Anche De Benedetti scarica Veltroni
di Fausto Carioti
Gli elettori sono tutti uguali, specie a sinistra. Ma alcuni, pure lì, sono un po' più uguali degli altri. Carlo De Benedetti, ad esempio, non è un qualunque elettore del partito democratico. Non tanto per il suo patrimonio o per il fatto di essere l'editore di Repubblica, dell'Espresso e di una sfilza di quotidiani locali, tutti più o meno simpatizzanti per il centrosinistra. Ma perché lui, l'Ingegnere, del Pd è stato un po' il padre che gli ha trasmesso la scintilla della vita, un po' l'ostetrica che l'ha aiutato a venire al mondo. Amante della politica intesa come confronto tra grandi progetti, innamorato della democrazia americana, di convinzioni solidamente liberal (anche se questo non gli impedisce di essere amico del repubblicano George Bush, padre dell'attuale presidente americano), De Benedetti viaggia dieci anni in anticipo rispetto alla classe politica del centrosinistra italiano. È stato lui il primo a spingere, seguito dai suoi giornali, affinché anche dalle nostre parti si creasse qualcosa di simile al grande partito che fu di Thomas Jefferson e di Franklin Delano Roosevelt, e che ora prova a lanciare Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Così, le parole con cui ieri De Benedetti ha detto di non avere alcuna intenzione di prendere la tessera del partito democratico di Walter Veltroni, malgrado la “normalità” con cui lui stesso cerchi di avvolgerle, hanno il sapore amaro del sogno che si rompe. E suonano come l'ennesimo attestato ufficiale di delusione recapitato all'indirizzo del segretario del Pd.
Tre anni fa la musica era molto diversa. Era il 30 novembre del 2005. Al governo c'era Silvio Berlusconi, ma si sarebbe votato di lì a pochi mesi e già si dava per scontato l'arrivo di Romano Prodi a palazzo Chigi, come infatti avvenne. Il Pd era ancora un disegno abbozzato. De Benedetti si presentò al convegno di “Idee”, una fondazione vicina alla Margherita, per discuterne proprio con Veltroni e con Francesco Rutelli, i due esponenti del centrosinistra più coinvolti nel progetto. Il giorno dopo, i quotidiani titolarono che De Benedetti aveva prenotato la tessera numero 1 del futuro partito. In realtà il presidente della Cir aveva detto qualcosa di un po' più complesso. Lo spiegò bene - per ovvi motivi - proprio la cronaca di Repubblica. Rileggiamola: rivolto a Veltroni e Rutelli, De Benedetti «lancia un appello urgente: svecchiate la politica, perché l'Italia è al collasso. Se così farete, si sbilancia l'Ingegnere, “la tessera numero 1 del partito democratico la prendo io, se volete”». La condizione di De Benedetti, proseguiva il suo quotidiano, è «che non si parli di contenitori, formule, discorsi surreali, tutte cose “che la gente non vuole e non può capire”». Insomma, c'era un “se” enorme nel suo proposito di tesserarsi. Questo non impedì a tutti i giornali - iniziando proprio da Repubblica ed Espresso - di prenderlo in parola. Anche perché De Benedetti è persona seria, specie quando parla delle sue idee. E infatti nessuno si stupì, il 14 ottobre del 2007, vedendolo in fila davanti a un gazebo per votare Veltroni alle primarie del nuovo partito.
Ieri mattina, quasi tre anni dopo quella sortita. A Omnibus, la trasmissione di Antonello Piroso su La7, è ospite Massimo D'Alema. Con perfidia (per i giornalisti è una qualità) Piroso gli chiede se poi De Benedetti abbia preso davvero la tessera numero 1 del Pd. D'Alema fa una di quelle smorfie contrite che da anni spaccia per sorrisini sarcastici. Risponde: «Non so se De Benedetti abbia una tessera del Partito democratico. Se ce l'ha mi fa piacere, però la tessera numero 1 ce l'ha Walter Veltroni, il segretario del partito, che è stato scelto con le primarie da milioni di italiani».
Ora, sul fatto che De Benedetti non possa avere la prima tessera del partito, non ci piove. È ovvio che essa spetta al segretario. Ma una tessera di questo benedetto partito, una qualunque, l'Ingegnere se l'è presa oppure no? La risposta la dà lo stesso De Benedetti, dopo poco, alle agenzie di stampa: «Non ho mai avuto, non ho e non avrò mai la tessera di alcun partito». E quell'impegno a essere il primo iscritto al Pd? «Speravo che le battute fossero valutate come tali», replica. E la chiude così, senza manco una mezza parola di consolazione per il povero Veltroni.
