i tempi consentiranno di cambiare in corsa le regole del voto per evitare il referendum. Sempre per quella data, Prodi dovrà aver raggiunto con i partiti della maggioranza l’accordo su come e a chi aumentare le pensioni, su come spendere il “tesoretto” e su come realizzare l’alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione. I partiti a sinistra dei Ds hanno deciso di cavalcare tutti questi temi per rifarsi uno straccio di verginità agli occhi degli elettori. Ma la loro ricetta è opposta a quella del partito democratico, in disperato bisogno di recuperare consensi al nord. Per ognuno dei contendenti è in gioco la sopravvivenza, e alla fine chi rischia di lasciarci le penne è il governo Prodi.
Davanti all’occasione che si prospetta, il centrodestra resta diviso tra chi vuole andare alle urne il prima possibile, come Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, e chi punta invece a rimandare l’appuntamento almeno al 2009, come Pier Ferdinando Casini. I motivi sono chiari: Berlusconi perché l’anagrafe lo logora, Casini perché vuole far logorare Berlusconi, Bossi perché vuole evitare il referendum e sa che sciogliere le Camere è il modo più efficace per riuscirci. Fini non freme per andare al voto subito e si risparmierebbe volentieri un’altra candidatura del Cavaliere, ma se capisce che Berlusconi ha buone carte in mano alla fine non lo lascerà solo.
Giorgio Napolitano non ha alcuna intenzione di indire nuove elezioni in tempi rapidi, e lo farà solo se lasciato senza alternative. Quindi, almeno il tentativo di mettere in piedi un nuovo governo andrà fatto. Berlusconi lo sa e, tramite Gianni Letta, ha avuto un abbocco con Franco Marini, presidente del Senato e uomo di punta della Margherita. Sapendo che Prodi cadrà non appena sarà pronta un’alternativa più o meno condivisa per rimpiazzarlo, il Cavaliere guarda a lui come una delle possibili soluzioni. Marini non disdegna certi corteggiamenti. Ma ha fatto sapere al Cavaliere le sue condizioni: «Un governo simile non dovrà riformare solo la legge elettorale, ma anche la carta costituzionale, e per fare questo avrà bisogno di almeno due anni di lavoro». Dovrà durare quindi sino al 2009. Il partito democratico, infatti, vuole almeno due anni di tempo per riprendersi dalla defenestrazione di Prodi e costruire una nuova candidatura, con ogni probabilità quella di Walter Veltroni. La scadenza del 2009 trova d’accordo anche Casini, che assieme a Marini ha costruito un asse abbastanza solido. Berlusconi vuole tempi più rapidi, e per adesso ha rifiutato. Ma il Cavaliere sa benissimo che su qualcosa dovrà cedere, e la data del 2009, è la novità di queste ore, resta per lui un ripiego, ma non rappresenta più un tabù. L’importante sarà arrivarci senza essersi sfibrati facendosi coinvolgere in governi di larghe intese, impopolari tra gli elettori.
«Berlusconi si sta tenendo aperte tante piste, come fa sempre», racconta un parlamentare azzurro molto vicino al Cavaliere. «Ma alla fine non credo proprio che finirà per mettersi nelle mani di un marpione della politica come Marini, che avrebbe lo scopo principale di indebolirlo agli occhi degli elettori». Lo scenario più probabile, spiega, «è quello di un governo che si farà verso ottobre-novembre, con un premier più debole di Marini, come potrebbe essere Lamberto Dini. Un governo composto solo da gente di sinistra e da qualche tecnico non sgradito alla Cdl, e che nasca dicendo che il suo scopo principale è cambiare la legge elettorale per andare al voto nel 2009. Per noi questa è la soluzione che minimizza i rischi, e davanti ad essa potremmo scegliere di astenerci o, in certi casi, di garantire una sorta di appoggio esterno».
Anche un simile scenario, però, è tutt’altro che scontato. Per questo resta aperta la terza strada, quella che il corso degli eventi potrebbe imboccare per inerzia: fine in tempi rapidi del governo Prodi, minato dal referendum e dai contrasti sulla spesa sociale, e, accertata l’ingovernabilità del Paese, ricorso alle urne già nel 2008. Così bello che Berlusconi non ci crede. Però ci spera.
© Libero. Pubblicato il 13 giugno 2007.
Una fase politica, quella che aveva consentito a Romano Prodi di vincere di misura le elezioni e governare per oltre un anno, si è appena chiusa. In queste ore si sta aprendo una fase nuova, in cui a Prodi stavolta tocca la parte del tacchino alla vigilia di Natale. La sua sostituzione a palazzo Chigi potrà non essere immediata (anche se a destra come a sinistra c’è chi lavora affinché lo sia), ma il punto non è questo. Il punto è che, dopo la prova di piazza di sabato scorso e dopo la batosta rimediata alle elezioni amministrative, anche a sinistra si è diffusa la convinzione che i presupposti su cui si basava il suo governo non solo non esistono più, ma si sono addirittura rovesciati.
Sinora il governo Prodi è nato e si è retto (male) sulla presunzione di riuscire a incanalare le pulsioni tribali della sinistra anticapitalistica in un percorso di civiltà politica. Lo scorso fine settimana si è capito che si tratta di una scommessa persa. Gli elettori (e anche molti eletti) dei partiti di sinistra sabato hanno scelto con le loro gambe: hanno lasciato Franco Giordano, Oliviero Diliberto e compagni a piazza del Popolo, soli come cani in chiesa, e hanno scelto di sfilare con gli antagonisti, il cui corteo si apriva con uno striscione di aperta sfiducia all’esecutivo: «No war, no Bush, no alle politiche di guerra del governo Prodi». Due settimane prima, le urne avevano punito gli stessi partiti e la loro pretesa di stare con la protesta e con il governo: Rifondazione ha perso un terzo dei suoi voti. La morale, per Prodi, è amarissima: più stanno vicini a lui e al suo governo, più questi partiti tendono ad azzerare i loro consensi. Politicamente parlando, Prodi oggi è un appestato. Sono gli stessi leader di queste sigle a riconoscerlo, quando - come hanno fatto Franco Giordano del Prc e Paolo Cento dei Verdi - avvertono di avere abbandonato la linea della lealtà per abbracciare la politica delle mani libere nei confronti dell’esecutivo, senza escludere nulla, nemmeno l’uscita dalla maggioranza.
