Il governo, le banche e il capitalismo senza capitali
di Fausto Carioti
Il capitalismo italiano era povero di capitali già ai tempi delle vacche grasse. Adesso che le poche mucche rimaste vive sono tutte pelle e ossa, dei soldi necessari a far girare l'economia non ce ne è traccia alcuna. Ma chi vede nella situazione attuale i segni del fallimento del mercato e magari ne approfitta per brindare alla fine del capitalismo, sbaglia di brutto. Sbaglia nella diagnosi, perché gli errori alla base della crisi mondiale sono del settore pubblico: della Federal Reserve americana, che per anni ha reso il credito troppo facile negli Stati Uniti, e di agenzie paragovernative come le famigerate Fannie Mae e Freddie Mac, che spinte dal congresso e dall'amministrazione di Washington (sin dai tempi di Bill Clinton) hanno finanziato acquisti di case da parte delle famiglie più povere seguendo logiche che col mercato non avevano nulla a che vedere. E sbaglia nella terapia, perché per redistribuire i soldi occorre prima crearli, e il mercato è l'unica fabbrica di ricchezza che esista. Dunque, è dal mercato che bisogna ripartire. Il problema è che questo, per rimettersi in funzione e ricominciare a fare il suo mestiere, ha bisogno di un minimo di capitali. Che sono proprio quello che manca adesso.
Il grido di dolore lanciato da Silvio Berlusconi (presto scopriremo se dovuto a un aggiornamento delle stime sul fatturato delle sue aziende o ad altri fattori) è più eloquente delle previsioni del Fondo monetario. «La crisi ha dimensioni non ben definite e noi la guardiamo con preoccupazione», ha detto ieri il premier, abbandonando la trincea dell'ottimismo dietro la quale, sempre meno convinto, si era barricato per mesi. Poco prima, l'Istituto centrale di statistica aveva certificato un calo del prodotto interno lordo, nel 2008, pari allo 0,9%. Peggio di quanto il governo avesse previsto.
L'esecutivo e le regioni, intanto, hanno gettato sul piatto degli ammortizzatori sociali 8 miliardi di euro. Serviranno, come ha detto il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, a «salvaguardare la base produttiva e occupazionale», ovvero a evitare licenziamenti. Un ombrello in vista del temporale che dovrebbe arrivare, se sono vere le previsioni secondo cui il peggio deve ancora presentarsi. Ma non certo il veicolo sul quale ripartire. Per quello ci vorrà molto di più, e in gran parte dipenderà da fattori che né i governi né le banche centrali sono in grado di controllare.
Tra le cose che si possono fare, però, c'è agevolare il rilancio degli investimenti e dei consumi. Le banche potrebbero avere un ruolo importante. E sarebbe anche giusto che lo svolgessero, visto che il governo (cioè noialtri contribuenti) a ottobre aveva stanziato un fondo di 20 miliardi di euro per impedire, qualora si prospettasse, il fallimento degli istituti di credito messi in ginocchio dalla crisi finanziaria. Invece le banche italiane, adesso più che mai, tremano al pensiero di concedere prestiti a chi ha voglia di investire. Il credito, se proprio devono farlo, lo riservano per le aziende già esistenti che stanno producendo utili. E siccome di questi tempi i conti in ordine non li ha nessuno, finisce che le banche i soldi se li tengono stretti. Mostrando un eccesso di prudenza che non sembravano avere quando si sono prese in carico vagonate di titoli “tossici” che poi hanno cercato di rifilare ai risparmiatori.
Il governo, quindi, in questo momento avrebbe ottimi motivi per esercitare la “moral suasion”, la sua capacità di persuasione fatta di bastone e carota, per indurre gli istituti di credito a usare criteri più decenti nella concessione dei finanziamenti. E lo stesso esecutivo può fare molto per rilanciare i consumi. La linea del rigore voluta da Giulio Tremonti, interessato solo a mantenere i conti entro i parametri del patto di stabilità europeo, appare da tempo inadeguata a molti esponenti dell'esecutivo. Incluso lo stesso Berlusconi che, ad esempio, avrebbe visto volentieri la detassazione delle tredicesime del dicembre 2008, e ha dovuto ingoiare a malincuore il veto del suo ministro. Ora che anche il premier si è detto preoccupato per gli effetti che la crisi sta avendo sui conti delle famiglie, la fedeltà ai parametri europei rischia di apparire davvero un feticcio antiquato.
Se è da un taglio delle tasse, o da interventi simili, che possono ripartire i consumi, prima lo si fa e meglio è. I soldi per finanziare simili provvedimenti, nel medio-lungo periodo, possono essere recuperati dall'abolizione delle province, dalla riforma delle pensioni e da altri interventi sulla spesa pubblica. Certo, occorre coraggio politico per fare simili cose. Ma se uno non lo ha, non è adatto ad affrontare dal ponte di comando tempi come questi.