Nessun dubbio che ieri De Benedetti fosse sincero. Ma è vero anche che all'epoca, quando la notizia fu ripresa da tutti i giornali (iniziando dai suoi, è giusto ripeterlo) lui si guardò bene dal liquidare come «battuta» la sua affiliazione al Partito democratico. Resta una sola spiegazione, allora. E cioè che in questi tre anni, nel rapporto che lega l'imprenditore a una creatura che riteneva anche sua, si è rotto qualcosa d'importante. E non è difficile capire di cosa si tratti. I dioscuri su cui aveva puntato nel 2005 hanno fatto quella che a Roma chiamano “una finaccia”. Veltroni è stato asfaltato alle elezioni politiche da Silvio Berlusconi. Il che ci stava pure, viste le premesse da cui partiva. Quello che non ci sta, invece, è ciò che è avvenuto dopo il voto, con un Pd sempre più piccolo e spaventato, privo di una direzione chiara e sottoposto a un'emorragia di consensi che mette in dubbio la sopravvivenza politica del suo leader. Rutelli, dal canto suo, ha perso contro Gianni Alemanno una battaglia nella quale nessuno avrebbe puntato sul suo avversario.
Soprattutto, il partito democratico si è incartato proprio su quello che De Benedetti aveva chiesto di tenere lontano: «Contenitori, formule, discorsi surreali». L'America è lontana, dall'altra parte della Luna. Il distacco, del resto, non è certo maturato ieri. Già a fine aprile l'Ingegnere aveva freddato i suoi amici di un tempo: «Questo giocare a dama con i candidati probabilmente non è ciò che la gente si aspetta», aveva detto commentando la batosta rimediata da Rutelli a Roma dopo la sua staffetta con Veltroni. C'è poco da fare: ai grandi imprenditori la puzza dei perdenti non è mai piaciuta. Specie se danno l'impressione di volersi abbonare alla sconfitta.
© Libero. Pubblicato il 19 settembre 2008.
Gli elettori sono tutti uguali, specie a sinistra. Ma alcuni, pure lì, sono un po' più uguali degli altri. Carlo De Benedetti, ad esempio, non è un qualunque elettore del partito democratico. Non tanto per il suo patrimonio o per il fatto di essere l'editore di Repubblica, dell'Espresso e di una sfilza di quotidiani locali, tutti più o meno simpatizzanti per il centrosinistra. Ma perché lui, l'Ingegnere, del Pd è stato un po' il padre che gli ha trasmesso la scintilla della vita, un po' l'ostetrica che l'ha aiutato a venire al mondo. Amante della politica intesa come confronto tra grandi progetti, innamorato della democrazia americana, di convinzioni solidamente liberal (anche se questo non gli impedisce di essere amico del repubblicano George Bush, padre dell'attuale presidente americano), De Benedetti viaggia dieci anni in anticipo rispetto alla classe politica del centrosinistra italiano. È stato lui il primo a spingere, seguito dai suoi giornali, affinché anche dalle nostre parti si creasse qualcosa di simile al grande partito che fu di Thomas Jefferson e di Franklin Delano Roosevelt, e che ora prova a lanciare Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Così, le parole con cui ieri De Benedetti ha detto di non avere alcuna intenzione di prendere la tessera del partito democratico di Walter Veltroni, malgrado la “normalità” con cui lui stesso cerchi di avvolgerle, hanno il sapore amaro del sogno che si rompe. E suonano come l'ennesimo attestato ufficiale di delusione recapitato all'indirizzo del segretario del Pd.
