La sinistra nel «nuovo mondo» di Obama
di Fausto Carioti
Il subcomandante Marcos, che da bravo rivoluzionario messicano conosce bene gli yankee, ci è arrivato già da qualche settimana: «Quelli che hanno preso Barack Obama per un faro resteranno delusi, perché il presidente eletto sostiene l’uso della forza contro il popolo palestinese». Ma se ti chiami Walter Veltroni e l’alternativa ai discorsi di Obama sono le interviste di Arturo Parisi, rinunciare a certi entusiasmi è difficile. Lo stesso vale per qualche milione di italiani che nel successore di George W. Bush cercano un antidepressivo che li tenga su nel lungo viaggio al termine della notte della sinistra. E però, a questo punto, s’imporrebbe un gesto di onestà intellettuale, una presa d’atto ufficiale della dolorosa realtà: Obama si candida ad essere una delle più grosse fregature che la sinistra italiana abbia mai comprato al mercatino americano.
Non è solo la questione israelo-palestinese. Obama sembra essersi messo d’impegno per deludere ogni aspettativa che i progressisti europei, nella loro beata ingenuità, avevano nutrito su di lui. Nella formazione del suo governo, in politica estera, nei diritti civili, in politica economica e persino, negli ultimi giorni, riguardo a quello che per la sinistra rappresenta il pozzo degli orrori di Bush: il carcere di Guantanamo.
Già in campagna elettorale, il candidato democratico era stato ben diverso da quella caricatura di sessantottino che ci avevano rivenduto le sue cheerleader italiane. Era stato cautissimo, ad esempio, sul ritiro dei marines dall’Iraq, dicendo che ci sarebbero voluti sedici mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca per portare a termine la delicata operazione, che dovrebbe quindi concludersi a metà del 2010. Bush si era posto come termine il 2011: differenze non poi così grandi. In compenso, Obama aveva messo subito in chiaro di voler intensificare lo sforzo bellico in Afghanistan. Quanto all’energia, accanto agli investimenti in fonti alternative di cui tutti hanno parlato, il suo decalogo elettorale prevedeva di puntare sul carbone pulito (quello che secondo gli ecologisti italiani non esiste) e sul solito nucleare. Ma questo nessuno sembrava averlo notato. Già che c’era, Obama aveva provveduto a chiarire cosa intende per matrimonio: «Un’unione tra un uomo e una donna. Come cristiano, per me è anche un’unione sacra». Per la gioia di papa Ratzinger e lo scorno di tante coppie omosessuali convinte che lo slogan obamiano «Change we need» riguardasse anche il loro riconoscimento.
Ma i colpi più duri per la sinistra sono arrivati dopo il voto. Mentre il Pd tappezzava le città italiane di manifesti con la foto di Obama e la scritta «Il mondo cambia», mentre l’Unità titolava in prima pagina «Nuovo mondo» e il Manifesto, per distinguersi, titolava «Il mondo nuovo», il neoeletto presidente decideva che tutto questo bisogno di cambiare forse non c’era. Tant’è che confermava al suo posto nientemeno che il segretario alla Difesa di Bush, Robert Gates, l’uomo che ha gestito la seconda fase della guerra in Iraq e in Afghanistan. Come segretario di Stato, ovvero ministro degli Esteri, sceglieva poi Hillary Clinton, alla quale i pacifisti non hanno mai perdonato di aver votato in favore della missione in Iraq.
Negli stessi giorni imbottiva la sua squadra di economisti liberisti. «Scelte che hanno frustrato profondamente i liberal che pensavano che l’elezione di Obama segnasse l’avvento di una nuova era progressista», ha commentato amaro il New York Times. Scelte «rassicuranti», ha gongolato il conservatore Karl Rove, re degli strateghi elettorali di Bush, spargendo sale sulle ferite dei progressisti. Le perplessità dei santoni liberal americani hanno fatto presto a trasformarsi in critiche: Paul Krugman, sopravvalutato premio Nobel per l’Economia, ha bocciato il piano di Obama contro la crisi perché contiene poca spesa pubblica e troppi sgravi fiscali. In altre parole perché è troppo liberista.