© Libero. Pubblicato il 14 febbraio 2009.
Il capitalismo italiano era povero di capitali già ai tempi delle vacche grasse. Adesso che le poche mucche rimaste vive sono tutte pelle e ossa, dei soldi necessari a far girare l'economia non ce ne è traccia alcuna. Ma chi vede nella situazione attuale i segni del fallimento del mercato e magari ne approfitta per brindare alla fine del capitalismo, sbaglia di brutto. Sbaglia nella diagnosi, perché gli errori alla base della crisi mondiale sono del settore pubblico: della Federal Reserve americana, che per anni ha reso il credito troppo facile negli Stati Uniti, e di agenzie paragovernative come le famigerate Fannie Mae e Freddie Mac, che spinte dal congresso e dall'amministrazione di Washington (sin dai tempi di Bill Clinton) hanno finanziato acquisti di case da parte delle famiglie più povere seguendo logiche che col mercato non avevano nulla a che vedere. E sbaglia nella terapia, perché per redistribuire i soldi occorre prima crearli, e il mercato è l'unica fabbrica di ricchezza che esista. Dunque, è dal mercato che bisogna ripartire. Il problema è che questo, per rimettersi in funzione e ricominciare a fare il suo mestiere, ha bisogno di un minimo di capitali. Che sono proprio quello che manca adesso.
Il grido di dolore lanciato da Silvio Berlusconi (presto scopriremo se dovuto a un aggiornamento delle stime sul fatturato delle sue aziende o ad altri fattori) è più eloquente delle previsioni del Fondo monetario. «La crisi ha dimensioni non ben definite e noi la guardiamo con preoccupazione», ha detto ieri il premier, abbandonando la trincea dell'ottimismo dietro la quale, sempre meno convinto, si era barricato per mesi. Poco prima, l'Istituto centrale di statistica aveva certificato un calo del prodotto interno lordo, nel 2008, pari allo 0,9%. Peggio di quanto il governo avesse previsto.
L'esecutivo e le regioni, intanto, hanno gettato sul piatto degli ammortizzatori sociali 8 miliardi di euro. Serviranno, come ha detto il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, a «salvaguardare la base produttiva e occupazionale», ovvero a evitare licenziamenti. Un ombrello in vista del temporale che dovrebbe arrivare, se sono vere le previsioni secondo cui il peggio deve ancora presentarsi. Ma non certo il veicolo sul quale ripartire. Per quello ci vorrà molto di più, e in gran parte dipenderà da fattori che né i governi né le banche centrali sono in grado di controllare.
Tra le cose che si possono fare, però, c'è agevolare il rilancio degli investimenti e dei consumi. Le banche potrebbero avere un ruolo importante. E sarebbe anche giusto che lo svolgessero, visto che il governo (cioè noialtri contribuenti) a ottobre aveva stanziato un fondo di 20 miliardi di euro per impedire, qualora si prospettasse, il fallimento degli istituti di credito messi in ginocchio dalla crisi finanziaria. Invece le banche italiane, adesso più che mai, tremano al pensiero di concedere prestiti a chi ha voglia di investire. Il credito, se proprio devono farlo, lo riservano per le aziende già esistenti che stanno producendo utili. E siccome di questi tempi i conti in ordine non li ha nessuno, finisce che le banche i soldi se li tengono stretti. Mostrando un eccesso di prudenza che non sembravano avere quando si sono prese in carico vagonate di titoli “tossici” che poi hanno cercato di rifilare ai risparmiatori.
Il governo, quindi, in questo momento avrebbe ottimi motivi per esercitare la “moral suasion”, la sua capacità di persuasione fatta di bastone e carota, per indurre gli istituti di credito a usare criteri più decenti nella concessione dei finanziamenti. E lo stesso esecutivo può fare molto per rilanciare i consumi. La linea del rigore voluta da Giulio Tremonti, interessato solo a mantenere i conti entro i parametri del patto di stabilità europeo, appare da tempo inadeguata a molti esponenti dell'esecutivo. Incluso lo stesso Berlusconi che, ad esempio, avrebbe visto volentieri la detassazione delle tredicesime del dicembre 2008, e ha dovuto ingoiare a malincuore il veto del suo ministro. Ora che anche il premier si è detto preoccupato per gli effetti che la crisi sta avendo sui conti delle famiglie, la fedeltà ai parametri europei rischia di apparire davvero un feticcio antiquato.
Se è da un taglio delle tasse, o da interventi simili, che possono ripartire i consumi, prima lo si fa e meglio è. I soldi per finanziare simili provvedimenti, nel medio-lungo periodo, possono essere recuperati dall'abolizione delle province, dalla riforma delle pensioni e da altri interventi sulla spesa pubblica. Certo, occorre coraggio politico per fare simili cose. Ma se uno non lo ha, non è adatto ad affrontare dal ponte di comando tempi come questi.
© Libero. Pubblicato il 14 febbraio 2009.