Le amnesie di Napolitano sugli assassini delle foibe
di Fausto Carioti
Nel discorso con cui ieri Giorgio Napolitano ha commentato il significato della Giornata del Ricordo manca una parola. Tutt’altro che secondaria. Tra poco vedremo qual è. Prima bisogna capire cosa si commemorava. Istituito da una legge del 2004, il Giorno del ricordo cade il 10 febbraio di ogni anno, «al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La «tragedia» in questione iniziò nel 1943 e proseguì dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Costò la vita a circa 15mila italiani e ne costrinse all’esodo altri 350mila. Se il numero delle vittime è ancora oggetto di dispute tra gli storici, la responsabilità del massacro no: a gettare i nostri connazionali nelle cavità carsiche furono i partigiani comunisti dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, guidati dal compagno Josip Broz, nome d’arte Tito. Aiutati da molti comunisti italiani e con l’avallo politico dello stesso Pci, che aveva dato via libera al tentativo d’espansione delle brigate titoiste.
Questo, dunque, si commemorava ieri: un lungo e infame massacro compiuto, per motivi politici ed etnici, dai comunisti jugoslavi ai danni dei nostri connazionali, sotto il silenzio complice (che in alcuni casi diventava appoggio convinto) del Partito comunista italiano. Ecco, la parolina che manca, nel discorso fatto da Napolitano, è proprio la più importante di tutte: comunismo. Nelle 488 parole usate ieri dal capo dello Stato non ve ne è traccia. Si parla della colpa con toni indignati, ma ci si scorda di fare il nome e il cognome dei colpevoli. I comunisti.
Si dirà: Napolitano è stato generico apposta. Omettendo di indicare gli assassini, ha voluto evitare di aggiungere nuove tensioni a quelle di questi giorni. E invece no. Perché, ad esempio, nel suo discorso c’è stato spazio per la condanna della «dura esperienza del fascismo», per le «responsabilità storiche del regime fascista», per «le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra». Ma per i crimini commessi da mani comuniste, no.
Il presidente della repubblica, così lucido e preciso sino a poche parole prima, quando si trattava di ricordare le nefandezze degli uomini in camicia nera, è diventato vago appena gli è toccato affrontare le colpe di coloro che, in quel tempo, militavano dalla sua stessa parte. Molto vago: «Non possiamo certo dimenticare le sofferenze, fino a un’orribile morte, inflitte a italiani assolutamente immuni da ogni colpa», ha detto. Bene. Ma il complemento d’agente? Chi fu ad infliggere quella «orribile morte» ai poveri italiani innocenti? Furono i comunisti, ma l’ex comunista Napolitano non lo dice. Tanto che una mente semplice, davanti al suo discorso, ricco di richiami agli orrori fascisti e privo di ogni altro possibile esecutore, sarebbe autorizzata a credere che gli infoibamenti vadano aggiunti alla lunga lista dei crimini delle milizie mussoliniane.
Insomma, anche se lo scrittore triestino Claudio Magris, in ottimi rapporti con Napolitano, non la penserà così, pare proprio che ci ritroviamo dinanzi a uno di quei casi da lui denunciati tante volte negli anni passati: il continuo impegno di una parte importante della sinistra italiana affinché, dinanzi agli eccidi delle foibe, «non si parlasse di crimini commessi dal comunismo o in nome del comunismo». Un’arte, quella del tacere sul colore politico degli autori di queste stragi, che se praticata dal Quirinale rappresenta la migliore copertura possibile per gli studenti di sinistra che proprio ieri, in cerca dello scandalo facile, hanno voluto depositare una corona di fiori dinanzi alle tombe dei partigiani di Tito. Per ringraziarli del lavoro svolto in Italia, s’intende.
Né è la prima volta che Napolitano manifesta simili amnesie. Anche nei due discorsi da lui tenuti gli anni passati in occasione del Giorno del Ricordo i comunisti erano assenti. E nell’agosto del 2008, quando morì lo scrittore russo Aleksandr Solzhenitsyn, il presidente della repubblica scelse il silenzio. Eppure lo stesso Napolitano era stato uno dei grandi accusatori di Solzhenitsyn. Nel 1974, quando il grande dissidente era stato costretto all’esilio dal regime sovietico, Napolitano, allora responsabile culturale del Pci, aveva scritto sull’Unità che quella scelta dal Cremlino era stata la «soluzione migliore». Anche perché le opere di Solzhenitsyn erano «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre». Sarebbe stata, la morte di Solzhenitsyn, un’ottima occasione per ammettere errori e orrori del comunismo. Ma Napolitano, qualunque cosa pensi dell’ideologia che lo ha accompagnato per (quasi?) tutta la sua vita e dei morti che essa ha provocato, ha scelto di tenersela per sé. E ora, proprio nella Giornata del ricordo, ci ha fatto capire che in fondo è meglio non ricordare tutto. Non in pubblico, almeno.
© Libero. Pubblicato l'11 febbraio 2009.