Le ultime (per ora) delusioni Obama le ha date al suo popolo domenica, in diretta televisiva. Ha detto che la riforma della sanità e quella della previdenza, che dovevano aiutare i ceti più deboli e sulle quali aveva puntato gran parte della sua campagna elettorale, per adesso non si fanno. I soldi sono pochi e il taglio delle tasse, in questo momento, è più importante di tutto. Scelta che dà fastidio a molti, ma forse prevedibile, visto l’acuirsi della crisi economica. Lo stesso non si può dire, però, dell’annuncio su Guantanamo. Tanti “obamaniacs”, incluso il tedesco Martin Schulz (il «kapò» del litigio con Silvio Berlusconi), leader del Partito socialista al parlamento europeo, avevano chiesto al nuovo presidente di chiudere subito il carcere cubano in cui la Cia trattiene 242 islamici accusati di terrorismo. Ed è logico attendersi da Obama un gesto simbolico che dia, soprattutto a chi lo ha votato, l’impressione del cambiamento. Alcuni suoi collaboratori, ancora ieri, assicuravano che l’ordine di chiusura di Guantanamo arriverà nelle prime ore della sua presidenza. Obama però domenica era stato chiaro e aveva spiegato che bisognerà attendere: «È più difficile di quanto molta gente possa immaginare. Credo che ci vorrà un po’ di tempo». Tanto che la chiusura del carcere non avverrà nei primi cento giorni del suo mandato. Per leggere la notizia di questo voltafaccia, sull’Unità di ieri bisognava scovare un minuscolo trafiletto a pagina 23. L’impatto col «nuovo mondo» di Obama, per molta gente, si annuncia meno facile del previsto.
© Libero. Pubblicato il 13 gennaio 2009.
Il subcomandante Marcos, che da bravo rivoluzionario messicano conosce bene gli yankee, ci è arrivato già da qualche settimana: «Quelli che hanno preso Barack Obama per un faro resteranno delusi, perché il presidente eletto sostiene l’uso della forza contro il popolo palestinese». Ma se ti chiami Walter Veltroni e l’alternativa ai discorsi di Obama sono le interviste di Arturo Parisi, rinunciare a certi entusiasmi è difficile. Lo stesso vale per qualche milione di italiani che nel successore di George W. Bush cercano un antidepressivo che li tenga su nel lungo viaggio al termine della notte della sinistra. E però, a questo punto, s’imporrebbe un gesto di onestà intellettuale, una presa d’atto ufficiale della dolorosa realtà: Obama si candida ad essere una delle più grosse fregature che la sinistra italiana abbia mai comprato al mercatino americano.
Non è solo la questione israelo-palestinese. Obama sembra essersi messo d’impegno per deludere ogni aspettativa che i progressisti europei, nella loro beata ingenuità, avevano nutrito su di lui. Nella formazione del suo governo, in politica estera, nei diritti civili, in politica economica e persino, negli ultimi giorni, riguardo a quello che per la sinistra rappresenta il pozzo degli orrori di Bush: il carcere di Guantanamo.
