Il discorso controcorrente di Renato Brunetta
di Fausto Carioti
Tra tanti discorsi fotocopiati e tante orazioni con la fanfara, l’intervento fatto ieri mattina da Renato Brunetta sul palco del congresso del Popolo della libertà ha avuto il merito di essere genuino, privo di dolcificanti e aromi artificiali. Il ministro per la Pubblica amministrazione voleva dire la sua verità e l’ha detta, non prima di aver ceduto alle lacrime davanti alla standing ovation che gli ha tributato la platea ancora prima che iniziasse a parlare. Eppure, dal momento in cui ha aperto bocca, non ha fatto nulla per cercare l’applauso facile. Anzi.
Si è persino tolto il gusto di essere ruvido davanti ai suoi tifosi. Mentre tanti cloni berlusconiani che hanno parlato prima e dopo di lui hanno diviso il Paese a metà, con i “buoni” dalla loro parte e i “cattivi” dall’altra, Brunetta ha fatto l’esatto opposto, scegliendo di accarezzare la platea contropelo. «Sarebbe troppo facile dire “loro” e “noi”. Dobbiamo avere il coraggio di guardare al nostro interno, alle nostre imperfezioni, alla nostra incapacità di rappresentare sino in fondo questa Italia. Anche noi siamo pieni di egoismi e di retaggi del passato. Siamo rivoluzionari pieni di difetti», ha detto il ministro. E già non è cosa normale sentire parlare della «incapacità» del centrodestra in una kermesse organizzata dal Cavaliere.
Ma il ruspante Brunetta è andato oltre. A differenza di altri suoi colleghi, non ha voluto atteggiarsi a quello che ha già risolto tutti i problemi. Al contrario, ha ammesso senza giri di parole che il grosso del lavoro è ancora da fare: «Da noi lo Stato non funzionava e non funziona. I guasti che avevamo e che ancora abbiamo vanno affrontati a brutto muso, senza subire il ricatto di presunte forze sociali, talora per niente rappresentative». Ha riconosciuto quello che è sotto gli occhi di tutti, ma che ieri non stava bene dire, e cioè che il Pdl sta elaborando «con fatica» le sue idee.
Ha voluto rompere uno dei tabù del Cavaliere, quando ha riconosciuto che una certa dose di jella grava sopra palazzo Chigi: «Siamo un po’ sfigati, ogni volta che andiamo al governo noi c’è la crisi». Senza rovinare la liturgia del congresso, ha poi risposto a chi, come Gianfranco Fini e Giulio Tremonti, sostiene che la crisi in atto imponga di ripensare il libero mercato. Manco per sogno, risponde Brunetta: «Non è la crisi del capitalismo o della globalizzazione, ma è una crisi di crescita. Servono forze politiche che sappiano immaginare nuove regole e non desiderino la regressione protezionista». Alle facili apologie della libertà, il ministro per la Pubblica amministrazione ha replicato sfoderando l’etica della responsabilità: «Questa crisi è il test della nostra capacità di governo. È una sfida a noi». Ha concluso chiamando l’esecutivo e il PdL a combattere «la vera lotta di classe del nostro tempo, quella del buon lavoro e del buon capitale contro la classe sfruttatrice delle burocrazie parassitarie». Più tardi, in sala stampa, aggiungerà il carico da undici sulla prosopopea meridionalista sfoggiata da certi suoi colleghi di partito: «Basta con il piagnonismo del Sud, i meridionali si riprendano la loro libertà e si responsabilizzino».
Insomma, Brunetta ha servito ai suoi ascoltatori un piatto tutt’altro che facile da digerire. Niente di nuovo: dal palco della convention forzista di Gubbio, nel settembre del 2005, aveva preso di mira nientemeno che Carlo Azeglio Ciampi (all’epoca presidente della Repubblica), il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni, Gianni Letta e il ministro Domenico Siniscalco. Ieri, al confronto, è stato un agnellino. Il copione, però, è rimasto lo stesso: Brunetta parla fuori dal coro e la platea lo sommerge di applausi. E poi dicono che per i tipi schietti non c’è spazio dentro al partito di Berlusconi.