Nel discorso con cui ieri Giorgio Napolitano ha commentato il significato della Giornata del Ricordo manca una parola. Tutt’altro che secondaria. Tra poco vedremo qual è. Prima bisogna capire cosa si commemorava. Istituito da una legge del 2004, il Giorno del ricordo cade il 10 febbraio di ogni anno, «al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La «tragedia» in questione iniziò nel 1943 e proseguì dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Costò la vita a circa 15mila italiani e ne costrinse all’esodo altri 350mila. Se il numero delle vittime è ancora oggetto di dispute tra gli storici, la responsabilità del massacro no: a gettare i nostri connazionali nelle cavità carsiche furono i partigiani comunisti dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, guidati dal compagno Josip Broz, nome d’arte Tito. Aiutati da molti comunisti italiani e con l’avallo politico dello stesso Pci, che aveva dato via libera al tentativo d’espansione delle brigate titoiste.
Questo, dunque, si commemorava ieri: un lungo e infame massacro compiuto, per motivi politici ed etnici, dai comunisti jugoslavi ai danni dei nostri connazionali, sotto il silenzio complice (che in alcuni casi diventava appoggio convinto) del Partito comunista italiano. Ecco, la parolina che manca, nel discorso fatto da Napolitano, è proprio la più importante di tutte: comunismo. Nelle 488 parole usate ieri dal capo dello Stato non ve ne è traccia. Si parla della colpa con toni indignati, ma ci si scorda di fare il nome e il cognome dei colpevoli. I comunisti.
Si dirà: Napolitano è stato generico apposta. Omettendo di indicare gli assassini, ha voluto evitare di aggiungere nuove tensioni a quelle di questi giorni. E invece no. Perché, ad esempio, nel suo discorso c’è stato spazio per la condanna della «dura esperienza del fascismo», per le «responsabilità storiche del regime fascista», per «le sofferenze inflitte alla minoranza slovena negli anni del fascismo e della guerra». Ma per i crimini commessi da mani comuniste, no.
Il presidente della repubblica, così lucido e preciso sino a poche parole prima, quando si trattava di ricordare le nefandezze degli uomini in camicia nera, è diventato vago appena gli è toccato affrontare le colpe di coloro che, in quel tempo, militavano dalla sua stessa parte. Molto vago: «Non possiamo certo dimenticare le sofferenze, fino a un’orribile morte, inflitte a italiani assolutamente immuni da ogni colpa», ha detto. Bene. Ma il complemento d’agente? Chi fu ad infliggere quella «orribile morte» ai poveri italiani innocenti? Furono i comunisti, ma l’ex comunista Napolitano non lo dice. Tanto che una mente semplice, davanti al suo discorso, ricco di richiami agli orrori fascisti e privo di ogni altro possibile esecutore, sarebbe autorizzata a credere che gli infoibamenti vadano aggiunti alla lunga lista dei crimini delle milizie mussoliniane.
Insomma, anche se lo scrittore triestino Claudio Magris, in ottimi rapporti con Napolitano, non la penserà così, pare proprio che ci ritroviamo dinanzi a uno di quei casi da lui denunciati tante volte negli anni passati: il continuo impegno di una parte importante della sinistra italiana affinché, dinanzi agli eccidi delle foibe, «non si parlasse di crimini commessi dal comunismo o in nome del comunismo». Un’arte, quella del tacere sul colore politico degli autori di queste stragi, che se praticata dal Quirinale rappresenta la migliore copertura possibile per gli studenti di sinistra che proprio ieri, in cerca dello scandalo facile, hanno voluto depositare una corona di fiori dinanzi alle tombe dei partigiani di Tito. Per ringraziarli del lavoro svolto in Italia, s’intende.
Né è la prima volta che Napolitano manifesta simili amnesie. Anche nei due discorsi da lui tenuti gli anni passati in occasione del Giorno del Ricordo i comunisti erano assenti. E nell’agosto del 2008, quando morì lo scrittore russo Aleksandr Solzhenitsyn, il presidente della repubblica scelse il silenzio. Eppure lo stesso Napolitano era stato uno dei grandi accusatori di Solzhenitsyn. Nel 1974, quando il grande dissidente era stato costretto all’esilio dal regime sovietico, Napolitano, allora responsabile culturale del Pci, aveva scritto sull’Unità che quella scelta dal Cremlino era stata la «soluzione migliore». Anche perché le opere di Solzhenitsyn erano «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre». Sarebbe stata, la morte di Solzhenitsyn, un’ottima occasione per ammettere errori e orrori del comunismo. Ma Napolitano, qualunque cosa pensi dell’ideologia che lo ha accompagnato per (quasi?) tutta la sua vita e dei morti che essa ha provocato, ha scelto di tenersela per sé. E ora, proprio nella Giornata del ricordo, ci ha fatto capire che in fondo è meglio non ricordare tutto. Non in pubblico, almeno.
© Libero. Pubblicato l'11 febbraio 2009.