Tre anni fa la musica era molto diversa. Era il 30 novembre del 2005. Al governo c'era Silvio Berlusconi, ma si sarebbe votato di lì a pochi mesi e già si dava per scontato l'arrivo di Romano Prodi a palazzo Chigi, come infatti avvenne. Il Pd era ancora un disegno abbozzato. De Benedetti si presentò al convegno di “Idee”, una fondazione vicina alla Margherita, per discuterne proprio con Veltroni e con Francesco Rutelli, i due esponenti del centrosinistra più coinvolti nel progetto. Il giorno dopo, i quotidiani titolarono che De Benedetti aveva prenotato la tessera numero 1 del futuro partito. In realtà il presidente della Cir aveva detto qualcosa di un po' più complesso. Lo spiegò bene - per ovvi motivi - proprio la cronaca di Repubblica. Rileggiamola: rivolto a Veltroni e Rutelli, De Benedetti «lancia un appello urgente: svecchiate la politica, perché l'Italia è al collasso. Se così farete, si sbilancia l'Ingegnere, “la tessera numero 1 del partito democratico la prendo io, se volete”». La condizione di De Benedetti, proseguiva il suo quotidiano, è «che non si parli di contenitori, formule, discorsi surreali, tutte cose “che la gente non vuole e non può capire”». Insomma, c'era un “se” enorme nel suo proposito di tesserarsi. Questo non impedì a tutti i giornali - iniziando proprio da Repubblica ed Espresso - di prenderlo in parola. Anche perché De Benedetti è persona seria, specie quando parla delle sue idee. E infatti nessuno si stupì, il 14 ottobre del 2007, vedendolo in fila davanti a un gazebo per votare Veltroni alle primarie del nuovo partito.
Ieri mattina, quasi tre anni dopo quella sortita. A Omnibus, la trasmissione di Antonello Piroso su La7, è ospite Massimo D'Alema. Con perfidia (per i giornalisti è una qualità) Piroso gli chiede se poi De Benedetti abbia preso davvero la tessera numero 1 del Pd. D'Alema fa una di quelle smorfie contrite che da anni spaccia per sorrisini sarcastici. Risponde: «Non so se De Benedetti abbia una tessera del Partito democratico. Se ce l'ha mi fa piacere, però la tessera numero 1 ce l'ha Walter Veltroni, il segretario del partito, che è stato scelto con le primarie da milioni di italiani».
Ora, sul fatto che De Benedetti non possa avere la prima tessera del partito, non ci piove. È ovvio che essa spetta al segretario. Ma una tessera di questo benedetto partito, una qualunque, l'Ingegnere se l'è presa oppure no? La risposta la dà lo stesso De Benedetti, dopo poco, alle agenzie di stampa: «Non ho mai avuto, non ho e non avrò mai la tessera di alcun partito». E quell'impegno a essere il primo iscritto al Pd? «Speravo che le battute fossero valutate come tali», replica. E la chiude così, senza manco una mezza parola di consolazione per il povero Veltroni.
Nessun dubbio che ieri De Benedetti fosse sincero. Ma è vero anche che all'epoca, quando la notizia fu ripresa da tutti i giornali (iniziando dai suoi, è giusto ripeterlo) lui si guardò bene dal liquidare come «battuta» la sua affiliazione al Partito democratico. Resta una sola spiegazione, allora. E cioè che in questi tre anni, nel rapporto che lega l'imprenditore a una creatura che riteneva anche sua, si è rotto qualcosa d'importante. E non è difficile capire di cosa si tratti. I dioscuri su cui aveva puntato nel 2005 hanno fatto quella che a Roma chiamano “una finaccia”. Veltroni è stato asfaltato alle elezioni politiche da Silvio Berlusconi. Il che ci stava pure, viste le premesse da cui partiva. Quello che non ci sta, invece, è ciò che è avvenuto dopo il voto, con un Pd sempre più piccolo e spaventato, privo di una direzione chiara e sottoposto a un'emorragia di consensi che mette in dubbio la sopravvivenza politica del suo leader. Rutelli, dal canto suo, ha perso contro Gianni Alemanno una battaglia nella quale nessuno avrebbe puntato sul suo avversario.
Soprattutto, il partito democratico si è incartato proprio su quello che De Benedetti aveva chiesto di tenere lontano: «Contenitori, formule, discorsi surreali». L'America è lontana, dall'altra parte della Luna. Il distacco, del resto, non è certo maturato ieri. Già a fine aprile l'Ingegnere aveva freddato i suoi amici di un tempo: «Questo giocare a dama con i candidati probabilmente non è ciò che la gente si aspetta», aveva detto commentando la batosta rimediata da Rutelli a Roma dopo la sua staffetta con Veltroni. C'è poco da fare: ai grandi imprenditori la puzza dei perdenti non è mai piaciuta. Specie se danno l'impressione di volersi abbonare alla sconfitta.
© Libero. Pubblicato il 19 settembre 2008.