Cresce poi l’aspettativa - e il diretto interessato non fa nulla per smentirla - che Clemente Mastella staccherà la spina a Prodi appena avrà la certezza che la legislatura si è avviata in modo inesorabile verso quel referendum promosso da Mariotto Segni per cambiare la legge elettorale a danno dei piccoli partiti. Gianfranco Fini in questi giorni racconta che «esiste già un’intesa di massima tra Mastella e Berlusconi, che dovrebbe portare l’Udeur fuori dal governo alla fine del mese». Se entro il 28 giugno, infatti, la commissione Affari costituzionali del Senato non avrà steso una proposta di legge elettorale condivisa da buona parte della maggioranza e dell’opposizione, ben difficilmente i tempi consentiranno di cambiare in corsa le regole del voto per evitare il referendum. Sempre per quella data, Prodi dovrà aver raggiunto con i partiti della maggioranza l’accordo su come e a chi aumentare le pensioni, su come spendere il “tesoretto” e su come realizzare l’alta velocità ferroviaria tra Torino e Lione. I partiti a sinistra dei Ds hanno deciso di cavalcare tutti questi temi per rifarsi uno straccio di verginità agli occhi degli elettori. Ma la loro ricetta è opposta a quella del partito democratico, in disperato bisogno di recuperare consensi al nord. Per ognuno dei contendenti è in gioco la sopravvivenza, e alla fine chi rischia di lasciarci le penne è il governo Prodi.
Davanti all’occasione che si prospetta, il centrodestra resta diviso tra chi vuole andare alle urne il prima possibile, come Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, e chi punta invece a rimandare l’appuntamento almeno al 2009, come Pier Ferdinando Casini. I motivi sono chiari: Berlusconi perché l’anagrafe lo logora, Casini perché vuole far logorare Berlusconi, Bossi perché vuole evitare il referendum e sa che sciogliere le Camere è il modo più efficace per riuscirci. Fini non freme per andare al voto subito e si risparmierebbe volentieri un’altra candidatura del Cavaliere, ma se capisce che Berlusconi ha buone carte in mano alla fine non lo lascerà solo.
Giorgio Napolitano non ha alcuna intenzione di indire nuove elezioni in tempi rapidi, e lo farà solo se lasciato senza alternative. Quindi, almeno il tentativo di mettere in piedi un nuovo governo andrà fatto. Berlusconi lo sa e, tramite Gianni Letta, ha avuto un abbocco con Franco Marini, presidente del Senato e uomo di punta della Margherita. Sapendo che Prodi cadrà non appena sarà pronta un’alternativa più o meno condivisa per rimpiazzarlo, il Cavaliere guarda a lui come una delle possibili soluzioni. Marini non disdegna certi corteggiamenti. Ma ha fatto sapere al Cavaliere le sue condizioni: «Un governo simile non dovrà riformare solo la legge elettorale, ma anche la carta costituzionale, e per fare questo avrà bisogno di almeno due anni di lavoro». Dovrà durare quindi sino al 2009. Il partito democratico, infatti, vuole almeno due anni di tempo per riprendersi dalla defenestrazione di Prodi e costruire una nuova candidatura, con ogni probabilità quella di Walter Veltroni. La scadenza del 2009 trova d’accordo anche Casini, che assieme a Marini ha costruito un asse abbastanza solido. Berlusconi vuole tempi più rapidi, e per adesso ha rifiutato. Ma il Cavaliere sa benissimo che su qualcosa dovrà cedere, e la data del 2009, è la novità di queste ore, resta per lui un ripiego, ma non rappresenta più un tabù. L’importante sarà arrivarci senza essersi sfibrati facendosi coinvolgere in governi di larghe intese, impopolari tra gli elettori.
«Berlusconi si sta tenendo aperte tante piste, come fa sempre», racconta un parlamentare azzurro molto vicino al Cavaliere. «Ma alla fine non credo proprio che finirà per mettersi nelle mani di un marpione della politica come Marini, che avrebbe lo scopo principale di indebolirlo agli occhi degli elettori». Lo scenario più probabile, spiega, «è quello di un governo che si farà verso ottobre-novembre, con un premier più debole di Marini, come potrebbe essere Lamberto Dini. Un governo composto solo da gente di sinistra e da qualche tecnico non sgradito alla Cdl, e che nasca dicendo che il suo scopo principale è cambiare la legge elettorale per andare al voto nel 2009. Per noi questa è la soluzione che minimizza i rischi, e davanti ad essa potremmo scegliere di astenerci o, in certi casi, di garantire una sorta di appoggio esterno».
Anche un simile scenario, però, è tutt’altro che scontato. Per questo resta aperta la terza strada, quella che il corso degli eventi potrebbe imboccare per inerzia: fine in tempi rapidi del governo Prodi, minato dal referendum e dai contrasti sulla spesa sociale, e, accertata l’ingovernabilità del Paese, ricorso alle urne già nel 2008. Così bello che Berlusconi non ci crede. Però ci spera.
© Libero. Pubblicato il 13 giugno 2007.