Il femminismo incapace di vedere l'Islam

Incapaci di spiegare a se stessi e agli altri come la weltanschauung islamica possa essere all'origine dell'omicidio di una figlia da parte del proprio padre (sarebbe un colpo troppo duro colpo per il credo relativista), a sinistra alcuni hanno provato a raccontare l'assassinio della povera Hina seguendo categorie più congeniali agli schemi di casa. Hanno deciso che la chiave che fornisce la spiegazione al crimine di Brescia non è quella religiosa (ipotesi che per motivi culturali, legati al ruolo storico della donna nell'Islam, e purtroppo anche per motivi di cronaca quotidiana, appare ben corroborata), ma quella, molto più politicamente corretta, del crimine sessista. La motivazione dell'omicida, in altre parole, sarebbe derivata non dal suo essere islamico, ma dal suo essere padre, cioè maschio.

Specie su Liberazione e sul Manifesto si è assistito così a lunghe articolesse scritte senza lasciare inutilizzato alcun luogo comune del gender feminism, nelle quali l'uso di termini caratterizzanti dal punto di vista religioso, come "musulmano" o "Islam", è stato spesso ridotto al minimo, e comunque schiacciato dalla preferenza per espressioni come "omicidio d'onore", "maschi di famiglia", "ordinaria brutalità patriarcale". Tutto questo per spiegare che la morte della povera Hina non è l'ennesimo caso di mancata integrazione, non è il riproporsi alle cronache di una donna vittima di una religione oscurantista (almeno così come intesa da tanti suoi credenti), ma solo un nuovo capitolo della «drammatica vicenda planetaria della guerra contro le donne», come la chiama Liberazione. Uno di questi articoli, apparso proprio sul quotidiano rifondarolo, per relativizzare il più possibile il delitto di Brescia e argomentare che il problema della sopraffazione femminile che ha condotto alla morte di Hina riguarda anche noi italiani, ha citato con tono scandalizzato aforismi nostrani tipo «donne e buoi dei paesi tuoi», «chi dice donna dice danno» e l'esecrabile «auguri e figli maschi».

Ora, però, ha parlato la madre di Hina. Repubblica riporta le sue frasi. «Muhammed», cioè il padre omicida, dice la madre dell'uccisa, «ha fatto giustizia», perché Hina «non si comportava da brava musulmana, anche se suo padre non l'ha mai picchiata, né ha mai abusato di lei». Chi ha ascoltato il suo racconto, scrive Repubblica, «ha avuto l'impressione di una donna che cercasse solo di fare il suo dovere, denunciando suo marito. Ma senza alcuna vera accusa nei suoi confronti. La colpa, nelle parole della madre, era di Hina, non di Muhammed».

Non siamo, dunque, davanti a una guerra planetaria tra sessi nella quale le donne sono schiacciate. Siamo davanti a una cultura che rifiuta ogni tipo di integrazione con le libertà occidentali, e che sceglie a mente lucida la morte per chi (familiari compresi!), rifiutando la "sottomissione" per abbracciare queste libertà, non si comporta «da bravo musulmano». Una cultura che quasi sempre è tanto forte e pervasiva da essere condivisa dalle stesse donne anche nei suoi aspetti più misogini. Una cultura che di certo legittima il "patriarcato tradizionalista", come piace chiamarlo alle femministe, ma che è assai più forte di esso e che non si esaurisce in esso, perché va molto, molto oltre. Tu chiamala, se vuoi, islamismo.

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