Padoa-Schioppa ha perso. Dovrebbe dimettersi
di Fausto Carioti
Dimissioni. Tommaso Padoa-Schioppa dovrebbe farci un pensierino sopra. La richiesta che gli è arrivata ieri dal centrodestra, dopo che il consiglio di Stato ha confermato quanto aveva già detto il Tar del Lazio, e cioè che Angelo Petroni deve essere reintegrato nel Cda della Rai, sarà pure dettata dalle esigenze sceniche del teatrino della politica. Ma ha le sue forti motivazioni politiche. Sulla cacciata di Angelo Petroni dal vertice di viale Mazzini, e la sua sostituzione con un uomo Iri di vecchio corso - il sempre più imbarazzato Fabiano Fabiani - Padoa-Schioppa si è giocato tutto. Si è esposto in prima persona, ha messo la sua faccia sull’intera operazione. Dieci giorni giorni fa, intervistato da Fabio Fazio su Rai Tre, davanti a qualche milione di telespettatori, il ministro si era detto sicuro della legittimità dell’epurazione: «Sono convinto che il ricorso che faremo al Consiglio di Stato darà ragione al ministero». Adesso, fallita l’operazione perché la magistratura amministrativa l’ha ritenuta un tentativo maldestro di piegare le leggi alle convenienze della sinistra, chi l’ha condotta dovrebbe trarne le conseguenze. Persa la faccia in modo tanto plateale, il ministro dell’Economia dovrebbe riflettere se sia più dignitoso perdere con essa anche il posto oppure restare in sella e fare finta di niente, malgrado il suo operato sia stato bocciato senza pietà dall’organismo dello Stato che era chiamato a giudicarla.
Professore universitario apprezzato, liberale, dotato di solidi contatti anche a Londra e Washington, Petroni era stato chiamato nel consiglio d’amministrazione di viale Mazzini, nel maggio del 2005, dal predecessore di Padoa-Schioppa, Giulio Tremonti, in rappresentanza del Tesoro. Per mandarlo via, l’attuale ministro, che va fiero del suo status di tecnico d’eccellenza, si è comportato come un assessore di quart’ordine alle prese con l’ultimo dei consulenti. Perché è vero che lo spoil system non lo ha inventato Padoa-Schioppa e che, quando si tratta di piazzare gli amici nei posti chiave della pubblica amministrazione, il più pulito dei politici romani ha la rogna. Ma il ministro ha gestito l’intera operazione nel peggiore dei modi, cacciando Petroni senza avere il minimo appiglio giuridico per farlo. Il prezzo lo paga quella Rai che, nell’immaginario di una certa sinistra, è vittima solo delle macchinazioni berlusconiane.
La posizione di Padoa-Schioppa è imbarazzante perché i giudici amministrativi non hanno creduto alla sua versione. Che, in effetti, fa acqua da tutte le parti. Più volte, infatti, il ministro, anche riferendo alla commissione di vigilanza sulla Rai, ha ammesso di non aver alcunché da rimproverare a Petroni. Ne ha sempre dato giudizi positivi, dipingendolo come un professionista serio e preparato. Ha ammesso di conoscerlo da anni e di stimarlo in quanto «persona di qualità». Né Padoa-Schioppa può lamentarsi che Petroni abbia “disobbedito” nel periodo in cui ha rappresentato il suo ministero nel Cda di viale Mazzini: «Io non ho mai chiesto al professor Petroni di comportarsi in un particolare modo», ha detto il ministro in parlamento nel maggio del 2007. «Il motivo per cui ho agito», proseguiva, «non ha a che vedere con i contenuti del suo modo di votare o non votare nelle sedute del Consiglio».
Se non aveva colpe, forse la presenza di Petroni sarà stata in qualche modo negativa per la Rai, e quindi la sua rimozione avrà rimediato al guaio. Ma non è nemmeno questo il caso, e ancora una volta sono le stesse parole del ministro a scagionare Petroni: «A mio giudizio», ha detto Padoa-Schioppa davanti alla commissione di vigilanza, «la disfunzione è dell’intero consiglio di amministrazione. Lo ripeto: dell’intero consiglio di amministrazione». Perché, allora, ha deciso di silurarlo? La risposta di Padoa-Schioppa è stata raggelante: «Non avevo mezzi utili per operare sugli altri membri del consiglio».
