L'europeizzazione della Gran Bretagna
di Fausto Carioti
Avessero detto a un inglese vent’anni fa, ai tempi di Margaret Thatcher, che avrebbe avuto in tasca la stessa moneta di greci, portoghesi e italiani, si sarebbe offeso o messo a ridere. Ieri lo ha detto il commissario europeo agli Affari economici, Joaquín Almunia: c’è «una forte possibilità» che, in futuro, la Gran Bretagna aderisca all’euro. E non solo sulle rive del Tamigi nessuno s’è indignato o messo a sghignazzare, ma l’impressione è che molti abbiano iniziato a pregare in silenzio san Giorgio, patrono dell’Inghilterra, che l’annessione monetaria avvenga al più presto. L’ambasciatore britannico in Italia, Edward Chaplin, si è limitato a dire che l’ingresso del suo Paese nell’eurozona «non è una priorità in questo momento». Ha ragione: ufficialmente se ne parlerà tra qualche tempo, dopo le elezioni del 2010. Adesso si deve solo sondare il terreno e preparare l’opinione pubblica. Siamo davanti a una svolta epocale: la fine del plurisecolare orgoglio finanziario britannico e la definitiva europeizzazione economica degli inglesi. I quali, ormai, sono ridotti come noi. Anzi, peggio: più poveri, più spaventati, più statalisti.
Perché è ovvio che il commissario Ue non parla a vanvera, ma lo fa in seguito ai colloqui informali avuti con il governo di Gordon Brown. Ed è ovvio anche che, se i tempi sono maturi perché le principali autorità europee possano parlare in pubblico dell’argomento, è perché la Gran Bretagna in quest’ultimo anno è andata a rotoli, l’orizzonte è cupo il Paese e ha un disperato bisogno di un salvagente al quale aggrapparsi. In mancanza di meglio va bene anche l’euro, con le sue barcollanti istituzioni monetarie.
Se i referti medici dicono che la zona euro è malata, per la Gran Bretagna siamo al coma profondo. Per comprare una sterlina, ieri, ci volevano 1,1 euro. Un anno fa ne occorrevano 1,35: la moneta britannica, in questi dodici mesi, si è svalutata del 19% rispetto alla moneta europea. Nei confronti del dollaro la svalutazione è stata del 27%. Il crollo della divisa non si è tradotto in un recupero di competitività delle merci inglesi, diventate più economiche per i consumatori europei e americani. Al contrario: nel 2008 il deficit commerciale britannico ha raggiunto nuovi record, a causa del pessimo andamento delle esportazioni.
La sterlina ai minimi storici riflette un’economia ridotta peggio di quella italiana. Gli ultimi dati fotografano un prodotto interno lordo in discesa dell’1,8%. Gli analisti della Economist Intelligence Unit stimano che nel 2009 l’economia britannica scenderà dell’1,7%, mentre per l’Italia e l’area dell’euro la discesa sarà, rispettivamente, dell’1,2 e dell’1,4%. I disoccupati aumentano e sono diventati quasi due milioni. Anche il debito statale cresce, e ormai vale 700 miliardi di sterline: poco meno di metà della ricchezza prodotta dalla Gran Bretagna in un anno. Il bilancio pubblico è in deficit costante, e risente degli aiuti concessi alle banche mandate al tappeto dalla crisi dei mutui.
Invece di reagire come la sua tradizione le imporrebbe, e cioè lasciare al loro destino le imprese fallite, ristrutturare quello che ancora si regge in piedi e approfittare della svalutazione per aggredire i mercati, la Gran Bretagna ha applicato in grande scala la ricetta interventista dell’Europa continentale. Il governo di Londra è stato il primo a statalizzare i grandi istituti travolti dalla crisi: ha iniziato con il colosso dei mutui Northern Rock, un anno fa, per proseguire con la società Bradford Bingley, la Bank of Scotland e il Lloyds Group. Seguendo l’esempio di Benito Mussolini, che creò l’Iri per salvare le banche italiane dalla crisi mondiale iniziata nel 1929, Gordon Brown ha istituito la Uk Financial Investments, società pubblica incaricata di gestire tutte queste nuove partecipazioni.
A questo punto non c’è davvero alcun motivo per cui i britannici debbano avere una moneta diversa da quella dell’Europa continentale. La presenza dello Stato nell’economia è accettata e incoraggiata come all’interno di Eurolandia. Gli indicatori economici sono simili, anzi peggiori in Gran Bretagna rispetto al resto d’Europa. Anche le paure sono le stesse, e lo confermano le proteste dei lavoratori inglesi contro i nostri connazionali. Il modello continentale ha avuto la meglio sugli inventori del libero mercato, e il cambio della moneta servirà solo a sancirlo definitivamente. Non è una buona notizia.
