Doris Lessing nel gregge dei Nobel ideologizzati
di Fausto Carioti
Le dichiarazioni di qualunque Nobel ormai sono sovrapponibili a quelle di Alfonso Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto. La notizia ha il suo aspetto positivo: si può vincere il premio anche senza avere alcunché di originale e intelligente da dire. Resta, però, il dato di fatto: a Stoccolma ed Oslo hanno un problema di credibilità. Certo, basta scorrere l’elenco dei premiati degli ultimi anni - alla rinfusa: Rigoberta Menchú, Yasser Arafat, Kofi Annan, Mohamed El Baradei, Alfonso Perez Esquivel, Dario Fo, Harold Pinter, José Saramago, Günter Grass - per capire che devi essere nemico degli Stati Uniti e della globalizzazione. Se sei americano, come Al Gore e Jimmy Carter, vinci solo se hai detto tutto il male possibile dell’amministrazione Bush. Ma è chiaro che per tutti costoro il premio - anche se concesso per meriti letterari - rappresenta soprattutto un riconoscimento alle loro idee politiche. Il problema nasce quando si uniscono al coro quelli che non hanno mai militato nel gruppo, e che avrebbero dovuto ricevere il Nobel per motivi che con la politica nulla hanno a che vedere. È il caso di Doris Lessing, appena premiata con il Nobel per la letteratura.
Ci sono cascati in tanti. Anche tra quelli bravi. Il 12 ottobre, all’indomani dell’assegnazione del premio alla ottantottenne scrittrice inglese, il Corriere della Sera titolava in prima pagina: «Un Nobel in fuga dalle ideologie». In bella evidenza, la frase della Lessing che avrebbe dovuto distinguerla dai suoi predecessori: «Le ideologie, come le fedi, hanno fatto e continuano a fare un’immensa quantità di male». E siccome questa abiura non l’aveva fatta il giorno prima, ma nel 1986, c’era qualche motivo per sperare che la stoffa della Lessing fosse diversa da quella di chi, gli anni scorsi, ha vinto il suo stesso Nobel. Tipo il poeta portoghese José Saramago, diventato uno dei tanti ambasciatori nel mondo della dittatura di Fidel Castro. O come il drammaturgo inglese Harold Pinter, che nel 2003 arrivò a dire che «c’è un solo paragone per gli Stati Uniti: la Germania nazista». Quanto a Dario Fo, le sue posizioni sono note.
Insomma, c’era la speranza che proprio la Lessing - femminista e comunista - fosse diversa. Fuori dal gregge, quantomeno. Se non altro perché era sempre stata contraria a mettere il suo nome sui soliti manifesti degli intellettuali “impegnati”. Ci è cascato persino Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere. Pochi giorni fa lodava la scrittrice britannica, assieme al suo collega turco Orhan Pamuk (vincitore del Nobel nel 2006), proprio per essersi tenuta distante da certi stereotipi: «Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago e Harold Pinter. E le loro parole», proseguiva Battista, «sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a “funzionario dell’Umanità”».
Intervistata dall’Espresso all’indomani del Nobel, stuzzicata sui soliti argomenti, la Lessing rispondeva: «Diciamo che l’ex primo ministro Tony Blair non era un campione di abilità politica o di sincerità, nonostante avesse delle buone intenzioni, mentre George W. Bush, l’attuale leader d’oltreoceano, non ha neanche le capacità di trovare delle buone soluzioni. Come sarà Gordon Brown lo vedremo». Giudizi critici, insomma, ma niente scenari apocalittici, niente odii personali, niente paragoni deliranti.
L’illusione dura pochi giorni. Sin quando il quotidiano spagnolo El Pais non manda un inviato a casa della Lessing. Sarà il premio appena ottenuto, saranno le telefonate che avrà ricevuto nel frattempo dagli intellettuali militanti che il Nobel lo hanno vinto gli scorsi anni. Fatto sta che da questa intervista, apparsa in Italia su Repubblica, esce una persona diversa. «Ho sempre odiato Tony Blair, fin dall’inizio», racconta la scrittrice a El Pais. «Molti di noi lo odiavano. Credo che sia stato un disastro per la Gran Bretagna, e lo abbiamo subìto per molti anni. L’ho detto da quando fu eletto: è un piccolo showman che ci caccerà nei pasticci, e lo ha fatto». Notare: lo odiava e ne parlava male sin dall’inizio nonostante, per sua stessa ammissione, lo ritenesse dotato di «buone intenzioni». Quanto a Bush, prosegue la Lessing, «è una calamità mondiale, nel mondo nessuno ne può più di quell’uomo».
