A cosa serve il petrolio, a cosa non servono i petrodollari

Avete presente tutte quelle belle frasi preconfezionate sul fatto che il resto del mondo è povero perché noi ricchi occidentali sfruttiamo le loro risorse? Certo che le avete presenti, è quello che dicono tutti: è uno di quei refrain che trovate, in egual misura, sulla bocca di Bin Laden e negli articoli dei tanti giornalisti e intellettuali terzomondisti. Ora, prendiamo il petrolio. Lo usiamo per andare in auto, certo, ma anche per guardare la televisione e usare il telefono cellulare, visto che il petrolio è uno dei combustibili più usati nelle centrali elettriche, specie in Italia (un giorno ne parleremo...). Dunque, fosse vero che la colpa è nostra, in quei Paesi in cui da decenni piovono le royalty del petrolio le cose dovrebbero andare alla grande: scuole efficentissime, acqua potabile per tutti, centri di ricerca all'avanguardia, programmi sociali da fare invidia alle socialdemocrazie europee. Bello, vero? Solo che non è così. Nei paesi produttori di petrolio, scuole, infrastrutture, ricerca e welfare fanno semplicemente schifo. Per non parlare di quel corollario chiamato rispetto dei diritti umani. Lo scempio è tale che se ne sono accorte persino le Nazioni Unite. Ecco come (non) vengono usati i soldi che noi spendiamo per il petrolio, quello che ieri è arrivato a 67,35 dollari al barile.

Allah è grande e il greggio è il suo profeta. Il conto l'ha fatto la Arab Bank, quindi ci si può fidare: dal 1974 al 1998 il petrolio ha portato nelle casse dei Paesi arabi 25.500 miliardi di dollari. Spalmati sui 285 milioni di arabi, bambini compresi, fanno 91.000 dollari a testa. Fosse piovuta sui governi occidentali, questa valanga di fantastiliardi avrebbe prodotto nell'ordine: 1) la prevedibile corsa al magna magna da parte dei politici locali (quanto e come dipende dal Paese); 2) un vistoso incremento della spesa pubblica, sotto forma di nuove infrastrutture, programmi di welfare, leggi e leggine più o meno clientelari; 3) il ritorno in circolo di parte di questi soldi, a maggior gloria della crescita dell'economia e della ricchezza di tutti. Però quei soldi sono finiti ai governanti dei Paesi arabi, e il risultato ora è lì davanti agli occhi del mondo: l'arricchimento personale c'è tutto, mentre degli investimenti in beni materiali (ospedali, scuole, acquedotti) o immateriali (ricerca e sviluppo, cultura, parità tra i sessi) o di una qualche forma di redistribuzione, manco l'ombra.
Parte di quei soldi è servita a comprare le armi che hanno reso la regione ancora più instabile. I Paesi arabi sono i primi acquirenti di armi del pianeta, grazie a un esborso annuo di 45 miliardi di dollari. In tutto, per le spese militari se ne va il 7,5% del loro reddito nazionale: cinque punti sopra la media mondiale. Soldi che servono a rendere Medio Oriente e dintorni l’area più instabile del pianeta, quindi ad altissimo rischio anche per gli investimenti. Per capire che fine abbia fatto il resto dei soldi, forse più che alle statistiche vale la pena di affidarsi alle notizie di cronaca. Qualche spunto qua e là: un emiro del Brunei, nel '94, acquistò 19 Ferrari. Un suo vicino di casa, sceicco del Qatar, a Maranello ha pensato bene di farsi costruire il van che trasporta i cavalli . Un principe di Dubai ha preteso rubinetti d'oro sul suo Boeing 737 personale, così come d'oro erano i rubinetti della villa del figlio di Saddam.
L'aneddotica è lunga e proverbiale e stride con le condizioni di vita dell'arabo medio. Dal 2003, con cadenza annuale, le Nazioni unite hanno iniziato a pubblicare il loro Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo. Conoscendo la suscettibilità dei personaggi, ne hanno affidato la preparazione a un team di ricercatori arabi. Il quadro che ne esce è comunque drammatico. Mentre i cavalli degli sceicchi viaggiano in Ferrari, oggi un arabo su cinque è costretto a tirare avanti con meno di due euro al giorno. Le royalty petrolifere non sono state investite nell'istruzione: 10 milioni di bambini arabi non frequentano la scuola e sono attesi da un futuro di miseria e ignoranza, facili prede di ideologie estremistiche capaci di aizzarli contro la parte più ricca del mondo; 65 milioni di arabi (il 23 per cento del totale) sono analfabeti, e due terzi di questi sono donne. Nonostante ciò, la spesa per l'educazione è in calo.
Nessun investimento degno di questo nome in Ricerca e Sviluppo, cui va solo lo 0,2% del Pil, per di più quasi tutto alla voce “salari”, cioè per mantenere burocrati di Stato che con la scienza non hanno nulla a che fare. In proporzione al reddito nazionale, il mondo arabo dedica alla ricerca una quota che è un settimo della media mondiale. Il risultato è che, in venti anni, dai Paesi arabi sono stati registrati appena 370 brevetti, contro i 7.652 del solo Stato di Israele.
Le infrastrutture essenziali restano un miraggio. Su 22 Paesi arabi, 15 figurano tra quelli che non possono garantire ai loro abitanti il minimo d'acqua necessario a una vita decente. Quanto alla spesa sanitaria, nel mondo arabo è ferma al 4% del reddito nazionale, contro una media mondiale del 5,7%. Intanto la disoccupazione ha superato il 15%, l'età media della popolazione continua a scendere e oltre metà dei giovani arabi interpellati dai ricercatori delle Nazioni unite dice chiaro e tondo di voler emigrare nei Paesi occidentali.
Il petrolio continuerà a garantire rendite cospicue ancora per qualche decennio: in molti Paesi occidentali il combustibile nucleare è ritenuto politicamente scorretto, mentre l’idrogeno sta muovendo adesso i primi passi. I Paesi arabi dichiarano di avere nel loro sottosuolo il 61% delle riserve accertate di greggio, che rappresentano una garanzia di ricchezza per il futuro prossimo. Ma anche il petrolio, presto o tardi, finirà o diventerà estraibile solo ad alti costi, se non sarà rimpiazzato prima da un’altra fonte di energia. Dopo che questo accadrà, difficilmente passeranno altri treni per lo sviluppo del mondo arabo.
(basato su un mio articolo pubblicato su Libero il 13 aprile 2004)

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