Noi, il semaforo e lo Stato
di Fausto Carioti
A cosa serve lo Stato? A fregare noi cittadini o a darci una mano a convivere senza scannarci troppo? Spernacchiati tutti i rappresentanti della pubblica autorità, dagli onorevoli in auto blu ai magistrati ai maestri elementari, a rappresentare lo Stato in maniera decente restava davvero poca roba. I carabinieri, i poliziotti e gli altri poveri cristi che rischiano la pelle per 1.200 euro al mese. E poi c’erano loro, i semafori, simboli dello Stato amico. Piace a sinistra, il semaforo, perché è democratico e livella verso il basso: davanti a quella luce rossa si debbono fermare tutti, dall’imprenditore in Maserati all’immigrato che guida la Fiat Ritmo di sesta mano. E in fondo piace anche a destra, perché sembra incarnare quello Stato minimo che sognano i liberali: evita incidenti e salva vite umane, e lo fa senza pesare sulle tasche del contribuente e senza andare in permesso per malattia alle Bahamas. Ecco, se avevamo certe convinzioni sarà meglio liberarcene subito. Il semaforo è diventato tale e quale a tanti altri pezzi della pubblica amministrazione: prepotente, ingiusto, costosissimo e vigliacco.
Si è scoperto ieri a Segrate, nel milanese, dove un pubblico ministero ha iscritto nel registro degli indagati il comandante dei vigili urbani, un funzionario del Comune e i titolari di due aziende private. I quattro, secondo l’accusa, avevano trasformato i semafori lungo la via Cassanese in raffinati strumenti per spennare gli automobilisti. La durata del giallo era talmente breve che era impossibile giungere alla parte opposta della strada senza incappare nel rosso. E siccome gli impianti erano collegati a un sistema automatico di rilevazione delle infrazioni, le multe fioccavano: trentamila in sette mesi. Per la gioia delle casse del comune di Segrate, che rimpinguava così le sue entrate. E per la felicità della ditta appaltatrice, che secondo l’avvocato che ha presentato l’esposto (firmato da 110 incavolatissimi cittadini) incassava il 25% di ogni contravvenzione.
Niente di nuovo. Se i sospetti della procura dovessero rivelarsi fondati (s’indaga anche sui criteri con cui è stato concesso l’appalto) avremmo solo la conferma che a Milano, come sempre, sono riusciti a portare ai massimi livelli d’efficienza quello che nel resto d’Italia si fa in modo un po’ più artigianale. Quando un sindaco ha bisogno di soldi, vuoi perché ha assunto un paio di nuovi consulenti, vuoi perché lo Stato centrale gli ha ridotto i fondi, manda in giro i vigili e gli ausiliari del traffico col blocchetto delle multe in mano. Piuttosto che ridurre le spese, meglio mettere mano al portafogli. Purché sia quello degli altri. La trappola di Segrate non è diversa da quelle che attendono gli automobilisti in tante strade d’Italia, dove le volanti con gli Autovelox li aspettano nascoste, magari dietro una curva al termine di una discesa. Se il loro scopo fosse evitare gli incidenti, gli agenti starebbero in bella evidenza lungo il ciglio della strada, a rallentare gli automobilisti con la paletta in mano. Ma il loro scopo, troppo spesso, è solo fare multe.
Eppure il vigile, il poliziotto, il netturbino e il semaforo sono i metri con cui il cittadino misura il suo rapporto con lo Stato. La grande rabbia del Nordest, negli anni Novanta, nacque e crebbe anche a causa di episodi come quello di Segrate. Sulle sponde del Piave, a Motta di Livenza, la mattina del 9 agosto del ’95 un uomo e la moglie incinta furono travolti da un camion che non aveva rispettato il segnale di stop (l’episodio è raccontato nel libro “Schei”, di Gian Antonio Stella). Gli abitanti della zona chiedevano da dodici anni che quell’incrocio fosse regolato da un semaforo. Il semaforo c’era, ma stava spento: essendo all’incrocio tra una strada provinciale e una comunale, le amministrazioni locali non si erano messe d’accordo su chi doveva pagarne la manutenzione. Il direttore del Gazzettino, Giorgio Lago, scrisse un editoriale furibondo: «Quel semaforo è in realtà l’Italia, il nostro Stato, la nostra pazzia. Dicono che c’è in giro tanta violenza. Ma quale violenza! Vedo in giro tanta pazienza, tanta resistenza civile, tanta speranza nonostante tutto».
Certo, stavolta non c’è il morto, e la differenza non è da poco. Ma anche quel semaforo alle porte di Milano è una metafora dello Stato italiano e delle sue follie. E la domanda di Segrate è la stessa di Motta di Livenza: che cos’è lo Stato? Perché lo paghiamo? È il nostro servitore o il nostro aguzzino?