Già in campagna elettorale, il candidato democratico era stato ben diverso da quella caricatura di sessantottino che ci avevano rivenduto le sue cheerleader italiane. Era stato cautissimo, ad esempio, sul ritiro dei marines dall’Iraq, dicendo che ci sarebbero voluti sedici mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca per portare a termine la delicata operazione, che dovrebbe quindi concludersi a metà del 2010. Bush si era posto come termine il 2011: differenze non poi così grandi. In compenso, Obama aveva messo subito in chiaro di voler intensificare lo sforzo bellico in Afghanistan. Quanto all’energia, accanto agli investimenti in fonti alternative di cui tutti hanno parlato, il suo decalogo elettorale prevedeva di puntare sul carbone pulito (quello che secondo gli ecologisti italiani non esiste) e sul solito nucleare. Ma questo nessuno sembrava averlo notato. Già che c’era, Obama aveva provveduto a chiarire cosa intende per matrimonio: «Un’unione tra un uomo e una donna. Come cristiano, per me è anche un’unione sacra». Per la gioia di papa Ratzinger e lo scorno di tante coppie omosessuali convinte che lo slogan obamiano «Change we need» riguardasse anche il loro riconoscimento.
Ma i colpi più duri per la sinistra sono arrivati dopo il voto. Mentre il Pd tappezzava le città italiane di manifesti con la foto di Obama e la scritta «Il mondo cambia», mentre l’Unità titolava in prima pagina «Nuovo mondo» e il Manifesto, per distinguersi, titolava «Il mondo nuovo», il neoeletto presidente decideva che tutto questo bisogno di cambiare forse non c’era. Tant’è che confermava al suo posto nientemeno che il segretario alla Difesa di Bush, Robert Gates, l’uomo che ha gestito la seconda fase della guerra in Iraq e in Afghanistan. Come segretario di Stato, ovvero ministro degli Esteri, sceglieva poi Hillary Clinton, alla quale i pacifisti non hanno mai perdonato di aver votato in favore della missione in Iraq.
Negli stessi giorni imbottiva la sua squadra di economisti liberisti. «Scelte che hanno frustrato profondamente i liberal che pensavano che l’elezione di Obama segnasse l’avvento di una nuova era progressista», ha commentato amaro il New York Times. Scelte «rassicuranti», ha gongolato il conservatore Karl Rove, re degli strateghi elettorali di Bush, spargendo sale sulle ferite dei progressisti. Le perplessità dei santoni liberal americani hanno fatto presto a trasformarsi in critiche: Paul Krugman, sopravvalutato premio Nobel per l’Economia, ha bocciato il piano di Obama contro la crisi perché contiene poca spesa pubblica e troppi sgravi fiscali. In altre parole perché è troppo liberista.
Le ultime (per ora) delusioni Obama le ha date al suo popolo domenica, in diretta televisiva. Ha detto che la riforma della sanità e quella della previdenza, che dovevano aiutare i ceti più deboli e sulle quali aveva puntato gran parte della sua campagna elettorale, per adesso non si fanno. I soldi sono pochi e il taglio delle tasse, in questo momento, è più importante di tutto. Scelta che dà fastidio a molti, ma forse prevedibile, visto l’acuirsi della crisi economica. Lo stesso non si può dire, però, dell’annuncio su Guantanamo. Tanti “obamaniacs”, incluso il tedesco Martin Schulz (il «kapò» del litigio con Silvio Berlusconi), leader del Partito socialista al parlamento europeo, avevano chiesto al nuovo presidente di chiudere subito il carcere cubano in cui la Cia trattiene 242 islamici accusati di terrorismo. Ed è logico attendersi da Obama un gesto simbolico che dia, soprattutto a chi lo ha votato, l’impressione del cambiamento. Alcuni suoi collaboratori, ancora ieri, assicuravano che l’ordine di chiusura di Guantanamo arriverà nelle prime ore della sua presidenza. Obama però domenica era stato chiaro e aveva spiegato che bisognerà attendere: «È più difficile di quanto molta gente possa immaginare. Credo che ci vorrà un po’ di tempo». Tanto che la chiusura del carcere non avverrà nei primi cento giorni del suo mandato. Per leggere la notizia di questo voltafaccia, sull’Unità di ieri bisognava scovare un minuscolo trafiletto a pagina 23. L’impatto col «nuovo mondo» di Obama, per molta gente, si annuncia meno facile del previsto.
© Libero. Pubblicato il 13 gennaio 2009.