A un passo dalla crisi diplomatica con gli Usa
di Fausto Carioti
Viene quasi da ridere a scriverla, per quanto appare paradossale. Ma siccome è la verità, tanto vale dire le cose come stanno. Silvio Berlusconi, in politica estera, in questi pochi mesi di governo è riuscito a fare quello che Palmiro Togliatti e i suoi successori alla guida del Pci hanno tentato, senza successo, per mezzo secolo: portare l’Italia nella sfera d’influenza del Cremlino e allontanarla dall’orbita americana. Oggi siamo il Paese occidentale più vicino alla Russia. Che non sarà più il cuore dell’Unione sovietica. Ma resta governata dai figli del Kgb, il servizio segreto del partito comunista. Questo, comunque, sarebbe il meno. La Russia, in fin dei conti, sembra quasi una democrazia e soprattutto ci vende il gas, senza il quale passeremmo l’inverno al freddo e a luci spente. I motivi per un buon matrimonio di convenienza, insomma, ci sarebbero pure. Il problema vero è l’altro: gli Stati Uniti d’America. Perché, se non si fosse ancora capito, siamo a un passo dalla crisi diplomatica con Washington.
Se la situazione non è precipitata è perché George W. Bush è in scadenza di mandato e il suo successore, il democratico Barack Obama, aspetta di essere insediato - accadrà il 20 gennaio - per dare la linea all’America e ai suoi alleati. Ma le cose dette mercoledì a Smirne da Berlusconi hanno lasciato il segno. Le parole con cui si è schierato senza il minimo indugio al fianco della Russia «provocata» dall’installazione dello scudo antimissile americano in Polonia e Repubblica Ceca, dal riconoscimento del Kosovo e dal possibile ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato, sono state conservate e messe da parte sia dagli analisti dello staff di Bush sia da quelli di Obama. I primi perché le «provocazioni» che secondo Berlusconi avrebbe subito la Russia sono, assieme alla guerra in Iraq (che se fosse stato per il Cavaliere non si sarebbe mai fatta) e a quella in Afghanistan, i pilastri della politica estera del presidente uscente. Del quale, a questo punto, l’“amico” Silvio non sembra salvare quasi nulla. La correzione sullo scudo antimissile fatta ieri da Berlusconi, il quale ha detto che «gli Usa hanno il diritto di difendersi da quella che ritengono una minaccia alla loro sicurezza», raddrizza un po’ la direzione, ma non cambia i termini della vicenda.
Gli uomini di Obama, invece, hanno avuto buoni motivi per sospettare che Palazzo Chigi e il Cremlino giochino di sponda. Poco prima di Berlusconi aveva parlato l’ambasciatore russo presso la Ue, Vladimir Chizhov, ribadendo che, se Obama avesse confermato lo scudo, Mosca avrebbe piazzato i missili Iskander a Kaliningrad: una enclave russa sul Baltico, tra Polonia e Lituania, da dove le testate russe terrebbero sotto tiro l’intera Polonia. L’ambasciatore di Putin, nel lanciare questa minaccia, ha detto a Obama che il sostegno per lo scudo americano in Europa è «tiepido», per non dire freddo. Le parole di Berlusconi hanno confermato al nuovo presidente americano che è proprio così.
Niente di strano, insomma, che, mentre Washington preferisce non commentare, ieri dal Cremlino sia arrivato un messaggio di ringraziamento: «Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi sono accolte dalla Russia come passo verso una valutazione adeguata dell’attuale situazione». Di questi tempi, infatti, accadono cose ancora più impensabili. Come sentire il responsabile del “dipartimento della Pace” di Rifondazione Comunista, Alfio Nicotra, dire che «il cambio di posizione del governo italiano sullo scudo antimissile è una buona notizia». Apprezzamenti che potrebbero dare al presidente del Consiglio qualche spunto di riflessione.
Berlusconi - lo ha ribadito anche ieri - è un perenne nostalgico di quello che chiama «lo spirito di Pratica di mare»: nel 2002, al vertice che si tenne alle porte di Roma, riuscì a mediare con successo tra Putin e Bush e ad avviare il dialogo tra i due. Oggi che l’atmosfera ricorda quella della Guerra Fredda, non passa giorno che non invochi il ritorno a quel tempo. Magari tra un anno si scoprirà che faceva bene ad essere fiducioso. Ma al momento gli Stati Uniti ritengono del tutto improponibile una politica nei confronti della Russia simile a quella di sei anni fa, e giudicano fuori dal tempo i tentativi italiani di barcamenarsi tra le due potenze.
Attorno al Mar Caspio, ad esempio, si sta giocando una delle partite più importanti e l’Italia, secondo Washington, indossa la maglia sbagliata. Dalle sponde del Caspio parte il gasdotto che da Baku, in Azerbaigian, passa per Tbilisi, in Georgia, e arriva a Erzurum, in Turchia, dove dovrebbe collegarsi con la conduttura Nabucco, per ora esistente solo sulla carta, e portare così in Europa il gas di Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakistan. Tutto questo - qui è il senso politico dell’operazione, sponsorizzata dal dipartimento di Stato americano - tagliando fuori la Russia. Mosca, infatti, non l’ha presa bene. Da un lato, assieme all’Eni, il Cremlino ha promosso un progetto alternativo, il gasdotto South Stream, che farà arrivare in Europa il gas della società pubblica Gazprom, legata a triplo filo con Putin. Dall’altro, ad agosto, la Russia ha spedito i suoi carri armati in Georgia. I motivi ufficiali erano altri, s’intende, ma è difficile non vedere nei cingolati russi anche un messaggio - molto efficace - volto a dissuadere chiunque abbia voglia di investire sull’infrastruttura rivale. Sia il gasdotto South Stream sia l’intervento militare russo in Georgia hanno avuto la benedizione di Berlusconi e sono stati condannati dalla Casa Bianca, che vuole impedire a Putin, come ha scritto poche settimane fa il Financial Times, di «soggiogare l’Europa attraverso l’energia».
Se il premier si è schierato in modo così deciso, è probabile che qualcuno lo abbia convinto che l’amministrazione Obama intenda fare marcia indietro su molte delle scelte di Bush. Se ciò avvenisse anche nei confronti della Russia, Berlusconi potrebbe dire, a buon diritto, di aver portato il nuovo presidente americano sulle sue posizioni. Ma è ingenuo pensare che Obama voglia cancellare tutta la politica estera statunitense degli ultimi otto anni. Molte delle scelte fatte da Bush, infatti, sono state dettate dagli obbiettivi storici di Washington, dalle alleanze tradizionali e dalle esigenze di approvvigionamento energetico. Tutte cose che non cambieranno con il passaggio dell’amministrazione nelle mani di Obama. Ed è difficile credere che il prossimo presidente americano intenda lasciare spazio libero al nuovo espansionismo russo.
© Libero. Pubblicato il 14 novembre 2008.