Silenzio: a Parigi c'è l'Intifada

di Fausto Carioti

Puntuale, l’autocensura è scattata pure stavolta. A leggere i giornali - anche quelli italiani - e a guardare i servizi televisivi, uno si fa l’idea che in Francia gruppi di non meglio precisati «giovani» stiano mettendo a ferro e fuoco i sobborghi parigini per motivi alquanto confusi. Insomma, stanno cercando di vendercela come una «rivolta generazionale», una replica del maggio parigino in versione proletaria e suburbana. Piccolo dettaglio: dei rivoltosi delle banlieues, due su tre si chiamano Mohammed. Sono giovani, certo, ma in grandissima parte sono anche musulmani. I giornali lo sanno, gli operatori televisivi lo sanno, i politici lo sanno. Ma tutti, al di qua e al di là delle Alpi, si affannano a imitare le tre scimmiette: meglio non vedere, non sentire e non raccontare. È diventato politicamente scorretto persino fotografare la realtà e trarne l’ovvia conseguenza. E cioè che quello che sta andando in scena nelle banlieues queste notti è il fallimento dell’integrazione degli immigrati islamici nella società francese. La ricetta “liberté, egalité, fraternité” con loro non ha funzionato. Il risultato è che nel cuore dell’Europa, a Parigi, oggi c’è l’Intifada. Ma dirlo è vietato.

Eppure è il terzo anno consecutivo che succede. Sempre nello stesso periodo. Gli scontri iniziarono nel novembre del 2005, a Clichy-sous-Bois, uno dei tanti sobborghi parigini, quando due giovanissimi, figli di immigrati, morirono folgorati da una centralina elettrica mentre scappavano dalla polizia. Le tre settimane di violenza che ne seguirono coinvolsero 274 città francesi. Un civile di 61 anni rimase ucciso e furono feriti 126 tra poliziotti e pompieri. Vennero incendiati trecento edifici e novemila automobili. Il filosofo Alain Finkielkraut scandalizzò i benpensanti dicendo la banale verità: «Il problema è che gran parte di questi giovani sono neri o arabi, con una identità musulmana. In Francia ci sono altri immigrati la cui situazione è difficile - cinesi, vietnamiti, portoghesi - ma costoro non stanno prendendo parte agli scontri. Quindi, è chiaro che questa è una rivolta con una caratterizzazione etnico-religiosa». Tra i pochi a difendere Finkielkraut dall’accusa di razzismo ci fu Nicolas Sarkozy, all’epoca ministro dell’Interno. Daniel Pipes, studioso dell’Islam, scrisse che «i principali organi della carta stampata e i network radio-televisivi preferiscono ignorare l’espansione dell’ideologia islamista, con le sue posizioni ferocemente antifrancesi e la sua cruda ambizione di dominare il paese e rimpiazzare la civiltà autoctona con quella islamica».

Si replicò nell’ottobre del 2006. Il capo di un sindacato di polizia, Michel Thooris, disse a Sarkozy che quella dei sobborghi parigini era ormai diventata una «Intifada permanente». Non scelse il termine a caso: in un’intervista il poliziotto raccontò che molti dei giovani aggressori gridavano «Allah Akbar» (Allah è grande) mentre lanciavano pietre contro le vetture degli agenti.

Ora si è ricominciato. La sera del 25 novembre due ragazzi, anche in questo caso figli d’immigrati, a bordo di una motocicletta rubata e senza indossare il casco, hanno centrato una vettura della polizia e sono rimasti uccisi. Sulla dinamica dell’incidente non sembrano esserci dubbi, ma la rabbia è esplosa comunque e i primi a farne le spese sono stati i poliziotti. «Stavolta è molto peggio del 2005», raccontano gli agenti all’agenzia Reuters. «Il segno è stato passato la notte scorsa, quando sono apparse armi da fuoco». Per Omar Sehhouli, fratello di uno dei due ragazzi morti, le aggressioni sono giustificate. «Non è violenza», ha detto alla France Press, «ma solo rabbia che ha bisogno di essere espressa». Gli agguati alle forze dell’ordine, intanto, si sono fatti sempre più precisi e coordinati: le banlieues si stanno militarizzando.

Uno dei pochi che ha rotto la congiura del silenzio è Jacques Myard, un parlamentare dell’Ump, il partito del presidente Sarkozy. Ma anche lui ha dovuto ricorrere a una sofferta perifrasi, evitando di nominare l’Islam e i suoi fedeli. I disordini di queste notti, ha detto ieri Myard, sono il prodotto di una «appartenenza etno-culturale antifrancese di una società straniera che si è costituita sul suolo metropolitano e che si nutre di razzismo ordinario antifrancese, nonostante che questi rivoltosi abbiano la cittadinanza francese». In parole povere, la colpa è degli immigrati di origine araba e fede islamica, rimasti stranieri in terra straniera anche quando hanno il passaporto blu, bianco e rosso.

Niente di nuovo sotto la torre Eiffel: nell’ottobre del 2001, all’inizio della partita di calcio amichevole tra la Francia e l’Algeria, appena si sentirono le prime note della Marsigliese, dagli spalti dello stadio di Parigi volarono fischi e insulti. E quando la Francia segnò la quarta rete ci fu un’invasione di campo che interruppe la partita. Erano gli stessi «giovani» che di lì a breve avrebbero messo a ferro e fuoco le periferie francesi.

© Libero. Pubblicato il 28 novembre 2007.

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