© Libero. Pubblicato il 29 marzo 2009.
Tra tanti discorsi fotocopiati e tante orazioni con la fanfara, l’intervento fatto ieri mattina da Renato Brunetta sul palco del congresso del Popolo della libertà ha avuto il merito di essere genuino, privo di dolcificanti e aromi artificiali. Il ministro per la Pubblica amministrazione voleva dire la sua verità e l’ha detta, non prima di aver ceduto alle lacrime davanti alla standing ovation che gli ha tributato la platea ancora prima che iniziasse a parlare. Eppure, dal momento in cui ha aperto bocca, non ha fatto nulla per cercare l’applauso facile. Anzi.
Si è persino tolto il gusto di essere ruvido davanti ai suoi tifosi. Mentre tanti cloni berlusconiani che hanno parlato prima e dopo di lui hanno diviso il Paese a metà, con i “buoni” dalla loro parte e i “cattivi” dall’altra, Brunetta ha fatto l’esatto opposto, scegliendo di accarezzare la platea contropelo. «Sarebbe troppo facile dire “loro” e “noi”. Dobbiamo avere il coraggio di guardare al nostro interno, alle nostre imperfezioni, alla nostra incapacità di rappresentare sino in fondo questa Italia. Anche noi siamo pieni di egoismi e di retaggi del passato. Siamo rivoluzionari pieni di difetti», ha detto il ministro. E già non è cosa normale sentire parlare della «incapacità» del centrodestra in una kermesse organizzata dal Cavaliere.
Ma il ruspante Brunetta è andato oltre. A differenza di altri suoi colleghi, non ha voluto atteggiarsi a quello che ha già risolto tutti i problemi. Al contrario, ha ammesso senza giri di parole che il grosso del lavoro è ancora da fare: «Da noi lo Stato non funzionava e non funziona. I guasti che avevamo e che ancora abbiamo vanno affrontati a brutto muso, senza subire il ricatto di presunte forze sociali, talora per niente rappresentative». Ha riconosciuto quello che è sotto gli occhi di tutti, ma che ieri non stava bene dire, e cioè che il Pdl sta elaborando «con fatica» le sue idee.
Ha voluto rompere uno dei tabù del Cavaliere, quando ha riconosciuto che una certa dose di jella grava sopra palazzo Chigi: «Siamo un po’ sfigati, ogni volta che andiamo al governo noi c’è la crisi». Senza rovinare la liturgia del congresso, ha poi risposto a chi, come Gianfranco Fini e Giulio Tremonti, sostiene che la crisi in atto imponga di ripensare il libero mercato. Manco per sogno, risponde Brunetta: «Non è la crisi del capitalismo o della globalizzazione, ma è una crisi di crescita. Servono forze politiche che sappiano immaginare nuove regole e non desiderino la regressione protezionista». Alle facili apologie della libertà, il ministro per la Pubblica amministrazione ha replicato sfoderando l’etica della responsabilità: «Questa crisi è il test della nostra capacità di governo. È una sfida a noi». Ha concluso chiamando l’esecutivo e il PdL a combattere «la vera lotta di classe del nostro tempo, quella del buon lavoro e del buon capitale contro la classe sfruttatrice delle burocrazie parassitarie». Più tardi, in sala stampa, aggiungerà il carico da undici sulla prosopopea meridionalista sfoggiata da certi suoi colleghi di partito: «Basta con il piagnonismo del Sud, i meridionali si riprendano la loro libertà e si responsabilizzino».
Insomma, Brunetta ha servito ai suoi ascoltatori un piatto tutt’altro che facile da digerire. Niente di nuovo: dal palco della convention forzista di Gubbio, nel settembre del 2005, aveva preso di mira nientemeno che Carlo Azeglio Ciampi (all’epoca presidente della Repubblica), il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni, Gianni Letta e il ministro Domenico Siniscalco. Ieri, al confronto, è stato un agnellino. Il copione, però, è rimasto lo stesso: Brunetta parla fuori dal coro e la platea lo sommerge di applausi. E poi dicono che per i tipi schietti non c’è spazio dentro al partito di Berlusconi.
© Libero. Pubblicato il 29 marzo 2009.