La versione del ministro, dunque, è che i consiglieri d’amministrazione della Rai fossero tutti da cambiare, ma siccome lui non aveva il potere di farlo se l’è presa con l’unico che poteva cacciare. Per sostituirlo con un personaggio, Fabiani, serio e preparato come Petroni, al quale Padoa-Schioppa giura che non darà alcuna indicazione, proprio come fatto con Petroni: «So perfettamente», sono le parole del ministro, «che, in una società per azioni, l’azionista non dà ordini al consigliere: lo nomina, e questo opera in indipendenza, per il bene dell’azienda».
Insomma, il ministro dapprima è stato costretto a riconoscere di non aver avuto alcun motivo, né personale né professionale, per cacciare Petroni. Quindi ha assicurato di averlo rimpiazzato con un personaggio di analogo spessore umano e manageriale. Al tempo stesso, era consapevole che questa sostituzione non sarebbe servita a cambiare le cose. Sia perché Fabiani, al pari di Petroni, non prenderà ordini da lui, sia perché per rendere governabile la Rai avrebbe dovuto cambiare l’intero consiglio d’amministrazione. Tutto questo giurando e spergiurando di non avere «perseguito alcuna finalità politica». Niente di strano che i magistrati non l’abbiano bevuta.
Quella del ministro, hanno sentenziato i giudici del Tar reintegrando Petroni nel Cda della Rai, è stata «una operazione di chiaro stampo politico, ma indebitamente realizzata con strumenti legali finalizzati a ben altri scopi». A Padoa-Schioppa, che pretendeva di sospendere l’ordinanza del Tar, ieri il consiglio di Stato ha risposto picche. Ci saranno altri strascichi legali: è atteso il giudizio di merito del Consiglio di Stato, e potranno volerci mesi. Chissà se Padoa-Schioppa sarà ancora al suo posto, e se ci sarà sempre il governo Prodi. Intanto Petroni ha vinto. Il povero Fabiani, che - a suggello della sua indipendenza dalla politica - aveva festeggiato la nomina andando a cena con Romano Prodi, è costretto a fare gli scatoloni e lasciare l’ufficio. La Rai è sempre più nel caos. Basta questo, per far dimettere chi ha scatenato l’intero putiferio, o ci vuole altro?
© Libero. Pubblicato il 5 dicembre 2007.
Dimissioni. Tommaso Padoa-Schioppa dovrebbe farci un pensierino sopra. La richiesta che gli è arrivata ieri dal centrodestra, dopo che il consiglio di Stato ha confermato quanto aveva già detto il Tar del Lazio, e cioè che Angelo Petroni deve essere reintegrato nel Cda della Rai, sarà pure dettata dalle esigenze sceniche del teatrino della politica. Ma ha le sue forti motivazioni politiche. Sulla cacciata di Angelo Petroni dal vertice di viale Mazzini, e la sua sostituzione con un uomo Iri di vecchio corso - il sempre più imbarazzato Fabiano Fabiani - Padoa-Schioppa si è giocato tutto. Si è esposto in prima persona, ha messo la sua faccia sull’intera operazione. Dieci giorni giorni fa, intervistato da Fabio Fazio su Rai Tre, davanti a qualche milione di telespettatori, il ministro si era detto sicuro della legittimità dell’epurazione: «Sono convinto che il ricorso che faremo al Consiglio di Stato darà ragione al ministero». Adesso, fallita l’operazione perché la magistratura amministrativa l’ha ritenuta un tentativo maldestro di piegare le leggi alle convenienze della sinistra, chi l’ha condotta dovrebbe trarne le conseguenze. Persa la faccia in modo tanto plateale, il ministro dell’Economia dovrebbe riflettere se sia più dignitoso perdere con essa anche il posto oppure restare in sella e fare finta di niente, malgrado il suo operato sia stato bocciato senza pietà dall’organismo dello Stato che era chiamato a giudicarla.
Professore universitario apprezzato, liberale, dotato di solidi contatti anche a Londra e Washington, Petroni era stato chiamato nel consiglio d’amministrazione di viale Mazzini, nel maggio del 2005, dal predecessore di Padoa-Schioppa, Giulio Tremonti, in rappresentanza del Tesoro. Per mandarlo via, l’attuale ministro, che va fiero del suo status di tecnico d’eccellenza, si è comportato come un assessore di quart’ordine alle prese con l’ultimo dei consulenti. Perché è vero che lo spoil system non lo ha inventato Padoa-Schioppa e che, quando si tratta di piazzare gli amici nei posti chiave della pubblica amministrazione, il più pulito dei politici romani ha la rogna. Ma il ministro ha gestito l’intera operazione nel peggiore dei modi, cacciando Petroni senza avere il minimo appiglio giuridico per farlo. Il prezzo lo paga quella Rai che, nell’immaginario di una certa sinistra, è vittima solo delle macchinazioni berlusconiane.