L’11 settembre poi, assicura la vincitrice del Nobel, non è stato quel gran dramma che credono gli americani. Il terrorismo vero, spiega, non è quello dei fanatici islamici che schiantano due aerei sulle torri gemelle: «Fu terribile, ma se si ripercorre la storia dell’Ira (l’esercito repubblicano irlandese, autore di molti atti terroristici, ndr), gli attentati in America non appaiono così tremendi. Un americano penserebbe che sono pazza. Hanno perso la vita molte persone, sono crollati due edifici prestigiosi, ma non è stato così tremendo, così straordinario come loro credono; sono gente molto ingenua, o fingono di esserlo». E con questo sermoncino su Blair, Bush e gli americani ingenui (cioè scemi) o in malafede, la Lessing getta la maschera e dice addio alla «maggiore sobrietà» e allo «stile più appartato». È una che dice le stesse sciocchezze degli altri trasudando lo stesso identico odio.
La spiegazione può essere più semplice di quanto si creda, e magari è proprio quella che si trova nel saggio dell’economista Carlo Cipolla sulle “leggi fondamentali della stupidità umana”. Cipolla racconta di un esperimento: si analizzò il quoziente intellettivo dei bidelli di un’università e si vide che una percentuale di loro, più elevata del previsto, era composta da stupidi. «Si pensò dapprima che ciò fosse dovuto alla povertà delle famiglie da cui in genere i bidelli provengono e alla loro scarsa istruzione». Ma poi ci si accorse che la stessa percentuale prevaleva anche fra impiegati, studenti e professori. Alla fine, le ricerche furono estese «ad una vera e propria “élite”, cioè i vincitori dei premi Nobel». E si scoprì che una quota alta di costoro, identica a quella presente in tutte le altre categorie, «è costituita da stupidi». Insomma, non basta aver vinto un Nobel per essere immuni dalle fesserie. Casomai qualcuno avesse ancora dubbi.
© Libero. Pubblicato il 23 ottobre 2007.
Le dichiarazioni di qualunque Nobel ormai sono sovrapponibili a quelle di Alfonso Pecoraro Scanio e Oliviero Diliberto. La notizia ha il suo aspetto positivo: si può vincere il premio anche senza avere alcunché di originale e intelligente da dire. Resta, però, il dato di fatto: a Stoccolma ed Oslo hanno un problema di credibilità. Certo, basta scorrere l’elenco dei premiati degli ultimi anni - alla rinfusa: Rigoberta Menchú, Yasser Arafat, Kofi Annan, Mohamed El Baradei, Alfonso Perez Esquivel, Dario Fo, Harold Pinter, José Saramago, Günter Grass - per capire che devi essere nemico degli Stati Uniti e della globalizzazione. Se sei americano, come Al Gore e Jimmy Carter, vinci solo se hai detto tutto il male possibile dell’amministrazione Bush. Ma è chiaro che per tutti costoro il premio - anche se concesso per meriti letterari - rappresenta soprattutto un riconoscimento alle loro idee politiche. Il problema nasce quando si uniscono al coro quelli che non hanno mai militato nel gruppo, e che avrebbero dovuto ricevere il Nobel per motivi che con la politica nulla hanno a che vedere. È il caso di Doris Lessing, appena premiata con il Nobel per la letteratura.
Ci sono cascati in tanti. Anche tra quelli bravi. Il 12 ottobre, all’indomani dell’assegnazione del premio alla ottantottenne scrittrice inglese, il Corriere della Sera titolava in prima pagina: «Un Nobel in fuga dalle ideologie». In bella evidenza, la frase della Lessing che avrebbe dovuto distinguerla dai suoi predecessori: «Le ideologie, come le fedi, hanno fatto e continuano a fare un’immensa quantità di male». E siccome questa abiura non l’aveva fatta il giorno prima, ma nel 1986, c’era qualche motivo per sperare che la stoffa della Lessing fosse diversa da quella di chi, gli anni scorsi, ha vinto il suo stesso Nobel. Tipo il poeta portoghese José Saramago, diventato uno dei tanti ambasciatori nel mondo della dittatura di Fidel Castro. O come il drammaturgo inglese Harold Pinter, che nel 2003 arrivò a dire che «c’è un solo paragone per gli Stati Uniti: la Germania nazista». Quanto a Dario Fo, le sue posizioni sono note.
