La crisi delle banche è un'opportunità per Berlusconi

di Fausto Carioti

Silvio Berlusconi deve le sue fortune imprenditoriali e politiche alla capacità di trasformare le crisi degli altri in opportunità per lui. È sempre stato così. Quando gli altri editori privati uscivano con le ossa rotte dai primi tentativi di fare concorrenza alla Rai, lui intuì la possibilità di creare nientemeno che un nuovo polo televisivo per abbattere il monopolio pubblico. Nel 1986 il Milan di Giussy Farina era sull’orlo del fallimento: Berlusconi lo comprò, vinse lo scudetto due anni dopo e ne fece un eccezionale veicolo di autopromozione. Nel 1994 del vecchio pentapartito abbattuto dalle inchieste giudiziarie restavano solo le macerie, su cui si preparavano a passare i cingoli della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Ma dove tanti vedevano un Paese rassegnato a finire in mano allo stato maggiore del vecchio Pci, lui vide milioni di voti alla disperata ricerca di qualcuno che tendesse la mano per raccoglierli. Ecco, ora Berlusconi crede di trovarsi in una di quelle situazioni cruciali, e farà tutto quello che gli è possibile per volgerla a suo vantaggio. Lo ha fatto capire ieri, annunciando le sue prossime strategie per risollevare l’economia.

Che la crisi attuale sia drammatica ormai lo ammettono tutti, persino il presidente del Consiglio. Anche le origini del male sono chiare: per coprirsi dai rischi assunti concedendo mutui immobiliari con troppa leggerezza, molti istituti americani hanno emesso per anni titoli ad alta redditività ed alto rischio. La redditività si è rivelata teorica. Il rischio, invece, si è dimostrato molto reale. Quando le rate dei mutui hanno iniziato a non essere più pagate, i titoli garantiti da quelle rate sono diventati spazzatura. Il problema è che nel frattempo questi titoli “tossici” avevano iniziato a girare per il mondo, e ora nessuno sa quanti ce ne siano né dove si trovino. Quanti ne hanno le banche europee ed italiane? Gli istituti di credito tacciono, e se parlano lo fanno per mandare messaggi tranquillizzanti. Ma sono sempre meno credibili. Sono gli stessi investitori a temere che il peggio debba ancora arrivare, e quindi spingono all’ingiù le quotazioni delle stesse banche e dell’intero listino azionario. Intanto girano dossier apocalittici, come il documento segreto preparato dalla Commissione europea per l’ultimo vertice dei ministri delle Finanze, che quantifica nella bellezza di 18mila miliardi di euro (il 44% del totale) gli asset delle banche europee a rischio di “tossicità”. Questa bomba a orologeria innescata sotto l’Europa è all’origine dell’enorme cautela di Giulio Tremonti. È proprio con questa argomentazione, infatti, che il ministro dell’Economia ha spiegato a Berlusconi che la detassazione delle tredicesime e gli altri provvedimenti necessari a ridare ossigeno all’economia, ma - almeno in prima battuta - capaci di aggravare il deficit statale, dovranno attendere. Però, appunto, laddove tutti vedono una crisi, Berlusconi è abituato a ricavarsi ghiotte opportunità.

«Stiamo cercando risposte definitive rispetto al sistema finanziario delle banche e agli investimenti cosiddetti tossici», ha annunciato ieri il premier. Spiegando che ci sono «diverse ipotesi sul tavolo», una delle quali è «la nazionalizzazione delle banche». Così, dopo esserne uscito all’epoca delle grandi privatizzazioni, lo Stato potrebbe rientrare nel capitale degli istituti di credito. Scimmiottando quanto fatto da Benito Mussolini, che nel 1933 creò l’Iri proprio per salvare la Banca commerciale, il Credito italiano e la Banca di Roma, messe in ginocchio dall’onda lunga della crisi americana del 1929. La stessa Iri e le tre banche d’interesse nazionale furono per sessant’anni, assieme all’Eni, gli strumenti principali con cui i governi italiani attuavano le loro politiche industriali. In serata, Berlusconi ha assicurato che l’eventualità di una nazionalizzazione «non riguarda le banche italiane», essendo solo una delle «tante proposte sul tavolo del G8». Ma il premier, a far entrare il governo nel capitale delle banche, ci tiene eccome. E ha già fatto un primo passo in questa direzione con i cosiddetti “Tremonti bond”, ovvero la possibilità che lo Stato acquisti le obbligazioni emesse dalle banche in affanno e, su richiesta di queste, le converta poi in azioni degli stessi istituti. Niente di eretico: in Gran Bretagna il governo di Londra ha già posto sotto controllo pubblico le società di mutui Northern Rock e Bradford & Bingley, la Bank of Scotland e il Lloyds Group.

Berlusconi è convinto che presto anche le banche italiane si troveranno con l’acqua alla gola e che molte di esse verranno a bussare alla porta del Tesoro con il piattino in mano. L’ingresso dello Stato nel loro capitale sarà utile al premier sotto molti punti di vista. Alcuni dei quali confessabili. Altri, meno. I primi li ha già riassunti ieri lo stesso Berlusconi. Il governo, riconquistato il controllo sulle banche, potrebbe «impegnarle a fornire credito alle imprese». Le aziende italiane, infatti, stanno inviando al premier continui segnali d’allarme: accedere ai prestiti è diventato proibitivo, e questo nuoce all’intera economia e all’occupazione. Le banche statalizzate, insomma, tornerebbero a essere il “braccio armato” della politica industriale del governo. Ottenere prestiti diventerebbe più facile e le imprese, specie quelle medie e piccole, vedrebbero scongiurato il rischio di morire di sottocapitalizzazione.

Questa, però, sarebbe solo una metà della storia. L’altra metà del racconto vede Berlusconi cogliere l’occasione del ritorno dello Stato nelle banche per togliersi di mezzo l’ultimo potere rimasto sulla sua strada. Tra lui e i grandi banchieri, infatti, il feeling non c’è mai stato. Quello che abbia potuto pensare di Giovanni Bazoli (Banca Intesa), Alessandro Profumo (Unicredit) e Giuseppe Mussari (Monte dei Paschi) quando un anno e mezzo fa li vide fare la fila ai seggi delle primarie del Partito democratico, è facile intuirlo. Ma non è tanto una questione politica. È che tra Berlusconi e gli ex poteri forti, che la crisi ha trasformato in poteri con le pezze al sedere, esiste una ostilità antropologica di vecchia data. Ancora oggi, ogni volta che possono, costoro si mettono di traverso rispetto al Cavaliere. Morto suicida il Partito democratico, la nazionalizzazione delle banche darebbe a Berlusconi l’occasione di chiudere per sempre anche quest’ultima partita, rimpiazzando i vertici degli istituti con personaggi più vicini a lui, o comunque non ostili. 

Ancora un volta, gran parte dell’opinione pubblica starebbe con il premier: nessuno piangerebbe per la sorte dei grandi banchieri, la gran parte dei quali si è dimostrata tanto abile nel gestire i propri compensi quanto avventata nel maneggiare il patrimonio affidato loro dai risparmiatori.

© Libero. Pubblicato il 20 febbraio 2009.

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