© Libero. Pubblicato il 12 ottobre 2007.
A cosa serve lo Stato? A fregare noi cittadini o a darci una mano a convivere senza scannarci troppo? Spernacchiati tutti i rappresentanti della pubblica autorità, dagli onorevoli in auto blu ai magistrati ai maestri elementari, a rappresentare lo Stato in maniera decente restava davvero poca roba. I carabinieri, i poliziotti e gli altri poveri cristi che rischiano la pelle per 1.200 euro al mese. E poi c’erano loro, i semafori, simboli dello Stato amico. Piace a sinistra, il semaforo, perché è democratico e livella verso il basso: davanti a quella luce rossa si debbono fermare tutti, dall’imprenditore in Maserati all’immigrato che guida la Fiat Ritmo di sesta mano. E in fondo piace anche a destra, perché sembra incarnare quello Stato minimo che sognano i liberali: evita incidenti e salva vite umane, e lo fa senza pesare sulle tasche del contribuente e senza andare in permesso per malattia alle Bahamas. Ecco, se avevamo certe convinzioni sarà meglio liberarcene subito. Il semaforo è diventato tale e quale a tanti altri pezzi della pubblica amministrazione: prepotente, ingiusto, costosissimo e vigliacco.
Si è scoperto ieri a Segrate, nel milanese, dove un pubblico ministero ha iscritto nel registro degli indagati il comandante dei vigili urbani, un funzionario del Comune e i titolari di due aziende private. I quattro, secondo l’accusa, avevano trasformato i semafori lungo la via Cassanese in raffinati strumenti per spennare gli automobilisti. La durata del giallo era talmente breve che era impossibile giungere alla parte opposta della strada senza incappare nel rosso. E siccome gli impianti erano collegati a un sistema automatico di rilevazione delle infrazioni, le multe fioccavano: trentamila in sette mesi. Per la gioia delle casse del comune di Segrate, che rimpinguava così le sue entrate. E per la felicità della ditta appaltatrice, che secondo l’avvocato che ha presentato l’esposto (firmato da 110 incavolatissimi cittadini) incassava il 25% di ogni contravvenzione.
Niente di nuovo. Se i sospetti della procura dovessero rivelarsi fondati (s’indaga anche sui criteri con cui è stato concesso l’appalto) avremmo solo la conferma che a Milano, come sempre, sono riusciti a portare ai massimi livelli d’efficienza quello che nel resto d’Italia si fa in modo un po’ più artigianale. Quando un sindaco ha bisogno di soldi, vuoi perché ha assunto un paio di nuovi consulenti, vuoi perché lo Stato centrale gli ha ridotto i fondi, manda in giro i vigili e gli ausiliari del traffico col blocchetto delle multe in mano. Piuttosto che ridurre le spese, meglio mettere mano al portafogli. Purché sia quello degli altri. La trappola di Segrate non è diversa da quelle che attendono gli automobilisti in tante strade d’Italia, dove le volanti con gli Autovelox li aspettano nascoste, magari dietro una curva al termine di una discesa. Se il loro scopo fosse evitare gli incidenti, gli agenti starebbero in bella evidenza lungo il ciglio della strada, a rallentare gli automobilisti con la paletta in mano. Ma il loro scopo, troppo spesso, è solo fare multe.
Eppure il vigile, il poliziotto, il netturbino e il semaforo sono i metri con cui il cittadino misura il suo rapporto con lo Stato. La grande rabbia del Nordest, negli anni Novanta, nacque e crebbe anche a causa di episodi come quello di Segrate. Sulle sponde del Piave, a Motta di Livenza, la mattina del 9 agosto del ’95 un uomo e la moglie incinta furono travolti da un camion che non aveva rispettato il segnale di stop (l’episodio è raccontato nel libro “Schei”, di Gian Antonio Stella). Gli abitanti della zona chiedevano da dodici anni che quell’incrocio fosse regolato da un semaforo. Il semaforo c’era, ma stava spento: essendo all’incrocio tra una strada provinciale e una comunale, le amministrazioni locali non si erano messe d’accordo su chi doveva pagarne la manutenzione. Il direttore del Gazzettino, Giorgio Lago, scrisse un editoriale furibondo: «Quel semaforo è in realtà l’Italia, il nostro Stato, la nostra pazzia. Dicono che c’è in giro tanta violenza. Ma quale violenza! Vedo in giro tanta pazienza, tanta resistenza civile, tanta speranza nonostante tutto».
Certo, stavolta non c’è il morto, e la differenza non è da poco. Ma anche quel semaforo alle porte di Milano è una metafora dello Stato italiano e delle sue follie. E la domanda di Segrate è la stessa di Motta di Livenza: che cos’è lo Stato? Perché lo paghiamo? È il nostro servitore o il nostro aguzzino?
© Libero. Pubblicato il 12 ottobre 2007.