La posizione di Padoa-Schioppa è imbarazzante perché i giudici amministrativi non hanno creduto alla sua versione. Che, in effetti, fa acqua da tutte le parti. Più volte, infatti, il ministro, anche riferendo alla commissione di vigilanza sulla Rai, ha ammesso di non aver alcunché da rimproverare a Petroni. Ne ha sempre dato giudizi positivi, dipingendolo come un professionista serio e preparato. Ha ammesso di conoscerlo da anni e di stimarlo in quanto «persona di qualità». Né Padoa-Schioppa può lamentarsi che Petroni abbia “disobbedito” nel periodo in cui ha rappresentato il suo ministero nel Cda di viale Mazzini: «Io non ho mai chiesto al professor Petroni di comportarsi in un particolare modo», ha detto il ministro in parlamento nel maggio del 2007. «Il motivo per cui ho agito», proseguiva, «non ha a che vedere con i contenuti del suo modo di votare o non votare nelle sedute del Consiglio».
Se non aveva colpe, forse la presenza di Petroni sarà stata in qualche modo negativa per la Rai, e quindi la sua rimozione avrà rimediato al guaio. Ma non è nemmeno questo il caso, e ancora una volta sono le stesse parole del ministro a scagionare Petroni: «A mio giudizio», ha detto Padoa-Schioppa davanti alla commissione di vigilanza, «la disfunzione è dell’intero consiglio di amministrazione. Lo ripeto: dell’intero consiglio di amministrazione». Perché, allora, ha deciso di silurarlo? La risposta di Padoa-Schioppa è stata raggelante: «Non avevo mezzi utili per operare sugli altri membri del consiglio».
La versione del ministro, dunque, è che i consiglieri d’amministrazione della Rai fossero tutti da cambiare, ma siccome lui non aveva il potere di farlo se l’è presa con l’unico che poteva cacciare. Per sostituirlo con un personaggio, Fabiani, serio e preparato come Petroni, al quale Padoa-Schioppa giura che non darà alcuna indicazione, proprio come fatto con Petroni: «So perfettamente», sono le parole del ministro, «che, in una società per azioni, l’azionista non dà ordini al consigliere: lo nomina, e questo opera in indipendenza, per il bene dell’azienda».
Insomma, il ministro dapprima è stato costretto a riconoscere di non aver avuto alcun motivo, né personale né professionale, per cacciare Petroni. Quindi ha assicurato di averlo rimpiazzato con un personaggio di analogo spessore umano e manageriale. Al tempo stesso, era consapevole che questa sostituzione non sarebbe servita a cambiare le cose. Sia perché Fabiani, al pari di Petroni, non prenderà ordini da lui, sia perché per rendere governabile la Rai avrebbe dovuto cambiare l’intero consiglio d’amministrazione. Tutto questo giurando e spergiurando di non avere «perseguito alcuna finalità politica». Niente di strano che i magistrati non l’abbiano bevuta.
Quella del ministro, hanno sentenziato i giudici del Tar reintegrando Petroni nel Cda della Rai, è stata «una operazione di chiaro stampo politico, ma indebitamente realizzata con strumenti legali finalizzati a ben altri scopi». A Padoa-Schioppa, che pretendeva di sospendere l’ordinanza del Tar, ieri il consiglio di Stato ha risposto picche. Ci saranno altri strascichi legali: è atteso il giudizio di merito del Consiglio di Stato, e potranno volerci mesi. Chissà se Padoa-Schioppa sarà ancora al suo posto, e se ci sarà sempre il governo Prodi. Intanto Petroni ha vinto. Il povero Fabiani, che - a suggello della sua indipendenza dalla politica - aveva festeggiato la nomina andando a cena con Romano Prodi, è costretto a fare gli scatoloni e lasciare l’ufficio. La Rai è sempre più nel caos. Basta questo, per far dimettere chi ha scatenato l’intero putiferio, o ci vuole altro?
© Libero. Pubblicato il 5 dicembre 2007.