© Libero. Pubblicato il 3 febbraio 2009.
Avessero detto a un inglese vent’anni fa, ai tempi di Margaret Thatcher, che avrebbe avuto in tasca la stessa moneta di greci, portoghesi e italiani, si sarebbe offeso o messo a ridere. Ieri lo ha detto il commissario europeo agli Affari economici, Joaquín Almunia: c’è «una forte possibilità» che, in futuro, la Gran Bretagna aderisca all’euro. E non solo sulle rive del Tamigi nessuno s’è indignato o messo a sghignazzare, ma l’impressione è che molti abbiano iniziato a pregare in silenzio san Giorgio, patrono dell’Inghilterra, che l’annessione monetaria avvenga al più presto. L’ambasciatore britannico in Italia, Edward Chaplin, si è limitato a dire che l’ingresso del suo Paese nell’eurozona «non è una priorità in questo momento». Ha ragione: ufficialmente se ne parlerà tra qualche tempo, dopo le elezioni del 2010. Adesso si deve solo sondare il terreno e preparare l’opinione pubblica. Siamo davanti a una svolta epocale: la fine del plurisecolare orgoglio finanziario britannico e la definitiva europeizzazione economica degli inglesi. I quali, ormai, sono ridotti come noi. Anzi, peggio: più poveri, più spaventati, più statalisti.
Perché è ovvio che il commissario Ue non parla a vanvera, ma lo fa in seguito ai colloqui informali avuti con il governo di Gordon Brown. Ed è ovvio anche che, se i tempi sono maturi perché le principali autorità europee possano parlare in pubblico dell’argomento, è perché la Gran Bretagna in quest’ultimo anno è andata a rotoli, l’orizzonte è cupo il Paese e ha un disperato bisogno di un salvagente al quale aggrapparsi. In mancanza di meglio va bene anche l’euro, con le sue barcollanti istituzioni monetarie.
Se i referti medici dicono che la zona euro è malata, per la Gran Bretagna siamo al coma profondo. Per comprare una sterlina, ieri, ci volevano 1,1 euro. Un anno fa ne occorrevano 1,35: la moneta britannica, in questi dodici mesi, si è svalutata del 19% rispetto alla moneta europea. Nei confronti del dollaro la svalutazione è stata del 27%. Il crollo della divisa non si è tradotto in un recupero di competitività delle merci inglesi, diventate più economiche per i consumatori europei e americani. Al contrario: nel 2008 il deficit commerciale britannico ha raggiunto nuovi record, a causa del pessimo andamento delle esportazioni.
La sterlina ai minimi storici riflette un’economia ridotta peggio di quella italiana. Gli ultimi dati fotografano un prodotto interno lordo in discesa dell’1,8%. Gli analisti della Economist Intelligence Unit stimano che nel 2009 l’economia britannica scenderà dell’1,7%, mentre per l’Italia e l’area dell’euro la discesa sarà, rispettivamente, dell’1,2 e dell’1,4%. I disoccupati aumentano e sono diventati quasi due milioni. Anche il debito statale cresce, e ormai vale 700 miliardi di sterline: poco meno di metà della ricchezza prodotta dalla Gran Bretagna in un anno. Il bilancio pubblico è in deficit costante, e risente degli aiuti concessi alle banche mandate al tappeto dalla crisi dei mutui.
Invece di reagire come la sua tradizione le imporrebbe, e cioè lasciare al loro destino le imprese fallite, ristrutturare quello che ancora si regge in piedi e approfittare della svalutazione per aggredire i mercati, la Gran Bretagna ha applicato in grande scala la ricetta interventista dell’Europa continentale. Il governo di Londra è stato il primo a statalizzare i grandi istituti travolti dalla crisi: ha iniziato con il colosso dei mutui Northern Rock, un anno fa, per proseguire con la società Bradford Bingley, la Bank of Scotland e il Lloyds Group. Seguendo l’esempio di Benito Mussolini, che creò l’Iri per salvare le banche italiane dalla crisi mondiale iniziata nel 1929, Gordon Brown ha istituito la Uk Financial Investments, società pubblica incaricata di gestire tutte queste nuove partecipazioni.
A questo punto non c’è davvero alcun motivo per cui i britannici debbano avere una moneta diversa da quella dell’Europa continentale. La presenza dello Stato nell’economia è accettata e incoraggiata come all’interno di Eurolandia. Gli indicatori economici sono simili, anzi peggiori in Gran Bretagna rispetto al resto d’Europa. Anche le paure sono le stesse, e lo confermano le proteste dei lavoratori inglesi contro i nostri connazionali. Il modello continentale ha avuto la meglio sugli inventori del libero mercato, e il cambio della moneta servirà solo a sancirlo definitivamente. Non è una buona notizia.
© Libero. Pubblicato il 3 febbraio 2009.