L'asse Lega-Pd è un problema per Berlusconi
di Fausto Carioti
Passano gli anni, ma Umberto Bossi resta un maestro nel gioco dello scambio di coppia. Appena dentro Forza Italia si palesano le prime preoccupazioni nei confronti del federalismo fiscale, appena quelli del PdL iniziano a chiedersi a voce alta quanto costerà la riforma voluta dalla Lega se non saranno accorpati i piccoli comuni e abolite le province (e nel testo attuale non vi è nulla che imponga simili misure), il leader del Carroccio risfodera il vecchio flirt con i post-comunisti. Al Senato, il Partito democratico sceglie di non votare contro il disegno di legge di Roberto Calderoli. «Siamo una forza che si assume le sue responsabilità», afferma Walter Veltroni rivendicando il merito di aver contribuito a migliorare il testo originario. «È stato fatto un lavoro importante con la sinistra. Senza la sinistra eravamo ancora in commissione», cinguetta Bossi in risposta - e in manco troppo celata polemica con gli alleati - prima di incassare l’approvazione del testo dall’aula di palazzo Madama.
Il messaggio del leader leghista al premier è chiaro. Ed ha un duplice significato. Primo: il federalismo fiscale non è un favore che il PdL sta facendo alla Lega, ma una grande riforma apprezzata anche dall’opposizione (cosa che non si può dire di tutte le riforme proposte dal governo). Secondo significato, dal retrogusto minaccioso: la Lega non ha mai interrotto il filo dei rapporti con il Pd, ed è pronta ad approfondire il discorso appena si rende conto che l’appoggio del PdL diventa freddo.
Bossi fa bene a diffidare. Per sapere cosa pensano tanti del PdL sul federalismo fiscale basta promettere la garanzia dall’anonimato. Ed è come aprire il vaso di Pandora. Un colonnello forzista, che in pubblico difende la riforma a spada tratta, a microfoni spenti svela uno scenario da mal di pancia collettivo: «All’interno di Forza Italia e An stiamo subendo il federalismo fiscale. Alla luce dei costi, della perequazione tra Nord e Sud, i nostri dubbi sono molti. Lo votiamo nell’interesse dalla coalizione, ma la Lega non ricambia. Noi ci sacrifichiamo e poi i leghisti vanno a dire che la vittoria è solo loro, per farsi campagna elettorale ai danni nostri». Paradossalmente, il federalismo fiscale lo stanno vivendo peggio i forzisti degli esponenti di An. I quali, almeno, portano a casa nuovi poteri per Roma capitale, a vantaggio del sindaco Gianni Alemanno.
Fatto sta che Berlusconi ieri pomeriggio è dovuto apparire in Senato al momento del voto finale, per assicurare tutti che con il federalismo «la pressione fiscale non dovrà aumentare, anzi diminuirà». Lo ha fatto per mettere il suo cappello sopra al provvedimento e far credere che la posizione di Bossi è anche la sua. Ma pure per far capire ai suoi deputati, che tra qualche tempo dovranno esaminare il disegno di legge di Calderoli, di stare allineati. Il voto di giugno, alle europee e alle amministrative, è troppo importante per continuare a dare agli elettori l’impressione di essersi trasformati in un’armata Brancaleone. Lui stesso, per primo, ha dato il buon esempio, facendo più di un passo indietro sulla nuova legge in materia di intercettazioni.
Resta solo da capire sino a che punto la Lega vuole spingere l’intesa con il Pd. Il federalismo fiscale portato avanti con l’appoggio del partito di Veltroni, secondo Calderoli, è «l’avvio di un percorso e di un metodo che può essere seguito per le altre riforme». Berlusconi si è detto pronto, ma in realtà non ha alcuna voglia di cercare l’accordo con il Pd sulle altre riforme, iniziando da quella della giustizia, se l’ovvio prezzo da pagare è rinunciare a parti importanti della legge. Per il premier la maggioranza deve essere autosufficiente. Gli altri, se vogliono unirsi, sono i benvenuti, ma non possono pretendere di cambiare i provvedimenti del centrodestra. La Lega, invece, gli ha fatto capire di avere molto a cuore il benestare del Pd. Per Berlusconi non è una buona notizia.