Insomma, c’era la speranza che proprio la Lessing - femminista e comunista - fosse diversa. Fuori dal gregge, quantomeno. Se non altro perché era sempre stata contraria a mettere il suo nome sui soliti manifesti degli intellettuali “impegnati”. Ci è cascato persino Pierluigi Battista, vicedirettore del Corriere. Pochi giorni fa lodava la scrittrice britannica, assieme al suo collega turco Orhan Pamuk (vincitore del Nobel nel 2006), proprio per essersi tenuta distante da certi stereotipi: «Pamuk e Doris Lessing forse avvertono quanto appaia artificiosa e inautentica la mimesi parodistica dell’engagement inscenata da alcuni loro predecessori al Nobel, in primis José Saramago e Harold Pinter. E le loro parole», proseguiva Battista, «sembrano indicare simultaneamente il bisogno culturale e letterario di una maggiore sobrietà, di uno stile più appartato, di un definitivo congedarsi dalla figura ieratica dell’intellettuale moderno che si atteggia a “funzionario dell’Umanità”».
Intervistata dall’Espresso all’indomani del Nobel, stuzzicata sui soliti argomenti, la Lessing rispondeva: «Diciamo che l’ex primo ministro Tony Blair non era un campione di abilità politica o di sincerità, nonostante avesse delle buone intenzioni, mentre George W. Bush, l’attuale leader d’oltreoceano, non ha neanche le capacità di trovare delle buone soluzioni. Come sarà Gordon Brown lo vedremo». Giudizi critici, insomma, ma niente scenari apocalittici, niente odii personali, niente paragoni deliranti.
L’illusione dura pochi giorni. Sin quando il quotidiano spagnolo El Pais non manda un inviato a casa della Lessing. Sarà il premio appena ottenuto, saranno le telefonate che avrà ricevuto nel frattempo dagli intellettuali militanti che il Nobel lo hanno vinto gli scorsi anni. Fatto sta che da questa intervista, apparsa in Italia su Repubblica, esce una persona diversa. «Ho sempre odiato Tony Blair, fin dall’inizio», racconta la scrittrice a El Pais. «Molti di noi lo odiavano. Credo che sia stato un disastro per la Gran Bretagna, e lo abbiamo subìto per molti anni. L’ho detto da quando fu eletto: è un piccolo showman che ci caccerà nei pasticci, e lo ha fatto». Notare: lo odiava e ne parlava male sin dall’inizio nonostante, per sua stessa ammissione, lo ritenesse dotato di «buone intenzioni». Quanto a Bush, prosegue la Lessing, «è una calamità mondiale, nel mondo nessuno ne può più di quell’uomo».
L’11 settembre poi, assicura la vincitrice del Nobel, non è stato quel gran dramma che credono gli americani. Il terrorismo vero, spiega, non è quello dei fanatici islamici che schiantano due aerei sulle torri gemelle: «Fu terribile, ma se si ripercorre la storia dell’Ira (l’esercito repubblicano irlandese, autore di molti atti terroristici, ndr), gli attentati in America non appaiono così tremendi. Un americano penserebbe che sono pazza. Hanno perso la vita molte persone, sono crollati due edifici prestigiosi, ma non è stato così tremendo, così straordinario come loro credono; sono gente molto ingenua, o fingono di esserlo». E con questo sermoncino su Blair, Bush e gli americani ingenui (cioè scemi) o in malafede, la Lessing getta la maschera e dice addio alla «maggiore sobrietà» e allo «stile più appartato». È una che dice le stesse sciocchezze degli altri trasudando lo stesso identico odio.
La spiegazione può essere più semplice di quanto si creda, e magari è proprio quella che si trova nel saggio dell’economista Carlo Cipolla sulle “leggi fondamentali della stupidità umana”. Cipolla racconta di un esperimento: si analizzò il quoziente intellettivo dei bidelli di un’università e si vide che una percentuale di loro, più elevata del previsto, era composta da stupidi. «Si pensò dapprima che ciò fosse dovuto alla povertà delle famiglie da cui in genere i bidelli provengono e alla loro scarsa istruzione». Ma poi ci si accorse che la stessa percentuale prevaleva anche fra impiegati, studenti e professori. Alla fine, le ricerche furono estese «ad una vera e propria “élite”, cioè i vincitori dei premi Nobel». E si scoprì che una quota alta di costoro, identica a quella presente in tutte le altre categorie, «è costituita da stupidi». Insomma, non basta aver vinto un Nobel per essere immuni dalle fesserie. Casomai qualcuno avesse ancora dubbi.
© Libero. Pubblicato il 23 ottobre 2007.