McDonald’s è meglio del no profit

di Fausto Carioti

Mentre la sinistra slow food si agita per il licenziamento del fondatore del Gambero Rosso, Stefano Bonilli, da parte dei nuovi proprietari della testata, quelli che della sinistra dovrebbero essere la base - disoccupati, dipendenti a basso reddito, studenti più o meno squattrinati, immigrati - li trovi in fila nei fast food McDonald’s. Dove con 5 euro e 70 centesimi si mettono in pancia un panino con hamburger doppio, patatine e Coca Cola. Altro che welfare state, altro che enti no-profit: se essere “di sinistra” significa sfamare chi ha bisogno, la multinazionale americana, quotata a New York, Tokyo, Francoforte e altre Borse del mondo, si candida a essere l’istituzione più a sinistra dell’Occidente.

Di più: i numeri forniti nei giorni scorsi dall’azienda del Big Mac sulle vendite di agosto dimostrano che nei momenti di crisi economica come quello attuale la grande industria del cibo fondata da Ray Kroc nel 1955 è una delle poche ancore di salvezza rimaste al ceto medio in affanno. Mentre ovunque i consumi si contraggono (o nella migliore delle ipotesi ristagnano), lo scorso mese i trentunomila ristoranti McDonald’s sparsi per il mondo hanno visto le loro vendite balzare in avanti dell’8,5% rispetto all’anno precedente. A fare da traino è stata proprio l’Europa, dove l’incremento è stato dell’11,6%. Il motivo è semplice: la crisi ha colpito il vecchio continente più che le altre aree del pianeta, e McDonald’s, con i suoi hamburger low cost, è diventato per milioni di europei l’alternativa più dignitosa al ristorante con coperto e servizio. Insomma, la “M” gialla in campo rosso è a tutti gli effetti uno degli ultimi ammortizzatori sociali che ancora funzionano. E il bello è che, invece di pesare sulle spalle dei contribuenti, genera ricchezza per i suoi azionisti da mezzo secolo a questa parte. Anche ieri, con le Borse mondiali affossate dal crack della banca d’affari americana Lehman Brothers, a Wall Street il titolo McDonald’s ha retto bene l’urto.

Non si tratta di un successo raggiunto per caso, ma di una precisa scelta di mercato. Allo scopo di limitare l’aumento dei prezzi, spinti all’insù dal rialzo del petrolio e di tutte le materie prime, nei mesi scorsi alcuni ristoranti McDonald’s d’oltreoceano avevano addirittura iniziato a ridurre gli ingredienti del panino. «Sappiamo che i nostri clienti si trovano a dover affrontare tempi difficili», aveva spiegato agli inizi di agosto Don Thompson, presidente della divisione a stelle e strisce della multinazionale. Ma frenando i rincari si rischia di portare nei ristoranti troppi clienti squattrinati, che generano profitti minimi. I gestori di alcuni franchising americani se ne sono lamentati con la casa madre, dove però c’è la consapevolezza che in momenti come questo, se si vuole continuare a fare soldi, bisogna concentrarsi sul numero dei clienti più che sui margini di profitto di ogni prodotto.

Dalla globalizzazione, della quale McDonald’s è uno dei simboli più importanti, possono quindi arrivare buone notizie per i consumatori persino in tempi di crisi economica. A conti fatti, quando il gioco si fa duro, i giovani dallo stipendio incerto e le altre categorie più deboli è dentro a un McDonald’s o a un negozio Ikea che si rivolgono per mettere insieme il pranzo con la cena o per arredare casa senza svenarsi, non certo agli sportelli degli enti pubblici.

Guarda caso, la stessa McDonald’s che vende gli hamburger a un euro è oggetto da anni delle aggressioni di quella sinistra che pretende di parlare a nome di coloro che hanno pochi soldi in tasca. Il fatto che questi ultimi riempiano i ristoranti della catena americana, i cui affari vanno a gonfie vele, e abbiano abbandonato al loro destino i no-global e i partiti ad essi vicini, come i Verdi e i comunisti, qualche dubbio dovrebbe metterlo.

© Libero. Pubblicato il 16 settembre 2008.

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