© Libero. Pubblicato il 23 gennaio 2009.
Passano gli anni, ma Umberto Bossi resta un maestro nel gioco dello scambio di coppia. Appena dentro Forza Italia si palesano le prime preoccupazioni nei confronti del federalismo fiscale, appena quelli del PdL iniziano a chiedersi a voce alta quanto costerà la riforma voluta dalla Lega se non saranno accorpati i piccoli comuni e abolite le province (e nel testo attuale non vi è nulla che imponga simili misure), il leader del Carroccio risfodera il vecchio flirt con i post-comunisti. Al Senato, il Partito democratico sceglie di non votare contro il disegno di legge di Roberto Calderoli. «Siamo una forza che si assume le sue responsabilità», afferma Walter Veltroni rivendicando il merito di aver contribuito a migliorare il testo originario. «È stato fatto un lavoro importante con la sinistra. Senza la sinistra eravamo ancora in commissione», cinguetta Bossi in risposta - e in manco troppo celata polemica con gli alleati - prima di incassare l’approvazione del testo dall’aula di palazzo Madama.
Il messaggio del leader leghista al premier è chiaro. Ed ha un duplice significato. Primo: il federalismo fiscale non è un favore che il PdL sta facendo alla Lega, ma una grande riforma apprezzata anche dall’opposizione (cosa che non si può dire di tutte le riforme proposte dal governo). Secondo significato, dal retrogusto minaccioso: la Lega non ha mai interrotto il filo dei rapporti con il Pd, ed è pronta ad approfondire il discorso appena si rende conto che l’appoggio del PdL diventa freddo.
Bossi fa bene a diffidare. Per sapere cosa pensano tanti del PdL sul federalismo fiscale basta promettere la garanzia dall’anonimato. Ed è come aprire il vaso di Pandora. Un colonnello forzista, che in pubblico difende la riforma a spada tratta, a microfoni spenti svela uno scenario da mal di pancia collettivo: «All’interno di Forza Italia e An stiamo subendo il federalismo fiscale. Alla luce dei costi, della perequazione tra Nord e Sud, i nostri dubbi sono molti. Lo votiamo nell’interesse dalla coalizione, ma la Lega non ricambia. Noi ci sacrifichiamo e poi i leghisti vanno a dire che la vittoria è solo loro, per farsi campagna elettorale ai danni nostri». Paradossalmente, il federalismo fiscale lo stanno vivendo peggio i forzisti degli esponenti di An. I quali, almeno, portano a casa nuovi poteri per Roma capitale, a vantaggio del sindaco Gianni Alemanno.
Fatto sta che Berlusconi ieri pomeriggio è dovuto apparire in Senato al momento del voto finale, per assicurare tutti che con il federalismo «la pressione fiscale non dovrà aumentare, anzi diminuirà». Lo ha fatto per mettere il suo cappello sopra al provvedimento e far credere che la posizione di Bossi è anche la sua. Ma pure per far capire ai suoi deputati, che tra qualche tempo dovranno esaminare il disegno di legge di Calderoli, di stare allineati. Il voto di giugno, alle europee e alle amministrative, è troppo importante per continuare a dare agli elettori l’impressione di essersi trasformati in un’armata Brancaleone. Lui stesso, per primo, ha dato il buon esempio, facendo più di un passo indietro sulla nuova legge in materia di intercettazioni.
Resta solo da capire sino a che punto la Lega vuole spingere l’intesa con il Pd. Il federalismo fiscale portato avanti con l’appoggio del partito di Veltroni, secondo Calderoli, è «l’avvio di un percorso e di un metodo che può essere seguito per le altre riforme». Berlusconi si è detto pronto, ma in realtà non ha alcuna voglia di cercare l’accordo con il Pd sulle altre riforme, iniziando da quella della giustizia, se l’ovvio prezzo da pagare è rinunciare a parti importanti della legge. Per il premier la maggioranza deve essere autosufficiente. Gli altri, se vogliono unirsi, sono i benvenuti, ma non possono pretendere di cambiare i provvedimenti del centrodestra. La Lega, invece, gli ha fatto capire di avere molto a cuore il benestare del Pd. Per Berlusconi non è una buona notizia.
© Libero. Pubblicato il 23 gennaio 2009.