La morte di Solzhenitsyn e il silenzio di Napolitano

di Fausto Carioti

Una riflessione a voce alta. Un ricordo di quegli anni, l’ammissione di certi errori macroscopici. Una frase, magari non banale, sull’uomo che ha strappato il velo attraverso il quale milioni di italiani e di europei vedevano il comunismo. Ci si attendeva qualcosa del genere da Giorgio Napolitano. Invece, silenzio. Dal Quirinale non è giunta manco mezza parola a commentare la morte di Aleksandr Solzhenitsyn. Peccato. Perché di cose da dire Napolitano ne avrebbe molte, e di certo quando ha appreso della morte del grande scrittore russo tanti pensieri sono venuti alla mente del presidente della Repubblica. Solo che ha preferito tenerli per sé. Forse per pudore, o per imbarazzo, o perché oggi si vergogna di certe cose che aveva scritto all’epoca. Qualunque ne sia il motivo, il silenzio del Quirinale è una grande occasione persa per fare chiarezza e giustizia.

In Italia, Giorgio Napolitano fu uno dei grandi accusatori del dissidente russo. Era il 1974. Solzhenitsyn era stato appena spedito in esilio in Germania occidentale. Per lui, la peggiore delle punizioni: quattro anni prima si era rifiutato di andare a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la Letteratura, proprio perché temeva che le autorità sovietiche gli impedissero di tornare in patria. Il suo esilio fece discutere tutta l’Europa. Ken Coates, uno degli punti di riferimento della sinistra inglese, giudicò la punizione inflitta a Solzhenitsyn «un atto moralmente intollerabile». Anche il Pci dovette affrontare il fastidioso argomento. Impossibile ignorare Solzhenitsyn e ciò che rappresentava: l’anno prima, a Parigi, dove la stesura era giunta sfuggendo in modo romanzesco agli artigli del Cremlino, erano usciti i primi due libri di “Arcipelago Gulag”, minuziosa e monumentale inchiesta sui campi di concentramento sovietici, che Solzhenitsyn aveva avuto modo di conoscere sin troppo bene. Da allora, nessuno poteva più fingere di non sapere.

La linea del Pci la tracciò Napolitano, che all’epoca aveva 49 anni ed era il responsabile culturale del partito. In un articolo apparso sull’Unità il 20 febbraio difese la decisione del Cremlino. Quella tra «mondo comunista» e «mondo libero», premetteva Napolitano, è solo una «contrapposizione di comodo», poiché «il capitalismo e l’imperialismo tendono a ridurre l’uomo a semplice congegno di una macchina disumana e a manipolarne la coscienza». Quindi criticava lo scrittore per avere assunto un atteggiamento di «sfida» nei confronti dello stato sovietico. «Non c’è dubbio», sosteneva il futuro presidente della Repubblica, «che questo atteggiamento - al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici - di Solzhenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’Urss». Nonostante l’esilio fosse quindi una «grave misura restrittiva dei diritti individuali», a detta di Napolitano doveva ritenersi comunque la «soluzione migliore». Anche perché le opere di Solzhenitsyn erano «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre». Per inciso, l’autore di “Divisione Cancro” riuscì a tornare in patria solo dopo vent’anni.

Dal 1974 a oggi la storia ha dato drammaticamente torto a Napolitano e dimostrato che Solzhenitsyn era nel giusto. La morte di un avversario politico è l’occasione migliore (nonché l’ultima) per restituirgli pubblicamente ciò che non gli si è riconosciuto in vita. Purtroppo, il presidente della repubblica italiana non l’ha colta. L’imbarazzo cresce leggendo le parole di altri leader europei, come il cancelliere tedesco Angela Merkel, che ieri ha ricordato l’impegno del dissidente russo contro il dispotismo comunista, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, che lo ha commemorato come «una delle grandi coscienze della Russia del ventesimo secolo». Dichiarazioni di cordoglio che si uniscono a quelle del premier russo Vladimir Putin e del presidente Dmitri Medvedev.

Eppure, solo sabato, commentando l’anniversario della strage di Bologna, Napolitano aveva detto che bisogna «coltivare un dovere della memoria che si traduca in una rinnovata ampia assunzione di responsabilità per la difesa dei valori di democrazia, libertà e giustizia». Dopo poche ore si è scoperto invece che ci sono assunzioni di responsabilità che il Quirinale si rifiuta di prendere, e che certe volte l’oblìo è preferibile al «dovere della memoria».

© Libero. Pubblicato il 5 agosto 2008.

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